Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29646 del 16/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 16/11/2018, (ud. 04/10/2018, dep. 16/11/2018), n.29646

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12796/2017 proposto da:

C.M., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato VINCENZO SENATORE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CASA DI CURA VILLA CHIARUGI S.R.L., in persona del legale

rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI SALLUSTRI, giusta

delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 281/2017 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 27/03/2017, R.G.N. 112/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/10/2018 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per l’infondatezza del 1 motivo,

rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato VINCENZO SENATORE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Nocera Inferiore, in sede di opposizione avverso l’ordinanza emessa sul ricorso per impugnativa di licenziamento proposto da C.M., accertata incidentalmente la natura subordinata del rapporto di lavoro dedotto in giudizio, l’aveva dichiarato risolto con effetto dalla data del licenziamento, con condanna della s.r.l. Casa di Cura Villa Chiarugi al pagamento di un’indennità risarcitoria omnicomprensiva commisurata a 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, pari ad Euro 816,00.

2. La Corte di appello di Salerno, in sede di reclamo, con sentenza del 27.3.2017, accoglieva l’impugnazione proposta dalla Casa di Cura e, in riforma della sentenza impugnata, rigettava il ricorso della C., respingendone il reclamo.

3. La Corte evidenziava che le emergenze processuali non deponevano univocamente per la ravvisata natura subordinata del rapporto dedotto in giudizio, che pertanto l’onere probatorio gravante sulla lavoratrice non fosse stato assolto e che il contratto di prestazione di opera professionale stipulato tra le parti era chiaramente nel senso dell’autonomia del rapporto, con previsione di compenso forfetario, scarsità di impegno lavorativo e possibilità per la lavoratrice di farsi sostituire da altri professionisti. Peraltro, non contraddiceva tali considerazioni la necessaria esigenza di raccordo delle prestazioni rese dalla professionista agli orari di esercizio ed all’organizzazione della struttura della società. Risultava, poi, documentalmente l’emissione, da parte della C., di fatture su carta intestata propria ed i testi non avevano evidenziato la sottoposizione della predetta ad alcun potere datoriale, erano emersi dall’istruttoria anche la gestione autonoma degli orari da parte della predetta, la mancanza di giustificazione delle assenze, mai seguita da provvedimenti disciplinari in caso di prolungamento delle stesse, essendo i rilievi della società una mera interlocuzione con la lavoratrice ed ogni altra interferenza della prima espressione di un’esigenza di raccordo delle prestazioni libero professionali con la struttura aziendale. Quanto alla scelta datoriale, in ipotesi di ravvisabile recesso da un rapporto di altra natura, il motivo oggettivo – secondo la Corte – era rimesso alla determinazioni del datore di lavoro, non essendo sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità il riassetto organizzativo attuato, salva la verifica giudiziale dell’effettività della scelta e della sua non pretestuosità. Analogamente, la contestazione della scelta del dipendente da licenziare avrebbe presupposto una accertamento incidentale della natura ugualmente subordinata degli altri lavoratori comparati e, comunque, la maggiore anzianità di altra terapista ed il minor numero di figli a suo carico erano da ritenersi di poco rilievo ai fini considerati e non indicativi di un comportamento datoriale scorretto ed in malafede.

4. Di tale decisione domanda la cassazione la C., affidando l’impugnazione a quattro motivi, illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resiste la società, con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, la C. denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2094,2222 e 2229 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, sul rilievo che la stipulazione di contratto di prestazioni autonome era stato documentalmente provato solo con l’altra terapista e non con essa ricorrente e che la Corte di Salerno aveva violato i criteri di qualificazione del rapporto di lavoro anche omettendo di ricorrere, in presenza di incertezza circa la sua natura, agli indici sussidiari della subordinazione, quali la documentata richiesta di annotazione da parte della ricorrente degli orari osservati, le contestazioni in ordine alle assenze, la previsione di autorizzazione al godimento di ferie e la richiesta di relazionare il proprio operato, la erogazione dei compensi, a fronte di una subordinazione attenuata quale doveva ritenersi quella caratterizzante il rapporto di lavoro in questione.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, sostenendo che la Corte territoriale sia incorsa in error in procedendo nel porre a fondamento della propria decisione in ordine alla qualificazione del rapporto di lavoro prove mai dedotte ed allegate dalle parti (il contratto di prestazione d’opera professionale), violando in tal modo la normativa processuale di cui all’art. 115 c.p.c..

3. Con il terzo motivo, vengono ascritte alla sentenza impugnata violazione e falsa applicazione della L. 17 luglio 1966, n. 604, artt. 3 e 5 e degli artt. 1175 e 1375 c.c., osservandosi che la Corte del merito aveva omesso di verificare la sussistenza del nesso causale tra l’accertata ragione inerente l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro, ossia la drastica riduzione del numero dei pazienti, e l’intimato licenziamento. In particolare, si assume che, alla luce delle risultanze processuali, non potesse non ritenersi che difettasse il nesso causale, in quanto la soppressione del posto di lavoro della ricorrente era priva di qualsivoglia collegamento con la pur grave situazione aziendale, posto che la diversa distribuzione dei compiti della ricorrente costituiva un mero effetto di risulta del licenziamento e non la conseguenza della ristrutturazione per motivi economici, in mancanza di qualsivoglia elemento che deponesse in senso contrario. Si rileva che il posto di lavoro della C. non era stato soppresso, in quanto era stato mantenuto uno solo dei due rapporti libero professionali esistenti con altrettante terapiste della riabilitazione.

Si sostiene, poi, che erroneamente la Corte abbia escluso la violazione delle regole ex artt. 1175 e 1375 c.c., anche riguardate alla luce dei parametri (ritenuti solo indicativi e non di diretta applicazione) di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5.

4. Infine, con il quarto motivo, ci si duole della violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 7, come sostituito dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 40 e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., con riguardo alla mancata proposizione della procedura conciliativa preventiva ed all’apparenza della motivazione, connessa al rilievo che l’accertamento della natura del rapporto era sub judice (la questione era stata fatta oggetto di appello incidentale della lavoratrice).

5. Il primo motivo si rivela infondato, in quanto nella sentenza oggetto di impugnazione si è adeguatamente valorizzata la mancanza di una prova rigorosa di deviazione dallo schema contrattuale e di un divario dalle regole e principi del rapporto libero professionale, sul rilievo che anche in tale rapporto sussistono poteri di etero-conformazione e di controllo ed obblighi di diligenza e di osservanza delle istruzioni nell’esecuzione delle prestazioni dedotte nel contratto. Sulla qualificazione data dalle parti al contratto la giurisprudenza è, invero, unanimemente attestata nel ritenere che essa non può assumere valore dirimente di fronte ad elementi fattuali – quali la previsione di un compenso fisso, di un orario di lavoro stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, nonchè il collegamento tecnico, organizzativo e produttivo tra la prestazione svolta e le esigenze aziendali -, che costituiscono indici rivelatori della natura subordinata del rapporto; a ciò è stato aggiunto, ad ulteriore precisazione, che il potere gerarchico e direttivo non può, tuttavia, esplicarsi in semplici direttive di carattere generale (compatibili con altri tipi di rapporto), ma deve manifestarsi con ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa, mentre il potere organizzativo non può esplicarsi in un semplice coordinamento (anch’esso compatibile con altri tipi di rapporto) ma deve manifestarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale (cfr. Cass. 8 aprile 2015, n. 7024; Cass. 21 ottobre 2014, n. 22289, che, con riferimento al lavoro a progetto, ha ritenuto rilevante ai fini della qualificazione del rapporto il suo concreto atteggiarsi; Cass. 24 febbraio 2011, n. 4524, che ha ribadito il medesimo concetto con riguardo ad un contratto di associazione in partecipazione, nonchè Cass., 27 febbraio 2007, n. 4500, secondo cui la cosiddetta autoqualificazione del rapporto, pur costituendo un elemento dal quale non si può in generale prescindere, assume rilievo decisivo ove la stessa non risulti in contrasto con le concrete modalità di svolgimento del rapporto medesimo; Cass. 5 luglio 2006, n. 15327).

6. Quanto al secondo motivo, va osservato come nella sentenza, in realtà, se pure il contratto depositato riguardava altra lavoratrice, è stato ben evidenziato che dalla prova per testi erano emersi elementi che accomunavano i rapporti di lavoro instaurati con quest’ultima e con la C., e che, comunque, ciò che assume rilevo pregnante, ai fini della qualificazione del rapporto, è, come già detto, il suo concreto atteggiarsi (cfr. Cass. 24 febbraio 2011, n. 4524), alla stregua di quanto emerso dalla prova per testi e documentale, esaminata adeguatamente dal giudice del gravame, e confermativo della natura libero professionale del rapporto di lavoro intercorso tra le parti.

7. In ordine al terzo ed al quarto motivo, che vanno trattati congiuntamente per attenere le doglianze che ne costituiscono l’oggetto a questioni connesse, va evidenziato che gli stessi sono inammissibili in quanto rivolti a censurare argomentazioni svolte dal giudice del gravame ad abundantiam.

Tale rilievo è sufficiente ad esimere la Corte dal relativo esame, essendo da ritenere assorbente quanto evidenziato in relazione ai primi due motivi.

8. Alle svolte considerazioni consegue il rigetto del ricorso della C..

9. Le spese del presente giudizio di legittimità sono poste a carico della ricorrente in base alla regola della soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

10. Sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2018

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