Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29576 del 29/12/2011

Cassazione civile sez. trib., 29/12/2011, n.29576

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 27594/2007 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

B.G.F., J.U.M., elettivamente

domiciliati in ROMA LARGO SOMALIA 67, presso lo studio dell’avvocato

GRADARA RITA, rappresentati e difesi dagli avvocati PANSIERI SILVIA,

FALSITTA GASPARE, giusta delega a margine;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 38/2006 della COMM. TRIB. REG. di PALERMO,

depositata il 26/07/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/10/2011 dal Consigliere Dott. SALVATORE BOGNANNI;

udito per il ricorrente l’Avvocato TIDORE, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato PANSIERI, che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per

quanto di ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’agenzia delle entrate impugna con ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi, la sentenza della CTR della Sicilia n. 38/19/06, depositata il 26 luglio 2006, con la quale, rigettato il suo appello contro la decisione di primo grado emessa pure nei confronti di Giovanni B.F. e della moglie J. U.M., la Commissione Regionale osservava che essi erano residenti a Basilea (Svizzera), dove anche gestivano un locale di antiquariato, sicchè non erano tenuti a dichiarare gli utili da partecipazione nella società Atlas Cementi srl. con sede a (OMISSIS) per l’Irpef e il Ssn. relativamente al 1996, atteso che è in vigore la disciplina speciale di cui alla convenzione italo – svizzera ex L. n. 943 del 1978, concernente il divieto di doppia imposizione, anche perchè l’appellante non aveva fornito la prova che il centro d’interessi dei contribuenti fosse nel territorio nazionale piuttosto che all’estero. B. e J. resistono con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Col primo motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione di norme di legge, con riferimento all’art. 360, nn. 3 e 4 del codice di rito, in quanto la commissione tributaria regionale non considerava che il giudizio di primo grado doveva rimanere sospeso dopo che il contribuente aveva presentato istanza in tal senso, tanto che alle parti veniva dato avviso di trattazione di essa, senza che poi il giudice di primo grado potesse pronunciare sulla domanda, definendo il giudizio stesso con sentenza affetta perciò da nullità, atteso che, sebbene l’amministrazione non avesse titolo a chiedere la sospensione, tuttavia era interessata ad ottenerla, onde fare adeguato fronte alla miriade di pratiche di condono, senza che perciò ne venisse turbata la difesa nel processo.

Il motivo è infondato. Anche se la CTR osservava che l’appellante non aveva titolo per dolersi della mancata sospensione della lite, essendo soltanto il contribuente legittimato ed interessato a richiederla, tuttavia va rilevato che in tema di condono fiscale, la L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 16, comma 6, ha disposto la sospensione di tutte le liti suscettibili di definizione ai sensi del medesimo articolo, eccettuando solo quelle per le quali il contribuente presenti istanza di trattazione e quelle per le quali sia stata già fissata la trattazione della lite nel periodo di sospensione, salvo che per esse il contribuente medesimo dichiari di volersi avvalere delle disposizioni del citato articolo. A tali ultimi fini, gli effetti preclusivi della sospensione restano collegati solo alla data del provvedimento di fissazione della trattazione della causa, e non a quella di notificazione alle parti del relativo avviso. Ne consegue che, ove il predetto provvedimento risulti adottato prima dell’entrata in vigore della norma di sospensione ed il contribuente non manifesti la volontà di avvalersi delle disposizioni dell’art. 16, comma 6, ma partecipi anzi all’udienza, rassegnando richieste tese ad ottenere la decisione della lite, resta preclusa al contribuente medesimo la possibilità di presentare domanda di condono dopo la pronuncia della sentenza, avendo egli ormai consumato la relativa facoltà (Cfr. anche Cass. Sentenza n. 11070 del 12/05/2006), e tale preclusione, ancorchè riferentesi direttamente al contribuente, non può non dispiegare effetto anche nei confronti dell’ufficio. Ciò posto, va altresì rilevato che, nonostante l’istanza di condono, peraltro non contestata dall’amministrazione, tuttavia il contribuente a mezzo del proprio difensore aveva partecipato alla discussione del ricorso dopo averne avuto regolare avviso per l’udienza, con ciò dimostrando di non volere fruire della sospensione in argomento. Quindi la motivazione della CTR sul punto deve correggersi in tal senso.

2) Col secondo motivo la ricorrente denunzia violazione di norme di legge, nonchè vizi di motivazione, giacchè il giudice di appello non considerava che le doglianze prospettate dai ricorrenti in primo grado relativamente alla carenza di motivazione dell’atto impositivo circa la ritenuta residenza in Italia dei contribuenti e il riparto dell’onere probatorio sull’ufficio erano nuove, poichè prospettate solamente con la memoria inerente alla discussione, e quindi tardivamente.

La censura appare inammissibile, perchè generica, atteso che l’agenzia non ha riportato nel gravame il tratto del ricorso in appello in cui avrebbe denunziato tale lagnanza. In ogni caso essa è infondata, dal momento che in tema di contenzioso tributario, tanto nella disciplina dettata dall’abrogato D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, quanto in quella introdotta dal vigente D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il meccanismo d’instaurazione del processo è imperniato sull’impugnazione del provvedimento impositivo volta ad ottenere il sindacato giurisdizionale sulla legittimità formale e sostanziale del medesimo. Il carattere impugnatorio del giudizio comporta che l’indagine sul rapporto tributario è limitata ai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’amministrazione, nonchè degli elementi del fatto costitutivo (tra i quali, come nella fattispecie, la titolarità passiva del rapporto tributario), che il contribuente deve specificamente dedurre nel ricorso introduttivo di primo grado, con l’unico temperamento, previsto dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, art. 19 bis, (applicabile “ratione temporis”), costituito dalla possibilità di introdurre con memoria nuovi motivi nel corso del giudizio di primo grado. I motivi d’impugnazione costituiscono la “causa petendi” della domanda di annullamento dell’atto impositivo, con la conseguente inammissibilità dell’introduzione di nuove “causae petendi” in appello, come sancito, nella disciplina vigente, dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 1; tale inammissibilità non è esclusa dall’art. 79, del medesimo D.Lgs., risultando pacificamente applicabile, sotto l’imperio della disciplina previgente, l’art. 345 c.p.c. (V. pure Cass. Sentenze n. 7766 del 03/04/2006, n. 28680 del 2005).

3) Col terzo motivo la ricorrente lamenta violazione di norme di legge e vizio di motivazione, poichè il giudice del gravame non considerava che doveva essere la parte contribuente a fornire la prova che il centro degli interessi fosse in Svizzera, dove aveva soltanto una casa e la gestione di un antiquariato, per giunta di non grandi dimensioni, mentre invece aveva acquistato trenta immobili in pochi anni in Italia; vi svolgeva importanti attività lavorative e di affari anche in società, senza che peraltro il giudice di appello avesse indicato le ragioni, per cui credeva di privilegiare la tesi di B. e J. piuttosto che quella dell’agenzia, nonostante le prove addotte.

La doglianza è fondata. La CTR osservava che l’agenzia aveva elencato tutti gli acquisti fatti dai contribuenti dal 1988 al 2002, mentre questi avevano prodotto nutrita documentazione inerente alla loro residenza in Svizzera, fornendone in tal modo la dimostrazione.

L’assunto è apodittico, posto che si tratta di giudizio generico, senza che la CTR avesse dato conto del procedimento logico argomentativo seguito per addivenire a tale convincimento, avendo solo enunciato che i coniugi B. avevano dimostrato di risiedere in Svizzera come “…risultava dagli atti processuali”, atteso che la residenza anagrafica non è determinante ai fini dell’imposizione fiscale, dovendosi invece avere riguardo al domicilio come centro d’interessi e di relazioni sociali.

4) Col quarto motivo la ricorrente deduce violazione di norme di legge e vizi di motivazione, in quanto il giudice di appello non considerava che il domicilio fiscale dei contribuenti era proprio in Italia, a nulla rilevando il fatto che anagraficamente essi non fossero qui residenti, e figurassero così all’estero, dovendosi piuttosto avere riguardo alla prevalenza degli interessi ed affari svolti e ai dividendi da partecipazioni societarie percepiti nel territorio nazionale.

Il motivo è fondato, posto che in tema di imposte sui redditi, in base al combinato disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, e dell’art. 43 c.c., deve considerarsi soggetto passivo il cittadino italiano che, pur risiedendo all’estero, stabilisca in Italia, per la maggior parte del periodo d’imposta, il suo domicilio, inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici nonchè delle relazioni personali, e ciò anche in base a vari elementi presuntivi, quali l’acquisto di beni immobili; la gestione di affari in contesti societari; la disponibilità di almeno un’abitazione, nella quale egli trascorra diversi periodi dell’anno, e ciò a prescindere anche dalla iscrizione del soggetto nell’AIRE, come nella specie (Cfr.

anche Cass. Sentenza n. 12259 del 19/05/2010; Sezioni Unite: n. 25275 del 2006).

5) Col quinto motivo la ricorrente denunzia violazione della L. n. 943 del 1978, art. 10, comma 4, nonchè vizi di motivazione, perchè il giudice di secondo grado non considerava che si trattava di utili da partecipazione distribuiti in Italia, dove B. svolgeva varie attività indicate anche dalla Camera di commercio, ed in particolare era legale rappresentate della società Olio Verde srl., con attività stabilmente organizzata e firma sociale, società di cui erano soci anche la moglie e il fratello F., sicchè quanto meno i contribuenti erano tenuti alla dichiarazione di tali redditi ed al pagamento dell’imposta nella misura prevista dalla Convenzione non eccedente il 15%.

La censura va condivisa, dal momento che in caso di distribuzione di dividendi societari, in tema di imposte sui dividendi azionari, l’art. 10 della Convenzione Italo – Svizzera, contro le doppie imposizioni, stipulata il 3 ottobre 1974 e ratificata e resa esecutiva il Italia con L. 26 luglio 1975, n. 386, prevede una competenza impositiva dello Stato in cui essi vengano corrisposti, concorrente con quella principale dello Stato di residenza del percipiente, con il limite dell’aliquota massima del quindici per cento. Ad un tal riguardo appare più aderente allo spirito ed agli scopi della suddetta Convenzione ritenere, in forza della disposizione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 75, che la disciplina di cui all’art. 27 del medesimo decreto non trovi applicazione in materia, ed interpretare perciò la norma convenzionale in questione nel senso che la minore imposta ivi prevista è applicabile per il solo fatto della soggezione del dividendo alla potestà impositiva principale dell’altro Stato, indipendentemente dall’effettivo pagamento dell’imposta. La sufficienza del solo fattore in sè della esistenza del potere impositivo principale dell’altro Stato, deve ritenersi infatti coerente con le finalità delle convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni, le quali hanno la funzione di eliminare la sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali, onde evitare che i contribuenti subiscano un maggior carico fiscale sui redditi percepiti all’estero ed agevolare l’attività economica e d’investimento internazionale (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 1231 del 29/01/2001, n. 12458 del 1999). Peraltro ove si tratti di impresa avente una stabile organizzazione nel Paese di residenza, in tema di distribuzione di dividendi, questi allora vanno tassati per intero secondo la legge nazionale, in virtù dell’art. 10, comma 4 della Convenzione tra gli Stati in argomento e di cui alla legge di ratifica n. 943/78. Nel caso di specie B. rientrava addirittura in tale ipotesi, essendo amministratore di diverse imprese, ed in particolare legale rappresentante della società Olio Verde srl., giusta certificato storico della Camera di commercio in atti.

Ne discende che il ricorso va accolto, limitatamente al terzo, quarto e quinto motivo, con conseguente cassazione della decisione impugnata, con rinvio alla CTR della Sicilia, altra sezione, per nuovo esame, e che si uniformerà ai suindicati principi di diritto.

Quanto alle spese dell’intero giudizio, se ne demanda il regolamento al giudice del rinvio stesso.

P.Q.M.

LA CORTE Accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata, e rinvia, anche per le spese dell’intero giudizio, alla CTR della Sicilia, altra sezione, per nuovo esame.

Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2011

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