Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29640 del 16/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 16/11/2018, (ud. 26/09/2018, dep. 16/11/2018), n.29640

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11584/2013 proposto da:

SO.CE.T. – SOCIETA’ DI GESTIONE ENTRATE E TRIBUTI S.P.A., in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO

MARESCA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

VALERIO SPEZIALE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE. C.F.

(OMISSIS) in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro

tempore, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A.

Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S. C.F. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA N. 29, presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli

avvocati ANTONINO SGROI, CARLA D’ALOISIO, EMANUELE DE ROSE, LELIO

MARITATO, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1295/2012 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 19/02/2013 R.G.N. 1112/2011.

Fatto

RITENUTO

che:

con la sentenza n. 1295/2012 la Corte d’Appello di L’Aquila rigettava il gravame proposto avverso la pronuncia che aveva respinto l’opposizione proposta da SO.GE.T. Spa contro il verbale di accertamento del 31/1/2006 con il quale l’Inps le aveva richiesto il versamento di contributi per Euro 370.471,00 per i lavoratori – svolgenti l’attività di messi notificatori – assunti con contratti co.co.co. tra il 2001 al 2003 e con contratti co.co.pro. tra il 2004 il 2005 e che erano invece da ritenersi secondo l’INPS lavoratori subordinati;

a fondamento della decisione la Corte riteneva che, data la particolare natura tecnica delle prestazioni (che mal si adattano ad essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro con una continuità regolare, anche negli orari) la subordinazione, da intendersi nell’accezione attenuata, dovesse essere accertata mediante il ricorso agli elementi sussidiari emergenti dal concreto svolgimento del rapporto (Cass. 5886/2012); che nel caso di specie muovevano in tal senso la standardizzazione e la sovrapponibilità delle attività dedotte in contratto alle attività proprie della società datrice di lavoro, l’elevato numero delle collaborazioni, la reiterazione nel tempo, l’inserimento delle prestazioni lavorative nell’organizzazione imprenditoriale della società, la circostanza che tutti i collaboratori della società, sia autonomi che subordinati, avessero svolto le loro prestazioni con le medesime modalità, ed inoltre che il medesimo lavoratore avesse svolto le stesse attività sia quale dipendente che, poi, quale collaboratore co.co.co. e, dopo il 2004 come co.co.pro.;

quanto ai contratti di lavoro a progetto doveva ritenersi, secondo la Corte, che il ricorso a tale contratto fosse ammissibile solo in presenza di situazioni particolari e teleologicamente individuate; mancava invece il requisito dello specifico progetto posto che si trattava di contratti recanti una descrizione alquanto generica dei compiti affidati al collaboratore che integravano sostanzialmente l’oggetto sociale della società, anteriormente coperti con contratto co.co.co. e che presentavano comunanza del progetto ad una pluralità di lavoratori in sostanziale successione e sovrapposizione alle precedenti collaborazioni coordinate continuative; detti caratteri escludevano che i medesimi progetti presentassero elementi idonei a individuare un qualche risultato distinto ed ulteriore rispetto a quello della prestazione dei servizi forniti dalla società, peraltro, con gli stessi lavoratori e per le medesime attività, che anche di fatto erano state espletate con modalità identiche alle precedenti; le espressioni usate nei contratti per indicare il progetto o programma, al di là della completa standardizzazione, si facevano apprezzare più come descrittive dei compiti affidati al lavoratore piuttosto che come espressive di un obiettivo ovvero di uno specifico risultato da raggiungere con ciò escludendo la possibilità di ritenere che detti contratti contenessero una sufficiente indicazione di uno specifico progetto o programma di lavoro.

avverso detta sentenza SO.GE.T. Spa ha proposto ricorso per cassazione, affidando le proprie censure a 9 motivi, illustrati da memoria; ai quali ha resistito l’INPS con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo il ricorso deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., art. 2222 c.c. e/o dell’art. 409 c.p.c., n. 3, ultimo periodo e/o ancora dell’art. 2697 c.c., posto che, avendo anzitutto accertato circostanze significative dell’autonomia operativa dei collaboratori in oggetto – adibiti all’attività di notificazione proprie dei messi notificatori – per assenza del potere direttivo del committente, la Corte d’Appello dell’Aquila aveva finito poi per sostenere che la subordinazione c’era anche se non esisteva e in tal modo a sussumere la fattispecie concreta in modo errato ed in violazione dell’onere della prova dovendo essere l’Inps a fornire una prova adeguata e completa del vincolo di subordinazione;

col secondo motivo il ricorso lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., art. 2222 c.c. e/o dell’art. 409 c.p.c., n. 3, ultimo periodo e/o art. 2697 c.c. e/o degli artt. 2727,2729, avendo la Corte dato rilievo ad elementi che non integrano la fattispecie di cui all’art. 2094 c.c., o che non sono in grado di soverchiare il giudizio prima formulato della stessa Corte che aveva accertato la sicura carenza del potere direttivo; mentre la standardizzazione dell’attività del collaboratore e la coincidenza con l’attività dell’impresa committente sono tratti ricorrenti se non tipici anche nei rapporti di lavoro autonomo;

col terzo motivo viene dedotta l’omesso esame dei fatti decisivi concernenti l’assenza del potere di controllo e/o del potere disciplinare (art. 360 c.p.c., n. 5);

i primi tre motivi, da esaminarsi per la connessione delle censure, sono inammissibili e comunque infondati; ed invero la Corte aquilana (rilevato che si discuteva di rapporti caratterizzati dalla standardizzazione e sovrapposizione delle attività dedotte in contratto con quelle proprie della società datrice di lavoro) ha osservato in premessa, richiamando anche la giurisprudenza di questa Corte (cfr. sent. n. 11924/98) che l’assoggettamento del lavoratore alle altrui direttive era riscontrabile anche quando il potere direttivo del datore di lavoro viene esercitato de diem in diem; consistendo in tal caso il vincolo della subordinazione nell’accettazione dell’esercizio del potere direttivo di ripetuta specificazione della prestazione lavorativa richiesta;

non è vero quindi che la Corte avesse accertato la sicura insussistenza del potere direttivo inteso come potere di eterodirezione della prestazione esercitato dalla committente; avendo inteso invece fare riferimento – come si rileva agevolmente dalla considerazione dello stesso intero passaggio motivazionale contenuto nella sentenza, di seguito riportato – soltanto alle allegazioni della ricorrente in materia di orario non fisso, d’insussistenza del dovere di giustificare le assenze e di percezione di un compenso parametrato al numero delle notifiche effettuate: “Pertanto, pur se le allegazioni di parte appellante si riferiscono a circostanze significative dell’autonomia operativa dei collaboratori e dell’assenza del potere direttivo del committente (con riferimento ad alcuni dati rappresentati dai testimoni con riguardo all’orario non fisso, all’insussistenza del dovere di giustificare le assenze di percepire un compenso parametrato al numero delle notifiche effettuate) non può non rilevarsi come la documentazione in atti all’istruttoria espletata abbia confermato che i collaboratori hanno sostanzialmente eseguito il servizio offerto dalla società ai committenti, nel quale si concretava l’oggetto sociale con le tipiche modalità della subordinazione cosiddetta attenuata;

pertanto la Corte, con quella frase, nell’esaminare secondo i propri poteri valutativi l’intero materiale probatorio, aveva inteso solo evidenziare come le stesse circostanze sopraindicate, allegate dalla parte appellante, pur significative, non potessero avere un peso decisivo nell’individuazione della qualificazione giuridica del rapporto ed erano da ritenere invece recessive rispetto alle altre circostanze accertate e messe in rilievo in sentenza; con riferimento proprio al potere direttivo che nel caso di specie era stato esercitato dalla committente nelle forme della subordinazione cosiddetta attenuata, posto che competeva al datore di lavoro la quotidiana programmazione e perciò la specificazione in concreto del lavoro dei collaboratori, come di fatto esplicitata nella direzione delle medesime attività (che nate come subordinate sono poi divenute cococo e cocopro solamente mutando cornice giuridica al rapporto – nell’invarianza delle modalità esplicative – in consonanza con l’evolversi dell’ordinamento che si riferiva, però, a rapporti di lavoro autonomi genuini);

la sentenza ha altresì messo in rilievo che l’istruttoria svolta avesse comprovato l’inserimento delle prestazioni nell’organizzazione imprenditoriale della società a fronte della circostanza, pure accertata, che tutti i collaboratori della società sia autonomi che subordinati avessero svolto le loro prestazioni sempre con le medesime modalità, ed inoltre che il medesimo lavoratore avesse svolto le stesse attività sia come dipendente sia, poi, come collaboratore co.co.co. ed, in seguito al 2004, come co.co.pro.; in tal senso può essere notato, che se è vero che una qualsiasi attività umana può essere svolta in forme autonome o dipendenti, ciò che non può essere ammesso, al lume dell’ordinamento, è che la stessa attività espletata con modalità da lavoro dipendente venga poi, nell’invarianza delle modalità esplicative, qualificata quale legittima collaborazione autonoma, senza dedurre che vi sia stata un errore di qualificazione a monte;

nessun errore di sussunzione è stato effettuato in relazione alla nozione di subordinazione valevole ai sensi dell’art. 2094 c.c.; nè risulta alcun vizio di motivazione; ossia, dopo la novella nel testo dell’art. 360, n. 5 (operata con il D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con modificazioni in L. n. 134 del 2012), l’omessa valutazione di un fatto risultante dalla sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo, tale per cui se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia; fermo restando altresì che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie;

emerge pure, come sotto tali aspetti, le censure sollevate tendano ad operare una contrapposizione non consentita di un diverso convincimento soggettivo della parte rispetto alla ricostruzione dei fatti operata dal giudice; in particolare prospettando un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti; mentre tali aspetti del giudizio, interni alla discrezionalità valutativa degli elementi di prova e all’apprezzamento dei fatti, riguardano il libero convincimento del giudice e non i possibili vizi del suo percorso formativo rilevanti ai fini in oggetto; essendo noto che la valutazione delle risultanze delle prove e la scelta, tra le varie, delle risultanze probatorie ritenute più idonee a sorreggere la motivazione involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, libero di attingere il proprio convincimento dalle prove che gli paiano più attendibili, senza nemmeno alcun obbligo di esplicita confutazione degli elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 7 gennaio 2009, n. 42; Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412);

col quarto motivo viene dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, essendosi il giudice limitato a rilevare la mancanza di specificità dell’oggetto dedotto nel contratto e ad evidenziare che esso coincidesse con l’attività della società, violando altresì la presunzione relativa stabilita dalla norma;

col quinto motivo viene dedotta violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, e/o dell’art. 2094 c.c., art. 2222 c.c., e/o art. 409 c.p.c., n. 3, ultimo periodo, avendo la Corte affermato che i contratti a progetto fossero stati stipulati con gli stessi lavoratori e per le medesime attività che anche di fatto erano state espletate con modalità identiche alle precedenti; e che pertanto valesse anche per tali contratti il rilievo prima evidenziato secondo cui lo svolgimento delle prestazioni fosse caratterizzato dall’assenza del potere direttivo da parte dell’imprenditore, dalla libertà di decidere se lavorare e non; dalla mancanza dell’obbligo di giustificarsi per le assenze, dalla mancanza di orario di lavoro fisso, dalla percezione di un compenso variabile, dall’utilizzo di strumenti di lavoro che non erano solo quelli della società;

con il sesto motivo viene dedotto l’omesso esame del fatto decisivo concernente l’assenza dei tratti tipici della subordinazione e, viceversa, la sussistenza dell’autonomia degli altri elementi compatibili con la prima in quanto il giudice aveva del tutto trascurato i fatti emersi nel corso del giudizio idonei e decisivi per infrangere la presunzione vista;

con il settimo motivo viene dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61, 62, 69 e dell’art. 2094 c.c. e/o dell’art. 2094 c.c., avendo la Corte d’appello preteso un eccessivo rigore formale nella descrizione del progetto che invece non è scritto nella legge, nè per il progetto nè ancora di più per il programma di lavoro, laddove invece nei casi de quibus il piano di lavoro e l’opus che ci si attendeva dal collaboratore, anche nelle sue fasi, erano esaurientemente indicati, come anche il risultato al quale si mirava con le medesime stipulazioni;

con l’ottavo motivo viene dedotta violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61,62 e o 69, avendo la Corte d’appello affermato la tesi di una asserita realizzazione mediante i collaboratori dell’oggetto sociale della società appellante che appunto sarebbero serviti per portare avanti tutti i settori della propria attività; in tal modo trasferendo dal piano formale a quello sostanziale un rilievo secondo cui la descrizione dei compiti del lavoratore non deve ridursi a mere clausole di stile e non deve essere così generica al punto che ai collaboratori sia affidata l’attività statutaria dell’impresa;

i motivi che precedono, da 4 ad 8, si riferiscono alla natura e alle caratteristiche dei contratti a progetto e sono da esaminare congiuntamente per l’intima collegamento che li correla; essi si rivelano pregiudizialmente infondati perchè vale per gli stessi la premessa, già svolta prima, in relazione alla reale natura subordinata dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa: posto che si discute qui delle medesime attività svolte dai medesimi prestatori d’opera in regime di subordinazione, e non possono essere neppure concepiti contratti a progetto (privi di reale autonomia), dovendo essere il progetto o programma un requisito ulteriore rispetto a quelli già richiesti per l’esistenza di una legittima collaborazione autonoma;

in più, ed in subordine, nel caso di specie mancavano pure, come correttamente rilevato dalla Corte d’Appello, i requisiti ulteriori dettati per il progetto, sia sul piano formale sia sul piano sostanziale, avendo i giudici di merito messo in rilievo sotto questi aspetti: la carenza del requisito della specificità del progetto o programma di lavoro in considerazione della standardizzazione dei compiti affidati ai lavoratori; la loro indicazione dei compiti all’interno del contratto; il fatto che essi replicassero sostanzialmente l’oggetto sociale; la mancanza dell’affidamento ai collaboratori di un preciso risultato da conseguire;

inoltre, com’è noto, all’interno della giurisprudenza di questa Corte si è consolidata la tesi sulla natura assoluta della presunzione discendente dalla mancanza della nozione di progetto specifico (Cass. 9471/20016, 12820/2016); ed è stato pure affermato che l’esistenza di uno specifico progetto, con i requisiti e le caratteristiche dettati dalla legge, è elemento costituivo della fattispecie la cui mancanza ricorre tanto quando non sia stata provata (mediante la produzione del contratto o l’espletamento delle prove ammissibili) la pattuizione di alcun progetto, tanto quando il progetto effettivamente pattuito non sia conforme alle caratteristiche legali, difettando gli elementi di specificità ed autonomia che sono ritenuti necessari; infatti la definizione legale del contratto a progetto fornita dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61(abrogato dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 52, di attuazione del c.d. Jobs Act), postula tenuto altresì conto delle precisazioni introdotte dalla L. n. 92 del 2012, art. 61 cit., una attività produttiva chiaramente descritta ed identificata e “funzionalmente ricollegato(a) ad un determinato risultato finale” cui partecipa con la sua prestazione il collaboratore; ancorchè non sia richiesto che il progetto specifico debba inerire ad una attività eccezionale o originale o del tutto sconnessa rispetto alla ordinaria e complessiva attività di impresa;

con il nono motivo viene dedotta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 416 c.p.c., comma 3 e art. 420 c.p.c., comma 1, e/o dell’art. 111 Cost., comma 1, avendo sia il tribunale di Chieti, sia la Corte d’Appello forzato oltremisura gli elementi a loro disposizione (in relazione al numero dei contratti de quo ed alla coincidenza tra modalità di lavoro dei dipendenti e dei collaboratori), disattendendo quanto era pacifico tra le parti, violando le regole del processo ed anche i fondamentali principi del contraddittorio e del giusto processo;

il motivo è privo di autosufficienza – per un verso – posto che una censura del genere era subordinata all’integrale riproduzione in ricorso del contenuto della sentenza di primo grado, di tutti gli atti relativi al giudizio sia di primo che di secondo grado e dei relativi verbali istruttori, posto che ove con il ricorso per cassazione si ascriva al giudice di merito di non avere tenuto conto di una circostanza di fatto che si assume essere stata “pacifica” tra le parti, il principio di autosufficienza del ricorso impone al ricorrente di indicare in quale atto sia stata allegata la suddetta circostanza, ed in quale sede e modo essa sia stata provata o ritenuta pacifica (Cass. 24062/2017); occorreva inoltre la specifica impugnazione delle affermazioni effettuate in tal senso dal tribunale, le quali del pari non risulta siano state tutte investite da un motivo di gravame;

in ogni caso, le stesse violazioni denunciate – riferite al numero dei collaboratori ed alla comparazione delle modalità esecutive delle prestazioni – non appaiono rilevanti ed idonee ad inficiare la decisione impugnata atteso che, come sopra detto, la subordinazione dei collaboratori è stata bensì accertata dai giudici in concreto in relazione all’esercizio quotidiano del potere direttivo esplicato nelle forme della c.d. subordinazione attenuata; mentre gli elementi di cui si discute non assurgono neppure alla dignità di autonome rationes decidendi e configurano piuttosto dati integrativi e confermativi, da cui si potrebbe del tutto prescindere senza che per questo venga meno la correttezza della conclusione presa in ordine alla reale natura subordinata dei rapporti in questione;

le considerazioni svolte impongono dunque di rigettare il ricorso e di condannare la ricorrente, rimasta soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo;

sussistono altresì i presupposti per il pagamento dell’ulteriore somma dovuta a titolo di raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 7700 di cui Euro 7500 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2018

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