Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29600 del 24/12/2020

Cassazione civile sez. I, 24/12/2020, (ud. 07/07/2020, dep. 24/12/2020), n.29600

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Luigi Pietro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13857/2019 proposto da:

E.B., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Andrea Maestri, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 51/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 7/1/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

07/07/2020 da Dott. FALABELLA MASSIMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – E’ impugnata per cassazione la sentenza della Corte di appello di Bologna, pubblicata il 7 gennaio 2019, con cui è stato respinto il gravame proposto da E.B. nei confronti dell’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., comma 5, del Tribunale di Bologna. Il giudice di primo grado aveva respinto la domanda di protezione internazionale del ricorrente.

2. – Il ricorso per cassazione si fonda su due motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha svolto difese.

Il Collegio ha autorizzato la redazione del provvedimento in forma semplificata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Col primo motivo sono denunciate la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 art. 19, comma 1, e dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati. E’ anzitutto dedotto che il giudice del merito aveva il dovere di estendere il proprio esame “a tutti i paesi di origine e provenienza del migrante”, ivi compreso, pertanto, quello in cui lo stesso era transitato per giungere in Italia (nella specie, la Libia).

Il motivo non ha fondamento.

In tema di protezione umanitaria, la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte assegna un rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale (Cass. Sez. U. 13 novembre 2019, n. 29459, in motivazione). La misura in questione presuppone dunque, anzitutto, una condizione di grave lesione dei diritti umani fondamentali che si consumi appunto nel paese di origine (e di rimpatrio, quindi) del richiedente stesso. Ciò non significa che ai fini del riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria non possano essere prese in considerazione le violenze subite nel paese di transito e di temporanea permanenza del richiedente asilo: tali violenze devono risultare però potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona (Cass. 15 maggio 2019, n. 13096). Ora, il ricorrente, con questo primo motivo di ricorso, ha dedotto, in sintesi, che il proprio transito in un paese, la Libia, in cui sono poste in atto gravi violazioni dei diritti umani, giustificherebbe, da solo, il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria. Ma ciò, oltre a non coniugarsi col principio appena richiamato, porterebbe a un risultato del tutto eccentrico rispetto a quello cui deve condurre lo scrutinio demandato, in tema di protezione umanitaria, al giudice del merito: è infatti assolutamente pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, che la situazione di vulnerabilità del richiedente debba necessariamente correlarsi alla vicenda personale dello stesso, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (così, in motivazione, Cass. Sez. U. 13 novembre 2019, n. 29459 e Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455; cfr. inoltre, in massima, Cass. 2 aprile 2019, n. 9304).

2. – Il secondo motivo oppone l’omesso esame un fatto decisivo in riferimento ai presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria. E’ affermato che il difetto di credibilità in ordine alla protezione internazionale non esclude l’obbligo del giudice del merito di pronunciarsi quanto alla domanda di protezione umanitaria: nel caso in esame, invece – secondo il ricorrente -, la domanda relativa alla detta forma di protezione era stata respinta senza accertare l’esistenza o meno delle specifiche condizioni che avrebbero potuto giustificare il diritto al rilascio del relativo titolo di soggiorno.

Il motivo è inammissibile, in quanto mostra di non cogliere il preciso contenuto della decisione nel punto che qui interessa.

Contrariamente a quanto ritenuto in ricorso, infatti, la Corte di appello non ha affatto omesso di verificare se, nonostante il mancato riconoscimento delle altre forme di protezione, l’istante potesse aver diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari. Lo ha però escluso, osservando: che non erano state allegate condizioni soggettive di vulnerabilità connesse alle condizioni di salute del richiedente; che nel paese di origine (la Nigeria) non potevano dirsi mancanti le condizioni minime per soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al sostentamento del raggiungimento degli standard minimi per un’esistenza dignitosa; che la documentazione prodotta non era in grado di dimostrare un adeguato livello di integrazione del ricorrente nel nostro paese.

Ciò detto, la ravvisata mancata aderenza della censura al decisum destina la stessa alla statuizione di inammissibilità (Cass. 7 settembre 2017, n. 20910, che nel pronunciarsi in tali termini, richiama il principio già enunciato da Cass. 7 novembre 2005, n. 21490, secondo cui la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.p., n. 4, con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio).

3. – Il ricorso è respinto.

4. – Non è luogo a pronuncia sulle spese di giudizio.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, sempre che questo sia dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 7 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 dicembre 2020

 

 

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