Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2964 del 07/02/2020

Cassazione civile sez. I, 07/02/2020, (ud. 14/11/2019, dep. 07/02/2020), n.2964

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23408/2018 proposto da:

J.O., elettivamente domiciliato in domiciliato in Roma piazza

Cavour presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione

rappresentato e difeso dall’avv.to Serena Brachetti, con studio in

Perugia, via XIV Settembre 69, giusta procura speciale allegata al

ricorso, ammesso al patrocinio a spese dello Stato;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno, in persona del Ministero pro tempore;

– resistente –

avverso la sentenza n. 398/2018 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 29/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/11/2019 dal Cons. Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Fatto

RITENUTO

che:

1. J.O., cittadino (OMISSIS) ricorre, affidandosi a sei motivi, per la cassazione del decreto della Corte d’appello di Perugia che aveva respinto l’impugnazione avverso l’ordinanza del Tribunale con la quale era stato rigettato il ricorso proposto contro il provvedimento della Commissione territoriale di Firenze, sezione di Perugia, che aveva denegato la protezione internazionale, domandata, in via gradata, nelle fattispecie di “stato di rifugiato”, “protezione sussidiaria” e “protezione umanitaria”.

1.1. Per ciò che interessa in questa sede, il ricorrente aveva dedotto, a sostegno delle ragioni della fuga dal suo paese di origine, di aver provocato involontariamente, nei terreni circostanti a quello dello zio dove si era recato per provvedere alla bonifica, un incendio che aveva causato la morte di una donna; di essere addivenuto ad un accordo con i parenti della vittima per risarcirli mediante il pagamento del suo funerale, ma di essersi dovuto allontanare, mediante transito attraverso la Libia, perchè aveva temuto di non riuscire a pagare il risarcimento e di dover subire la loro vendetta.

2. Il Ministero dell’Interno intimato non si è difeso, invocando tuttavia con memoria, l’applicazione dell’art. 370 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della Direttiva Comunitaria 2005/85/CE, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, comma 4 e della L. n. 241 del 1990, art. 21 octies.

1.1. Deduce altresì l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e cioè la nullità del procedimento amministrativo e quella, conseguente, dei procedimenti di merito per l’omessa traduzione nella lingua veicolare della relata di notifica del provvedimento amministrativo di rigetto, redatta soltanto in lingua italiana, nonchè delle motivazioni di esso: assume che tale vizio imponeva di ritenere che l’incombente notificatorio fosse inesistente, così come tutti i provvedimenti successivi.

1.2. Il motivo è inammissibile.

1.3. Questa Corte, pur avendo affermato il principio secondo cui in tema di protezione internazionale, l’obbligo di tradurre gli atti del procedimento davanti alla commissione territoriale, nonchè quelli relativi alle fasi impugnatorie davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, è previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, commi 4 e 5, al fine di assicurare al richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione, ha tuttavia precisato che la parte, ove censuri la decisione per l’omessa traduzione, non può genericamente lamentare la violazione del relativo obbligo, ma deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un “vulnus” all’esercizio del diritto di difesa ed, in particolare, qualora deduca la mancata comprensione delle dichiarazioni rese in interrogatorio, deve precisare quale reale versione sarebbe stata offerta e quale rilievo avrebbe avuto l’utilizzo della lingua di origine (cfr. Cass. 11295/2019; Cass. 18723/2019), al fine di consentire alla Corte di apprezzare il pregiudizio del diritto di difesa subito.

1.4. Nel caso in esame, premesso che l’audizione, per stessa ammissione del ricorrente, si era svolta con traduzione in una lingua

veicolare (inglese), l’avvenuta tempestiva proposizione dell’impugnazione del diniego amministrativo è di per se indicativa dell’assenza del danno dedotto, in relazione all’omessa traduzione della relata di notifica del provvedimento impugnato: il motivo, pertanto, non può trovare ingresso in questa sede, non essendo riconducibile ad un vizio cassatorio.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 4, comma 2, ed, ex art. 360, comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, consistente nella illegittimità della deroga alla composizione collegiale dell’organo amministrativo: il richiedente, infatti, sarebbe stato sentito alla presenza di soli due componenti della Commissione territoriale.

2.1. Il motivo è inammissibile.

2.2. La censura, infatti, risulta nuova e difetta di autosufficienza:

non è stato riportato il motivo d’appello con il quale era stata prospettata analoga doglianza ed il provvedimento della Corte territoriale non fa alcun cenno alla questione (cfr. ex multis Cass. 20694/2018).

3. Con il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 Conv. Ginevra, nonchè della L. n. 39 del 1990, art. 1, per motivazione generica e contraddittoria in relazione alla vendetta privata ed alle minacce di morte subite, al ragionevole timore di persecuzione e, dunque, all’esistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato.

3.1. Ripercorre la motivazione resa dai giudici d’appello e lamenta che la Corte avrebbe omesso di considerare la dettagliata descrizione delle proprie vicende personali e familiari nonchè le minacce gravi subite da parte dei parenti della donna rimasta vittima dell’incendio.

3.2. Il motivo è inammissibile.

3.3. La censura, infatti, chiede una rivalutazione di merito delle emergenze processuali, senza contrastare in modo efficace la motivazione che si incentra sulla statuizione secondo cui egli non aveva neanche allegato a quali atti di persecuzione sarebbe stato esposto per il mancato pagamento del debito che si era assunto.

3.4. La critica, inoltre, è generica ed introduce argomenti extravaganti e generici (analfabetismo, la presunzione della sua buona fede etc.) rispetto alle allegazioni finalizzate al riconoscimento dello status di rifugiato.

4. Con il quarto motivo, ex art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, il ricorrente deduce ancora la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 4, per motivazione apparente e per inosservanza del dovere di cooperazione istruttoria sulla grave situazione della Nigeria in relazione al mancato riconoscimento della “protezione sussidiaria”.

4.1. Il motivo è inammissibile.

La censura è generica e maschera una richiesta di rivisitazione di merito prospettando argomenti allargati che non contrastano efficacemente la ratio decidendi della sentenza che ha sostanzialmente ritenuto, sulla specifica fattispecie in esame, che le ragioni della fuga dovevano essere ricondotte ad una vicenda privata (cfr. pag. 17 del ricorso primo e secondo cpv., in cui egli stesso ammette che la fuga era stata determinata dalla paura di essere ucciso per vendetta dai parenti della donna rimasta vittima dell’incendio).

4.2. Al riguardo, questa Corte ha condivisibilmente affermato che “le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello “status” di rifugiato, (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria, (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi ma con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b)” (cfr. Cass. 9043/2019).

5. Con il quinto ed il sesto motivo, infine, il ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in relazione al rigetto della domanda di permesso di soggiorno per ragioni umanitarie:

a. la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, in combinato disposto con il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 5, per motivazione apparente e contraddittoria sull’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e cioè la sussistenza di seri motivi umanitari.

b. la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost. e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, per omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, nonchè l’omesso esame della vulnerabilità del ricorrente per le minacce di morte, il mancato dovere di cooperazione istruttoria sul sistema sanitario del paese di origine e l’omessa valutazione sulla sussistenza di integrazione sociale e lavorativa nel paese di approdo.

5.1. I due motivi devono essere esaminati congiuntamente in quanto le censure in essi contenute sono strettamente connesse e riguardano, nel complesso, la sostanziale “apparenza” della motivazione che il ricorrente assume essere stata resa senza alcuna spiegazione del rigetto della specifica domanda: ha dedotto, al riguardo, che non era stata affatto esaminata la sua particolare condizione di vulnerabilità, mancando del tutto, nel provvedimento, argomentazioni logicamente comprensibili e giuridicamente idonee a sostenere; ha aggiunto, infine, che non erano state osservate le norme preposte a regolare il dovere di cooperazione istruttoria previsto ex lege, senza alcuna plausibile motivazione.

5,2, Sintetizzati come sopra i motivi del ricorso, una corretta qualificazione di essi rispetto alle censure prospettate (cfr. al riguardo Cass. 1370/2013; Cass. 24553/2013 e Cass. 23381/2017 secondo cui “Ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, non costituisce condizione necessaria la corretta menzione dell’ipotesi appropriata, tra quelle in cui è consentito adire il giudice di legittimità, purchè si faccia valere un vizio della decisione astrattamente idoneo a inficiare la pronuncia; ne consegue che è ammissibile il ricorso per cassazione che lamenti la violazione di una norma processuale, ancorchè la censura sia prospettata sotto il profilo della violazione di norma sostanziale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, anzichè sotto il profilo dell'”error in procedendo”, di cui del citato art. 360, n. 4″) consente alla Corte di ricondurli entrambi nell’alveo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, concernente le ipotesi di nullità della sentenza, fra le quali devono essere ricomprese quelle riferibili ad una motivazione inesistente, resa, cioè, attraverso una mera apparenza argomentativa.

5.3. In tal modo riqualificati, entrambi i motivi sono fondati.

Deve, al riguardo, richiamarsi preliminarmente l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte che ha affermato, con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, che “ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento” (Cass. 9105/2017).

5.4. Nel caso in esame ricorre proprio tale ipotesi, in quanto, a fronte della domanda proposta, la Corte territoriale ha motivato il rigetto dell’impugnazione limitandosi letteralmente ad affermare, in modo meramente assertivo, che “non sussistono, infine, i presupposti per la protezione umanitaria di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, che è collegata ad un particolare stato di vulnerabilità del soggetto interessato” (cfr. pag. 5 secondo cpv. della sentenza impugnata).

5.7. Tanto premesso, è necessario precisare – visto che nelle more fra la data di deposito del ricorso e quella della decisione è entrata in vigore la L. n. 132 del 2018, di conversione del D.L. n. 113 del 2018, che ha introdotto l’istituto della protezione speciale, rispondente a presupposti più circoscritti rispetto a quelli previsti per il permesso di soggiorno per motivi umanitari, che tale normativa è stata oggetto di reiterati interventi della giurisprudenza di legittimità, sollecitati dalle modifiche introdotte, culminati con la decisione delle sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass. SSUU 29460/2019) investita delle questioni di particolare importanza, concernenti la possibile applicazione retroattiva delle nuove disposizioni ed i presupposti che devono ricorrere in relazione all’istituto previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

5.8. Con tale pronuncia, per ciò che qui interessa, è stata affermata l’irretroattività delle nuove disposizioni portate dalla L. n. 132 del 2018, in adesione all’orientamento maggioritario affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., in particolare, in Cass. 4890/2019) secondo la quale l’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari non si applica alle domande di riconoscimento proposte dinanzi alla commissione territoriale competente prima dell’entrata in vigore della nuova legge (5 ottobre 2018), continuando in queste ipotesi a doversi adottare il paradigma normativo contenuto nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, ovvero nella norma che contiene una clausola generale concernente la sussistenza di “seri motivi di carattere umanitario”, da valorizzare in funzione degli obblighi costituzionali ed internazionali assunti dallo Stato Italiano.

5.9. E’ stato, al riguardo, affermato che:

a. la legge abrogata non è del tutto priva di efficacia, trovando applicazione per i fatti che si siano verificati anteriormente all’abrogazione;

b. il principio d’irretroattività è volto a tutelare diritti e non fatti. Il divieto di retroattività, di conseguenza, garantisce l’immutabilità della rilevanza giuridica di fatti che già si siano compiutamente verificati o di fattispecie non ancora esaurite;

c. il diritto a riconoscimento di una misura di protezione umanitaria, appartenendo al catalogo dei diritti umani, preesiste al suo accertamento che ha natura esclusivamente dichiarativa: il procedimento a ciò preposto, di conseguenza, non incide sull’insorgenza del diritto che va temporalmente collocato al momento in cui si verifica la situazione di vulnerabilità sussumibile nella fattispecie allora vigente. E’ irrilevante che esso non comporti il riconoscimento di uno status, ma una protezione temporanea come quella apprestata nelle varie forme dalla normativa vigente, essendo espressione del diritto di asilo costituzionale, costruito come diritto della personalità, posto a presidio di quelli fondamentali della persona;

d. benchè il diritto di asilo si configuri quando il richiedente faccia ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità che mettano a repentaglio l’esercizio dei propri diritti fondamentali, è la data di presentazione della domanda in sede amministrativa che identifica ed attrae il regime normativo della protezione per ragioni umanitarie da applicare, in quanto è con essa che il titolare del diritto esprime il bisogno di tutela e l’intendimento di avvalersene;

e. a ciò consegue, tuttavia, che sia nel caso in cui alla data di entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, la Commissione Territoriale abbia già ritenuto la sussistenza dei gravi motivi di carattere umanitario (come stabilito dal D.Lgs. n. 113 del 2018, art. 1, comma 9) sia in quello in cui l’accertamento sia comunque in itinere il titolo di soggiorno dovrà rispondere alle modalità previste dal D.L. n. 113 del 2018, art. 1, comma 9.

5.10. Le Sezioni Unite hanno precisato che la natura dichiarativa dell’accertamento non è indebolita dalla necessità, prevista dalla legge, che la valutazione avvenga sulla base d’informazioni aggiornate, essendo questa caratteristica un’espressione non della natura costitutiva dell’accertamento ma dell’estensione dei poteri istruttori del giudice e della peculiarità del regime probatorio che presidia proprio il rango e l’inviolabilità dei diritti in gioco.

5.11. E’ stato altresì confermato, in ordine ai presupposti dell’istituto in esame, l’orientamento nettamente prevalente della giurisprudenza di legittimità, portato da Cass. 4455/2018, secondo il quale, in materia di protezione umanitaria, il profilo dell’integrazione non può essere trascurato e non deve essere esaminato isolatamente, ma attraverso una valutazione comparativa della situazione di effettiva compromissione dei diritti umani fondamentali nel paese di origine; ed è stato sottolineato sia che la tutela di essi deve essere “orizzontale”, sia che la norma elastica contenuta nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, è lo strumento più adeguato a promuoverne l’evoluzione.

6. Tanto premesso, si osserva che manca del tutto, nella motivazione impugnata, la valutazione comparativa tra la odierna situazione del ricorrente e la possibile compressione del nucleo dei suoi diritti fondamentali, in caso di rimpatrio in Nigeria, da condurre in ossequio ai principi che si andranno ad esporre.

6.1. Non è inutile ricordare, infatti, che secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 4455/2018, per come confermata anche da Cass. SUU 29459/2019, cit. supra), in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in favore del cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

6.2. E’ stato definitivamente chiarito, quanto ai presupposti necessari per ottenere la protezione umanitaria, che:

1) non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano.

2) gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali, sicchè l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (ex multis, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096).

3) le relative basi normative sono, allora “a compasso largo”: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria “a clausola generale di sistema”, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione.

4) è stato, pertanto, condiviso l’orientamento di questa Corte (inaugurato da Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455, e seguito, tra le altre, da Cass. 19 aprile 2019, n. 11110 e da Cass. n. 12082/19, cit., nonchè dalla prevalente giurisprudenza di merito) che assegna rilievo centrale alla valutazione comparativa, ex art. 8 CEDU, tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.

Nel caso di specie, il giudice del rinvio valuterà, nei termini comparativi sopra richiamati, le seguenti circostanze (in relazione alle quali manca del tutto, nella sentenza impugnata, la considerazione e la valutazione) rappresentate:

a. dal rapporto EASO aggiornato alla data della decisione sulle condizioni del sistema giudiziario della Nigeria, con particolare riferimento alle modalità di accertamento e di repressione di fatti analoghi a quelli narrati dal ricorrente;

b. dalla documentazione allegata (cfr. doc. 16,17 e 18), ignorata dalla Corte territoriale, da cui sembrerebbe emergere un buon livello di integrazione raggiunto dal ricorrente, che ha depositato, fra l’altro, documentazione attestante lo svolgimento, nel periodo 6.3.20185.9.2018, di attività lavorativa presso una società di Pordenone.

Alla luce dei principi sinora esposti, si impone, dunque, la cassazione del provvedimento impugnato in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’Appello di Perugia che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte:

accoglie il quinto ed il sesto motivo di ricorso; dichiara inammissibili gli altri.

Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione per il riesame della controversia e per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2020

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