Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29634 del 16/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 16/11/2018, (ud. 19/07/2018, dep. 16/11/2018), n.29634

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8465/2016 proposto da:

C.C., G.L., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato SERGIO

NATALE EDOARDO GALLEANO, che li rappresenta e difende giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

EUROPA 190 (AREA LEGALE TERRITORIALE CENTRO DI POSTE ITALIANE),

presso lo studio dell’Avvocato ROBERTA AIAZZI, rappresentata e

difesa dall’avvocato ANTONINO AMATO, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 6193/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 25/09/2015 R.G.N. 9718/2012.

Fatto

RILEVATO

che con sentenza in data 25 settembre 2015, la Corte d’appello di Roma dichiarava estinto il giudizio con riferimento a F.D., Co.Gi., c.g., A.M., R.R., M.S.F., L.F. e P.D. e rigettava l’appello proposto da C.C., G.L., Ri.Ca. e Gu.Mi.Ga. avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva respinto le domande di accertamento della nullità del termine apposto ai contratti stipulati con Poste Italiane s.p.a. negli anni 2008 e 2009, ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, di conversione in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dall’inizio tra le parti, nonchè di condanna della società datrice alla riammissione in servizio e al pagamento, a titolo risarcitorio, delle mensilità retributive maturate dalla cessazione del rapporto alla riammissione in servizio;

che avverso tale sentenza C.C. e G.L. ricorrevano per cassazione con cinque motivi, cui Poste Italiane s.p.a. resisteva con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che i ricorrenti deducono violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, in connessione con l’art. 5 della Direttiva UE 1999/70, per assoluta carenza di tutele costituita dall’eliminazione dell’obbligo di indicazione della ragione obiettiva della conclusione del contratto a termine e delle altre misure previste dalla norma UE denunciata, secondo l’interpretazione giurisprudenziale di legittimità asistematica in favore della liberalizzazione dei contratti a tempo determinato acausali Poste Italiane s.p.a., previa eventuale rimessione alla CGUE del quesito indicato ai punti a) – c) di pgg. 26 e 27 del ricorso (primo motivo); violazione della clausola 4 e 8.1 della Direttiva UE 1999/70, per l’applicabilità della cd. clausola di “non regresso” anche al primo ed unico contratto a termine, rispetto alla quale incompatibile l’acausalità prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, pertanto da disapplicare in favore dell’art. 1 D.Lgs. cit. (secondo motivo); violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, in connessione con il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 3, comma 2 e art. 2697 c.c., per erronea determinazione della percentuale oggetto della clausola di contingentamento sul totale dei dipendenti, compresi quelli addetti ai servizi finanziari e non ai soli addetti al servizio postale, secondo la ratio della norma, come anche illustrata dalla Corte costituzionale (con la sentenza n. 214/2009), nell’onere probatorio datoriale (terzo motivo); violazione dell’art. 112 c.p.c. e D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, in connessione con il D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 6, per omessa pronuncia su questione (relativa al difetto di prova per inidoneità della documentazione prodotta da Poste Italiane s.p.a.) erroneamente ritenuta non posta in causa, dando comunque per scontato il rispetto della suddetta percentuale, computata in base al numero dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato rispetto a quelli a tempo indeterminato senza tenere conto di quelli a tempo determinato part time unitariamente fino alla concorrenza dell’orario pieno (cd. ful time equivalent) (quarto motivo); violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, per l’erronea esclusione della sanzione di nullità per l’omessa comunicazione delle richieste di assunzione alle oo.ss., siccome requisito essenziale di validità per la validità del termine apposto ai contratti stipulati in base alla norma denunciata (quinto motivo);

che il collegio ritiene che i primi due motivi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, siano infondati;

che le censure, basate in particolare su giurisprudenza uniEuropea già vagliata da questa Corte e su altra più recente (sentenza 26 febbraio 2015 in causa C-238/14, Commissione Europea c/ Granducato di Lussemburgo), avente ad oggetto l’assenza di alcuna misura limitativa della durata massima totale o del numero di rinnovi di contratti a tempo determinato (p.to 41) e così pure di “ragioni obiettive” individuabili in finalità di particolare interesse pubblico, che escludano una riduzione di tutela del lavoratore qualora non si verta in materia riconducibile all’applicazione dell’accordo quadro, a riguardo dei lavoratori saltuari dello spettacolo (cui pure si riferisce la parimenti citata sentenza della Corte costituzionale n. 260/2015), non inficiano il consolidato indirizzo di legittimità sulle questioni riproposte, cui deve pertanto essere data continuità;

che occorre ribadire la corretta interpretazione di alternatività dei requisiti richiesti dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1,comma 1 e art. 2, senza necessità di indicazione, nelle assunzioni a tempo determinato effettuate da imprese concessionarie di servizi nel settore delle poste aventi i requisiti specificati dall’art. 2, comma 1 bis D.Lgs. cit., delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo ai sensi dell’art. 1, comma 1 D.Lgs. cit., trattandosi di ambito nel quale la valutazione sulla sussistenza della giustificazione è stata operata ex ante direttamente dal legislatore (Cass. s.u. 31 maggio 2016, n. 11374);

che, in tema di contratto di lavoro a tempo determinato, il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, si riferisce esclusivamente alla tipologia di imprese presso cui avviene l’assunzione – quelle concessionarie di servizi e settori delle poste – e non anche alle mansioni del lavoratore assunto, in coerenza con la ratio della disposizione, ritenuta legittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 214 del 2009, individuata nella possibilità di assicurare al meglio lo svolgimento del cd. “servizio universale” postale, ai sensi del D.Lg. n. 261 del 1999, art. 1, comma 1 di attuazione della direttiva 1997/67/CE, mediante il riconoscimento di una certa flessibilità nel ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato, pur sempre nel rispetto delle condizioni inderogabilmente fissate dal legislatore (Cass. 2 luglio 2015, n. 13609): secondo una sua valutazione preventiva ed astratta, non manifestamente irragionevole, per l’assicurazione di una tale garanzia alle imprese concessionarie di servizi postali, pure conforme al diritto dell’Unione Europea come interpretato dalla giurisprudenza (nell’evidente estraneità all’odierna questione del richiamo: alla sentenza 12 dicembre 2012, Carratù e all’ordinanza 30 aprile 2013, D’Aniello, siccome relative alle conseguenze economiche della nullità di c.at. ed in particolare all’indennità ai sensi dell’art. 32, quinto comma I. 183/2010; e così pure all’ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, relativa a dipendenti pubblici, nonchè alle sentenze riguardanti le Fondazioni sinfoniche e il precariato scolastico), in quanto non collegata all’attuazione dell’art. 8, p.to 3 dell’accordo quadro allegato alla Direttiva 99/70/CE (Corte di giustizia UE 11 novembre 2010, Vino c. Poste Italiane s.p.a., C-20/10, p.ti 38 – 42), non sussistendo alcuna riduzione di tutela del lavoratore qualora non si verta in materia riconducibile all’applicazione dell’accordo quadro, ma alla realizzazione di altro e distinto obiettivo (Corte di giustizia UE 23 aprile 2009, Angelidaki e altri c. Organismos Nomarchiakis Auotdioikisis Rethymnis, C-378/07 e riuniti C-379/07 e C-380/07, p.to 133; Corte di giustizia UE 22 novembre 2005, Mangold c. Helm, C- 144/04, p.ti 52 e 53), quale appunto quello suindicato;

che in tema di rapporti di lavoro nel settore delle poste, la stipula in successione tra loro di contratti a tempo determinato nel rispetto della disciplina prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001 e successive integrazioni, applicabile ratione temporis, è legittima, dovendosi ritenere la normativa nazionale interna non in contrasto con la clausola n. 5 dell’Accordo Quadro, recepito nella Direttiva n. 1999/70/CE, atteso che l’ordinamento italiano e, in ispecie, l’art. 5 D.Lgs. cit., come integrato dalla L. n. 247 del 2007, art. 1, commi 40 e 43, impone di considerare tutti i contratti a termine stipulati tra le parti, a prescindere dai periodi di interruzione tra essi intercorrenti, inglobandoli nel calcolo della durata massima (36 mesi), la cui violazione comporta la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto (Cass. s.u. 31 maggio 2016, n. 11374);

che tale disciplina si applica anche ai contratti a termine stipulati prima, dell’introduzione del comma 4bis aggiunto dalla L. n. 247 del 2007, art. 1, comma 40, perchè il comma 43 del medesimo articolo attrae, nel conteggio finalizzato al rispetto del limite di durata massima complessiva, anche i contratti a termine già conclusi, prevedendo che se, in forza del computo complessivo, il limite massimo viene superato, si avrà la trasformazione del rapporto a termine in un rapporto a tempo indeterminato (Cass. 23 settembre 2014, n. 19998; Cass. s.u. 31 maggio 2016, n. 11374, p.to 59);

che tali principi sono stati ancora recentemente ribaditi (Cass. 22 marzo 2018, n. 16845), sicchè deve essere anche esclusa la necessità della richiesta di una nuova rimessione della vicenda in via pregiudiziale alla Corte di giustizia, come pure già ritenuto in ordine alla luce della possibile divergenza dell’interpretazione offerta in sede di legittimità con il principio comunitario di proporzionalità, già vagliata e superata da questa Corte la quale ha posto a fondamento del proprio orientamento la stessa giurisprudenza della Corte di giustizia (in particolare l’ordinanza 11 novembre 2010), che a sua volta aveva valorizzato, ai fini della statuizione di conformità all’ordinamento comunitario della norma considerata, la circostanza che l’adozione dell’art. 2, comma 1 bis, fosse finalizzata a consentire alle imprese operanti nel settore postale un certo grado di flessibilità allo scopo di garantire l’attuazione della direttiva 1997/67/CE con particolare riferimento allo sviluppo del mercato interno dei servizi postali (Cass. 22 marzo 2018, n. 16844);

che anche il terzo e il quarto motivo, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono infondati;

che la Corte ha fatto una corretta applicazione dei principi di diritto in ordine alla clausola di contingentamento:

tanto in riferimento alla commisurazione della percentuale del 15 per cento all’intero organico e non soltanto al personale addetto ai servizi postali, posto che, in tema di contratto di lavoro a tempo determinato, il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, si riferisce esclusivamente alla tipologia di imprese presso cui avviene l’assunzione (quelle concessionarie di servizi e settori delle poste) e non anche alle mansioni del lavoratore assunto, per le ragioni già illustrate nello scrutinio dei due primi mezzi, coerenti con i precedenti di questa Corte (Cass. 2 luglio 2015, n. 13609; Cass. s.u. 31 maggio 2016, n. 11374);

tanto in riferimento all’esatta esclusione dell’adozione del criterio di computo del cosiddetto full time equivalent (ossia con stima dei contratti a tempo determinato part – time unitariamente fino alla concorrenza dell’orario pieno), non mutuabile dal D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 6, comma 1, per l’accertamento della consistenza dell’organico (“in tutte le ipotesi in cui si renda necessario”), in quanto rispondente ad una finalità di carattere generale: al contrario della norma sul contingentamento, che è specifica in quanto rispondente alla ratio di limitare soltanto il potere di assunzione a termine, nè potendosi dubitare che il riferimento alle assunzioni rimandi coerentemente ad un criterio di computo “per teste”, implicante un’omogeneità di raffronto con l’organico aziendale (Cass. 15 gennaio 2018, n. 753; Cass. 22 marzo 2018, n. 18166; in riferimento all’art. 8, comma 3 c.c.n.l. di Poste del 26 novembre 1994: Cass. 14 febbraio 2014, n. 3031);

che non sussiste alcuna omissione di pronuncia, avendo la Corte territoriale valutato come adeguatamente provato il rispetto della soglia in base alla critica comparazione, sulla base dei superiori principi di diritto, dei dati dei prospetti e dei bilanci prodotti da Poste Italiane s.p.a. (per le ragioni esposte dal secondo capoverso di pg. 11 al secondo di pg. 12 della sentenza);

che anche il quinto motivo è infondato;

che è stato correttamente applicato il principio, secondo cui l’obbligo di comunicare alle organizzazioni sindacali provinciali di categoria le richieste di assunzione ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, non ha natura di requisito di validità del negozio: non essendo ravvisabile nè una nullità testuale, nè una cd. virtuale, ai sensi dell’art. 1418 c.c., comma 1, per violazione di norma imperativa di legge, in quanto le modalità del controllo sindacale mirano soltanto ad agevolare una verifica eseguibile anche altrimenti e che resta fondamentalmente garantita dall’onere probatorio (della legittimità del termine) incombente sul datore di lavoro, oltre che dalla possibilità di far valere l’inosservanza dell’obbligo come condotta antisindacale reprimibile ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 28 (Cass. 9 marzo 2018, n. 5718; Cass. 15 giugno 2018, n. 15890);

che pertanto il ricorso deve essere rigettato, con la regolazione delle spese del giudizio di legittimità secondo il regime di soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i lavoratori alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 19 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2018

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