Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29651 del 16/11/2018

Cassazione civile sez. II, 16/11/2018, (ud. 20/04/2018, dep. 16/11/2018), n.29651

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 29870/2014 R.G. proposto da:

AVV. T.F., rappresentato e difeso in proprio ex art. 86

c.p.c., con domicilio eletto in Roma, via Paolo Emilio n. 26, presso

lo studio dell’Avv. Loredana Bove;

– ricorrente –

contro

I.P., rappresentato e difeso dall’Avv. Domenico

Romito, con domicilio in Roma, piazza Cavour n. 1, presso la

cancelleria della Corte di Cassazione;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce – Sezione

distaccata di Taranto n. 210 depositata il 12 maggio 2014 e

notificata in data 23 ottobre 2014;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20 aprile

2018 dal Consigliere Milena Falaschi.

Fatto

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO

Ritenuto che:

– con sentenza n. 37 del 2010 il Tribunale di Taranto – Sezione distaccata di Martina Franca – in parziale accoglimento dell’opposizione proposta da I.P. avverso il decreto ingiuntivo n. 108/2005 del 18.4.2005 emesso dal medesimo ufficio, (con cui era stato condannato al pagamento della somma di Euro 15.428,87 in favore dell’Avv. T.F. per competenze professionali relative a due gradi di giudizio svolti nell’interesse dell’ I. dinanzi al tribunale ed alla Corte d’Appello di Roma, oltre a spese ed accessori di legge, nonchè, unitamente ad altri attori ed intervenuti, ed al costo del parere del Consiglio dell’Ordine)… revocava il decreto ingiuntivo opposto, condannando l’ I. al pagamento della sola somma di Euro 540,49, con condanna del T. alla restituzione delle somme indebitamente percepite in esecuzione del decreto ingiuntivo;

– sul gravame proposto dall’Avv. T., la Corte di Appello di Lecce – Sezione distaccata di Taranto, nella resistenza dell’ I., accogliendo parzialmente l’appello in punto di rideterminazione delle somme dovute dall’ I., riconosceva dovuto solo l’ulteriore importo di Euro 117,01 per attività stragiudiziale, confermando nel resto la sentenza impugnata;

– per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Lecce Sezione distaccata di Taranto, ricorre l’appellante sulla base di un unico motivo;

– resiste con controricorso l’intimato;

– in prossimità dell’adunanza camerale entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Atteso che:

– preliminarmente vanno esaminate le deduzioni di inammissibilità del ricorso di cui al controricorso.

La deduzione di tardività del deposito del ricorso è infondata, poichè, dall’annotazione della cancelleria, risulta che il deposito è avvenuto in data 29.12.2014, mentre la notifica è avvenuta in data 16.12.2014.

Al pari, è da ritenere infondata l’eccezione di genericità della doglianza. Ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4, “i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano, secondo quanto previsto dall’art. 366 bis”; a tal proposito il motivo di ricorso del T. è esposto in modo chiaro, indicando con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, ed è conforme ai principi giurisprudenziali in materia di contenuto minimo ed autosufficienza del ricorso in Cassazione;

– sempre in via pregiudiziale va analizzata la censura, di cui alla memoria del ricorrente, circa la invalidità della procura del controricorrente: essa è infondata. Invero, nonostante la mancanza del nome, peraltro puntualmente indicato nel mandato rilasciato ex art. 83 c.p.c., la procura è valida, poichè proveniente dallo stesso soggetto a cui è stato notificato il ricorso;

– venendo al merito, l’unico motivo di ricorso (con il quale si deduce la violazione e falsa applicazione del D.M. n. 585 del 1994, art. 5, comma 4, per avere la Corte territoriale errato nel dividere per il numero degli assistiti l’importo a titolo di onorario calcolato secondo i parametri tabellari, assumendo, il ricorrente, che la norma invocata trova applicazione soltanto nei rapporti di soccombenza giudiziale e non anche nei rapporti di clientela tra professionista e cliente) è infondato per le ragioni che seguono.

Il giudizio ha ad oggetto la materia del compenso professionale dell’Avvocato, e segnatamente del calcolo dell’importo dovuto, allorquando il professionista assista e difenda più persone aventi la stessa posizione processuale, con conseguente applicazione del D.M. n. 585 del 1994, art. 5, comma 4, ratione temporis applicabile al caso in esame. In particolare, l’Avv. T. ha esperito la sua attività in favore di 33 persone per due gradi di giudizio, tutte con posizioni processuali identiche.

La Corte territoriale ha stabilito, salvo riconoscere anche le spese per attività stragiudiziale, la correttezza del sistema di calcolo degli onorari, applicato dal Tribunale, sulla scorta dei parametri tabellari D.M. n. 585 del 1994, ex art. 5, comma 4, basato sulla determinazione di un unico onorario, aumentato come per legge per ogni parte del 20% per i primi dieci e del 5% per gli ulteriori dieci, da dividersi poi per tutte le posizioni processuali (in numero di 33), condannando così l’ I. al pagamento, in favore dell’Avv. T., della somma di Euro 657,50, pari ad 1/33 dell’intero onorario.

Invero, l’art. 5, comma 4, della citata tariffa stabilisce un principio di carattere generale, non riferito, quindi, al solo soccombente ma anche al cliente, per cui, in caso di identità di posizioni processuali, va liquidato un onorario unico e non tanti onorari quanti sono i clienti, applicandosi tale criterio anche in caso di riunione.

Nè si può accedere alla tesi del ricorrente secondo cui la norma citata, correttamente interpretata, troverebbe il suo ambito di applicazione esclusivamente nei casi di soccombenza giudiziale, mentre nei confronti dell’Avvocato, “la debenza e la misura delle competenze maturate dovranno pertanto essere determinate sulla scorta dei principi che governano i contratti d’opera intellettuali” (pag. 12 del ricorso). A sostegno di tale tesi, il ricorrente espone una serie di argomentazioni di natura testuale e letterale (l’art. 5 delle tariffe professionali è intitolato “criteri generali per la liquidazione” ed il termine “liquidare” andrebbe associato, secondo le leggi civili, unicamente alle spese processuali; il comma 1 del citato articolo dispone la “liquidazione degli onorari a carico del soccombente”; il comma 4 si riferisce a “più cause”, e non ai meri rapporti di clientela; lo stesso comma 4, disciplina il potere discrezionale del Giudice affermando che l’onorario “può” essere maggiorato; il comma 6 si riferisce alla liquidazione dell’onorario ex art. 91 c.p.c.).

Tali argomentazioni non hanno pregio. Invero, ad una corretta interpretazione letterale della norma, se ne desume agilmente che i commi primo, secondo e sesto offrono dei parametri di calcolo al Giudice e si riferiscono alla liquidazione giudiziale a carico del soccombente, poichè così espressamente ivi previsto (“1). Nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente deve essere tenuto conto della natura e del valore della controversia, dell’importanza e del numero delle questioni trattate, del grado dell’autorità adita, con speciale riguardo all’attività svolta dall’avvocato davanti al giudice. 2). Nelle cause di particolare importanza per le questioni giuridiche trattate, la liquidazione degli onorari a carico del soccombente può arrivare fino al doppio dei massimi stabiliti. 6). All’atto della decisione definitiva, la liquidazione dell’onorario prevista dall’art. 91 del codice di procedura civile deve essere fatta in relazione a tutte le prestazioni effettivamente occorse ogni volta che vi sia stata una decisione anche se espressa con ordinanza collegiale o con sentenza non definitiva.”). Il comma 3, parametro integrativo dei precedenti, si riferisce alla liquidazione dell’onorario a carico del cliente, così specificamente previsto dalla disposizione (“3). Nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, oltre che dei criteri di cui ai commi precedenti, può essere tenuto conto dei risultati del giudizio e dei vantaggi, anche non patrimoniali, conseguiti nonchè dell’urgenza richiesta per il compimento di singole attività; nelle cause di straordinaria importanza la liquidazione può arrivare fino al quadruplo dei massimi stabiliti”).

Il quarto ed il quinto comma forniscono dei criteri matematici per la liquidazione dell’onorario, qualora l’Avvocato assista e difenda una pluralità di persone con la medesima posizione processuale, da applicare sia in caso di soccombenza, sia per il cliente (“4). Qualora in una causa l’avvocato assista e difenda più persone aventi la stessa posizione processuale l’onorario unico può essere aumentato per ogni parte del 20% fino ad un massimo di dieci e, ove le parti siano in numero superiore, del 5% per ciascuna parte oltre le prime dieci e fino ad un massimo di venti. La stessa disposizione trova applicazione, ove più cause vengano riunite, dal momento dell’avvenuta riunione. 5). Nella ipotesi che, pur nella identità di posizione processuale dei vari clienti, la prestazione professionale comporti l’esame di loro situazioni particolari di fatto o di diritto rispetto all’oggetto della causa, l’avvocato ha diritto al compenso

secondo tariffa, ridotto del 30%”). A differenza delle altre disposizioni appena citate, infatti, per i commi quarto e quinto il legislatore non specifica l’ambito di applicazione, poichè questi non introducono un nuovo criterio di determinazione dell’onorario, bensì affermano che i criteri utilizzati per la determinazione dell’onorario, nell’ipotesi in cui l’Avvocato assista un solo cliente, debbano essere utilizzati in caso di una difesa di più parti aventi la stessa posizione processuale, onorario che non va maggiorato in assenza di specifiche ragioni.

L’art. 5, comma 5, delle tariffe professionali, prescrive che, anche in presenza di unità di posizioni processuali, è possibile non operare la divisione – corrispondendo l’onorario in favore dell’Avvocato a carico di ogni assistito, diminuito del 30% – in presenza di particolari ragioni di fatto o di diritto rispetto all’oggetto della causa. Nella specie le particolari situazioni pertinenti al giudizio di merito non risultano documentate (e neanche invocate) dal ricorrente, per cui in assenza delle stesse permane il criterio generale che impone la divisione dell’onorario per il numero degli assistiti ex art. 5, comma 4, delle tariffe professionali.

Quanto poi alla dedotta applicazione dell’art. 2233 c.c., che disciplina l’ordine delle fonti ai fini della determinazione del compenso per l’opera intellettuale prestata, la norma ripone proprio nelle norme sulle tariffe professionali, in assenza di diverso accordo tra le parti, la fonte per il calcolo dell’importo dovuto del cliente per onorari.

La costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, è concorde nel ritenere i parametri del D.M. 585/1994 di portata generale ed, in quanto tali, applicabili nell’ambito del rapporto Avvocato/cliente, ai fini della determinazione dell’onorario (in tal senso, v. Cass. n. 7015 del 2017; Cass. n. 26614 del 2016; Cass. n. 16153 del 2010; Cass. n. 1558 del 2010, precedente quest’ultimo citato dalla sentenza gravata, afferente specificamente all’applicabilità del D.M. n. 585 del 1994, art. 5, comma 4, anche senza un formale provvedimento di riunione).

Da ciò ne deriva la portata generale dell’art. 5, comma 4, delle norme tabellari professionali tanto ai rapporti di soccombenza, quanto ai rapporti di clientela, così come correttamente affermato dalla Corte territoriale.

A confutazione dell’assunto di cui alla memoria del ricorrente e a prescindere dal rilevare la novità della questione, il ritenere il compenso liquidato per la difesa nel giudizio in questione unico, seppure riferito a plurime ed identiche posizioni, esclude che, nella specie, i Giudici di merito siano incorsi nella violazione dei minimi tariffari, dovendosi, gli stessi, valutare in riferimento all’intero e non alla frazione.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 1.700,00, di cui C. 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta – 2 Civile, il 20 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2018

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