Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29587 del 24/12/2020

Cassazione civile sez. lav., 24/12/2020, (ud. 25/06/2020, dep. 24/12/2020), n.29587

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 374/2020 proposto da:

T.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA GIULIANA,

32, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO GREGORACE, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i

cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 1955/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 14/05/2019 R.G.N. 1620/2017.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. La Corte di Appello di Venezia, con sentenza n. 1955/2019, ha confermato la pronuncia di rigetto della domanda di protezione internazionale avanzata T.M., originario del Mali, il quale aveva riferito di avere abbandonato il proprio paese per il timore di essere arrestato o di venire ucciso dalla polizia per avere commesso dei reati. Il richiedente aveva affermato di avere ucciso un uomo, perchè il padre di questi avrebbe voluto impossessarsi di un campo di calcio in uso ai ragazzi del villaggio.

2. La Corte di appello, al pari del primo giudice, ha ritenuto non dimostrati i fatti narrati, dai quali comunque si evincerebbe la palese capacità criminale dell’istante, che difficilmente si coniuga con la richiesta di protezione.

3. Ha osservato che, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, comma 2, lett. b) e art. 16, comma 1, lett. b), come modificati dal D.Lgs. n. 18 del 2014, art. 1, comma 1, lett. h) e l), n. 1, il diritto allo status di rifugiato o alla protezione sussidiaria non può essere concesso a chi abbia commesso un reato grave al di fuori del territorio nazionale, anche se con dichiarato obiettivo politico, e per identità di ratio, non può essere riconosciuta la protezione per motivi umanitari; che il richiedente, in violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non aveva allegato, nè provato, in che cosa sarebbe consistito il comportamento della polizia e i relativi atti arbitrari a fronte gravissimi reati commessi; che, per altro verso, la vicenda narrata riguardava un fatto di natura privata, relativo ad un conflitto interpersonale, non riconducibile a fattispecie suscettibili di protezione internazionale.

4. Sulla scorta di tali considerazioni (inesistenza del pericolo di vita, non credibilità dell’intera narrazione e natura privata della vicenda), la Corte di appello ha rigettato la domanda di protezione sussidiaria, in relazione alle ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Quanto all’ipotesi di cui alla lett. c) dell’art. 14, ha rilevato, sulla base di fonti accreditate (rapporto UNHCR aggiornato al 2014, Uman Rights Council relativo al Mali 2015, United State Department of State 2013 Mali), l’insussistenza nel centro e nel sud del Mali di un conflitto armato, che invece sta interessando il nord del Paese dal 2012, con conseguente non coinvolgimento della regione di Bamako, di provenienza del richiedente. Ha precisato che anche dalle COI più aggiornate emerge che le regioni centrali del Mali sono interessate esclusivamente da sporadici episodi terroristici, non dissimili da quelli che si verificano nelle capitali Europee, con conseguente infondatezza della domanda anche in relazione all’ipotesi sub c) dell’art. 14 cit..

5. La Corte di merito ha rigettato la domanda di protezione umanitaria, aggiungendo – a quanto sopra esposto circa la sussistenza di condizioni ostative – che, secondo i parametri stabiliti dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 32, nel quadro della richiesta valutazione comparativa effettiva tra la situazione oggettiva e soggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine e il grado di integrazione sociale raggiunto nel nostro Paese, non era stata offerta la dimostrazione di una effettiva integrazione nel tessuto socio-culturale del Pese ospitante, ancorata a circostanze di carattere stabile e tendenzialmente permanente.

1.4. Per la cassazione di tale sentenza T.M. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi. Il Ministero dell’Interno ha depositato atto di costituzione al solo fine dell’eventuale partecipazione alla discussione orale.

5. Il P.G. non ha rassegnato conclusioni scritte.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

6. Con il primo motivo si denuncia violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in relazione alle dichiarazioni rese dal ricorrente e al mancato supporto probatorio, in quanto la direttiva 2004/83/CE, recepita dal D.Lgs. n. 251 del 2007, affida all’autorità amministrativa esaminante e al giudice di merito un ruolo attivo nell’istruttoria della domanda, disancorato dal principio dispositivo. Si deduce che i giudici di appello avrebbero dovuto indicare al ricorrente le contraddizioni in cui lo stesso sarebbe incorso, nonchè acquisire d’ufficio i mezzi di prova necessari.

7. Con il secondo motivo si denuncia omesso esame (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione territoriale e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione delle condizioni del Paese di origine. Si sostiene che i giudici di merito avrebbero dovuto acquisire informazioni aggiornate, le quali avrebbero evidenziato un’espansione della minaccia terroristica anche al sud del Mali.

8. Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per mancata concessione della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), in relazione alle attuali condizioni sociopolitiche del Mali e all’esistenza di una condizione di grave pericolo per l’incolumità delle persone.

9. Con il quarto motivo si denuncia violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in relazione al mancato riconoscimento della protezione umanitaria di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Si sostiene che la situazione sociopolitica del Mali, l’assenza di rapporti familiari, unitamente all’integrazione del ricorrente il territorio dello Stato, avrebbero potuto indurre i giudici di merito al riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

10. Il ricorso è inammissibile.

11. Quanto al rigetto della domanda di protezione sussidiaria, la ratio decidendi su cui la sentenza si fonda è incentrata innanzitutto sulla constatazione che, secondo la narrazione del ricorrente, la fuga dal territorio del Paese di origine era stata determinata dalla commissione di un omicidio volontario nel contesto di una vicenda privata.

12. La Corte ha fatto applicazione del principio per cui, in materia di protezione internazionale, il diritto al riconoscimento dello “status” di rifugiato e della protezione sussidiaria non può essere concesso, rispettivamente ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, comma 2, lett. b) e art. 16, comma 1, lett. b), come modificati dal D.Lgs. n. 18 del 2014, art. 1, comma 1, lett. h) e l), n. 1, a chi abbia commesso un reato grave al di fuori dal territorio nazionale, anche se con un dichiarato obiettivo politico, così come, per identità di “ratio”, non può essere riconosciuta la protezione per motivi umanitari. Tale causa ostativa, in quanto condizione dell’azione, deve essere accertata alla data della decisione e, involgendo la mancanza dell’elemento costitutivo previsto dalla suddetta legge, può essere rilevata d’ufficio dal giudice, anche in appello (Cass. n. 27504 del 2018, n. 16100 del 2015, n. 25073 del 2017, n. 18739 del 2018 e n. 27504 del 2018).

13. Il ricorso per cassazione non si confronta con tale ratio decidendi, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4.

14. In ordine al quarto motivo, fermo il rilievo – di carattere assorbente riguardante l’assenza di una condizione dell’azione (id est: assenza della causa ostativa costituita dalla commissione di gravi reati nel Paese di provenienza), rilevante anche ai fini del rifiuto della protezione umanitaria, comunque, per completezza, circa l’assunto della avvenuta integrazione nello Stato italiano, va osservato quanto segue.

15. Questa Corte ha chiarito (v. Cass. n. 4455 del 2018 e, da ultimo, Cass. S.U. n. 29459, n. 29460 e n. 29461 del 13.11.2019) che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza. Seppure il livello di integrazione raggiunto in Italia non costituisca un dato valutabile isolatamente ed astrattamente, esso certamente concorre nel contesto di una valutazione comparativa tra integrazione sociale raggiunta in Italia e situazione del Paese di origine (cfr. Cass. S.U. n. 29459/2019 cit.). Trattasi di valutazione rimessa al giudice di merito, cui compete tale raffronto con i dati disponibili al momento in cui è chiamato a decidere e dunque all’attualità.

16. Tanto premesso, va rilevato che la Corte di appello non ha affatto negato, come pare ritenere l’istante, che la protezione umanitaria potesse trovare, in astratto, uno spazio applicativo: ha invece escluso che potesse essere in concreto riconosciuta, essendo mancata la dimostrazione di specifiche situazioni soggettive di vulnerabilità riferibili all’appellante.

17. I giudici di merito non hanno mancato di operare tale valutazione comparativa, ma hanno rilevato che le allegazioni del ricorrente quanto alla sua integrazione in Italia erano molto generiche e che l’unico elemento addotto, ossia “sporadiche prestazioni lavorative retribuite”, non potevano fondare i presupposti per ritenere un pieno inserimento sociale. Nel censurare l’apprezzamento compiuto dal giudice di merito, il ricorrente non è in grado di evidenziare circostanze di fatto sottoposte al dibattito processuale e trascurate dalla sentenza impugnata, ma si limita a rinviare alla documentazione prodotta, in tal modo sollecitando una nuova valutazione del materiale probatorio, non consentita dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il quale, nel testo modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, circoscrive le anomalie motivazionali denunciabili con il ricorso per cassazione alla pretermissione di un fatto storico, principale o secondario, che abbia costituito oggetto del dibattito processuale e risulti idoneo ad orientare in senso diverso la decisione, nonchè a quelle che si convertono in violazione di legge, per mancanza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, escludendo pertanto da un lato la possibilità di estendere il vizio in esame al di fuori delle ipotesi, nella specie neppure prospettate, in cui la motivazione manchi del tutto sotto l’aspetto materiale e grafico, oppure formalmente esista come parte del documento, ma risulti meramente apparente, perplessa, o costituita da argomentazioni talmente inconciliabili da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum, e tale vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo del provvedimento (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., n. 8053 e 8054 del 2014).

18. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile. Nulla va disposto quanto alle spese del giudizio di legittimità, non avendo il Ministero intimato svolto attività difensiva.

19. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali (nella specie, inammissibilità del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).

20. In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno recentemente chiarito (sent. n. 4315 del 2020) che la debenza di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione è “…normativamente condizionata a “due presupposti”, il primo dei quali – di natura processuale – è costituito dall’aver il giudice adottato una pronuncia di integrale rigetto o di inammissibilità o di improcedibilità dell’impugnazione, mentre il secondo – appartenente al diritto sostanziale tributario – consiste nella sussistenza dell’obbligo della parte che ha proposto impugnazione di versare il contributo unificato iniziale con riguardo al momento dell’iscrizione della causa a ruolo. L’attestazione del giudice dell’impugnazione, ai sensi all’art. 13, comma 1-quater, secondo periodo, T.U.S.G., riguarda solo la sussistenza del primo presupposto, mentre spetta all’amministrazione giudiziaria accertare la sussistenza del secondo”.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 25 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 dicembre 2020

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