Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29574 del 24/12/2020

Cassazione civile sez. I, 24/12/2020, (ud. 29/09/2020, dep. 24/12/2020), n.29574

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 12466/2018 R.G., proposto da:

Budweiser Budvar, in persona del legale rappresentante pro tempore

elettivamente domiciliata in Roma, C.so Vittorio Emanuele 269,

presso lo studio dell’avvocato Romano Vaccarella che la rappresenta

e difende unitamente agli avvocati Achille Saletti e Stefano De

Bosio in forza di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Anheuser Busch LLC, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Lungotevere Michelangelo 9,

presso lo studio dell’avvocato Luigi Biamonti che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati Giulio Enrico Sironi, e Stefania

Bergia in forza di procura speciale 28/3/2019 depositata con memoria

di costituzione di nuovi difensori del 29/2/2020;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2499/2018 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di

ROMA, depositata il 01/02/2018;

e sul ricorso n. 5967/2020 R.G., proposto da:

B.L. Import Export, in liquidazione e concordato preventivo

con riserva s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, Budweiser Budvar, in persona del legale rappresentante pro

tempore;

Italsug Trade s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, K Kiem Gmbh, in persona del legale rappresentante pro

tempore, tutti elettivamente domiciliati in Roma, C.so Vittorio

Emanuele II 269, presso lo studio dell’avvocato Romano Vaccarella

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Stefano De

Bosio, in forza di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Anheuser Busch Inbev Italia s.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore e Anheuser Busch LLC in persona del

legale rappresentante pro tempore entrambi elettivamente domiciliati

in Roma, Lungotevere Michelangelo 9, presso lo studio dell’avvocato

Luigi Biamonti che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati

Stefania Bergia, Anna Colmano, Giulio Enrico Sironi, in forza

rispettivamente di procura speciale in calce al controricorso e di

procura speciale 19/5/2020 con firma autenticata dal Notaio

V.D.B.S.;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 5034/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 16/12/2019;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 29/09/2020 dal

Consigliere UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI;

uditi gli Avvocati ROMANO VACCARELLA E STEFANO DE BOSIO per le parti

ricorrenti e LUIGI BIAMONTI e GIULIO ENRICO SIRONI per le parti

controricorrenti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale CARDINO

ALBERTO, che ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità

del ricorso r.g. 12466/2018 e il rigetto del ricorso 5967/2020.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Ricorso n. 12466/2018.

1. Con ricorso notificato il 30/4/2018 l’ente pubblico della Repubblica Ceca Budweiser Budvar, in lingua ceca “Budejovicki Budvar narodni podnik” (di seguito, semplicemente, B.B.) ha impugnato per revocazione ex art. 391 bis c.p.c. la sentenza della 1 Sezione civile della Corte di Cassazione n. 2499 dell’1/2/2018, resa sul ricorso proposto nei confronti della società statunitense Anheuser Busch LLC (di seguito semplicemente A.B.) e sul ricorso incidentale di quest’ultima, proponendo otto motivi di revocazione.

In estrema sintesi, il processo si era sviluppato come segue.

1.1. La società A.B. con citazione del maggio 2002 convenne in giudizio l’ente B.B. dinanzi al Tribunale di Roma per far dichiarare la nullità per mancanza di novità della frazione italiana di tre marchi internazionali registrati nel 1994 e nel 1997 da B.B. recanti i nn. 614.536, 614.537 e 674.530, contenenti la denominazione geografica “Budweiser”, ossia “della città di (OMISSIS)”, toponimo in lingua tedesca boema della città celebre per l’arte della birra, in lingua ceca “Budejovice”, facendo valere a tal fine il proprio risalente preuso sul marchio di fatto “Budweiser”, poi registrato da A.B. in Italia nel 1993 al n. 589.905.

B.B. si difese eccependo, al fine di paralizzare l’avversaria domanda, la natura decettiva del marchio di A.B., a causa della celebrità della birra artigianale di (OMISSIS) e della produzione effettuata altrove e con differenti ingredienti e metodiche della birra da parte di A.B.; in via riconvenzionale B.B., a prescindere dal rischio di inganno del pubblico, chiese la tutela del segno come indicazione geografica in forza di registrazioni efficaci in Italia e propose domande di accertamento di atti di concorrenza sleale e di inadempimento rispetto a impegni contrattuali assunti da A.B. dapprima nel 1911 e poi nel 1939.

B.B. fece poi valere anche lo jus superveniens costituito dal Trattato di Atene del 16/4/2003 con cui la Repubblica ceca aveva aderito alla Unione Europea e l’indicazione geografica protetta (acronimo: IGP) secondo il diritto Europeo sul presupposto che i tre toponimici in lingua ceca identificassero birre non producibili altrove.

Con sentenza n. 11290 del 2005 il Tribunale di Roma dichiarò la nullità per mancanza di novità dei tre marchi di B.B. e respinse le sue domande riconvenzionali: a ciò risolvendosi in forza dell’accertato preuso da parte di A.B., dell’irrilevanza del luogo di produzione della birra e dell’inapplicabilità della tutela riservata alle IGP in forza del Trattato, riferita alle espressioni in lingua boema e non a quelle in lingua tedesca.

1.2. All’esito del giudizio di appello, la Corte di appello di Roma con sentenza n. 1082/2007 rigettò il gravame proposto da B.B., sia con riferimento alla natura decettiva del marchio di A.B., sia con riferimento all’invocata tutela come IGP, dando rilievo al nome ufficiale della città espresso in lingua ceca, mentre la pretesa indicazione geografica era espressa in lingua tedesca.

1.3. Con la sentenza n. 21023 del 13/9/2013, per quanto in questa sede rileva, la Corte di Cassazione accolse il quarto motivo del ricorso principale proposto da B.B., dichiarando assorbiti tutti gli altri motivi.

Con tale motivo B.B. aveva denunciato l’illiceità della registrazione di marchio da parte di A.B. in quanto idoneo ad ingannare il pubblico circa l’ambiente di origine o i pregi del prodotto per il quale il marchio era stato depositato.

A tal proposito la Cassazione osservò che la motivazione della sentenza sul punto era basata sull’unica affermazione che la parola “Budweiser” non aveva nulla a che fare con la denominazione protetta “Budejovice”, che corrisponde al nome di una attuale città ceca, in quanto, pur se ricavata dalla denominazione tedesca dell’antica città ceca di (OMISSIS), non corrispondeva ad alcuna attuale località geografica; che essa quindi si basava sulla considerazione che i nomi geografici usati in passato e non più attuali non potessero continuare a costituire indicazioni di provenienza geografica; che invece nessuna norma prevedeva che le denominazioni geografiche, ovvero i nomi geografici, fossero solo quelli attualmente previsti secondo la legislazione e le disposizioni amministrative vigenti; che l’art. 14 cod. propr. ind. prevedeva l’illiceità di quei segni idonei ad ingannare il pubblico in particolare sulla provenienza geografica, riferendosi genericamente alla provenienza geografica, termine di per sè in grado di comprendere qualunque designazione idonea ad indicare la provenienza di un prodotto da un certo ambito geografico; che pertanto la denominazione geografica continuava a rivestire piena validità ed efficacia quando la sua notorietà perdurava, anche se non era più ufficialmente usata; che la questione in esame non era coperta dal giudicato formatosi a seguito della precedente sentenza n. 13968 del 2002 della Corte di Cassazione, che in proposito si era limitata a una statuizione di assorbimento, emessa in rito e insuscettibile di formare giudicato.

La Cassazione aggiunse inoltre “In particolare la Corte di rinvio dovrà tenere conto del principio dianzi affermato nel rivalutare la questione posta con il primo motivo del presente ricorso relativo alla protezione accordata come indicazioni geografiche dal trattato di Atene del 2003 a tre denominazioni in lingua ceca della birra prodotta dall’ente ricorrente”.

1.4. La Corte di appello di Roma, adita in sede di rinvio, con la sentenza n. 4430 del 12/7/2016 respinse la domanda proposta da A.B. e la domanda riconvenzionale proposta da B.B., compensando le spese processuali dell’intero giudizio.

1.5. Avverso tale decisione propose ricorso per cassazione B.B. con sedici motivi a cui resistette A.B. anche con ricorso incidentale basato su tre motivi.

Con la sentenza n. 2499 del 13/2/2018, oggetto della presente impugnazione, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso principale di B.B., ha accolto i primi due motivi del ricorso incidentale di A.B. e ha dichiarato inammissibile il terzo, ha cassato la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e ha rinviato la causa, anche per le spese della fase di legittimità, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.

2. Con atto notificato il 7/6/2018 ha proposto controricorso Anheuser Busch LLC, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’avversaria impugnazione per revocazione.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. datata 26/2/2020.

L’udienza di discussione fissata per il 26/3/2020 ha subito necessario differimento a causa della sospensione dei procedimenti giudiziari per l’emergenza Covid 19.

In data 16/6/2020 le parti ricorrenti del procedimento recante il numero di r.g. 5967/2020 hanno chiesto l’immediata rimessione del fascicolo alla 1 sezione civile, ove era pendente il ricorso r.g. 12466/2018 relativo al presente ricorso per revocazione proposto da B.B. avverso la sentenza n. 2499/2018 per la stretta connessione delle vicende processuali, per la riunione o la discussione unitaria dei due procedimenti.

Con provvedimento del 17/7/2020 l’istanza è stata accolta ed è stata fissata udienza di discussione nella stessa data del 29/9/2020 per entrambi i ricorsi.

In data 29/7/2020 la ricorrente ha depositato ai sensi dell’art. 372 c.p.c. copia della sentenza n. 3796/2020 della Corte di appello di Roma, pubblicata il 28/7/2020, pronunciata in conseguenza del rinvio disposto dalla sentenza impugnata n. 2499 del 2018 della Corte di Cassazione.

Nella stessa data del 29/7/2020 la controricorrente ha sostituito il collegio difensivo.

La ricorrente ha depositato seconda memoria ex art. 378 c.p.c. datata 7/9/2020.

La resistente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. datata 23/9/2020.

Il Procuratore generale ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.

La causa è stata discussa oralmente all’udienza pubblica del 29/9/2020.

Ricorso n. 5967/2020.

3. Con sentenza parziale n. 7988 del 3/7/2017 il Tribunale di Milano – previa separazione disposta con contestuale ordinanza di varie domande indicate al punto n. 17 della sentenza stessa – si è pronunciato su numerose altre domande, ritenute immediatamente suscettibili di decisione con riferimento alle proposte eccezioni preliminari e pregiudiziali nella causa promossa nel 2014 congiuntamente da B.B. e da alcune imprese distributrici Italsug Trade s.r.l. (di seguito, semplicemente, Italsug), B.L. Import Export s.r.l. (di seguito, semplicemente, B.) e K.Kiem G.m.b.h. (di seguito, semplicemente Kiem) nei confronti di A.B. e della consociata Anheuser Busch Inbev Italia s.p.a. (di seguito A.B. Italia).

Il Tribunale con la predetta sentenza:

a) ha dichiarato inammissibile la domanda proposta dalle attrici di accertamento della situazione di incompatibilità di un membro del collegio;

b) ha dichiarato inammissibili tutte le domande svolte da Italsug e Kiem nei confronti delle due convenute A.B. e A.B. Italia per difetto di legittimazione attiva o perchè già decise con sentenza passata in giudicato, escluse le domande di risarcimento del danno per concorrenza sleale verso A.B. Italia, e di risarcimento del danno per responsabilità da reato e di arricchimento senza causa verso entrambe le convenute;

c) ha dichiarato inammissibili tutte le domande svolte da B. nei confronti delle due convenute A.B. e A.B. Italia per difetto di legittimazione attiva, escluse le domande di risarcimento del danno per concorrenza sleale, di risarcimento del danno per responsabilità da reato e di arricchimento senza causa verso entrambe le convenute;

d) ha dichiarato inammissibili tutte le domande svolte da B.B. nei confronti delle due convenute A.B. e A.B. Italia fondate sui contratti del 1911 e del 1939, nonchè sull’asserita “reviviscenza” dei marchi dichiarati nulli nel giudizio conclusosi con la sentenza della Cassazione n. 13168/2002;

e) ha dichiarato inammissibile la domanda svolte da B.B. nei confronti di A.B. di nullità della frazione italiana del marchio internazionale Budweiser registrato il 30/9/2004 al n. 835.737;

f) ha dichiarato la litispendenza relativamente a tutte le altre domande proposte da B.B. verso A.B., con esclusione della domanda di determinazione del quantum risarcibile;

g) ha condannato le società attrici alla rifusione delle spese di lite.

Con la contestuale ordinanza il Tribunale ha ordinato la nuova iscrizione a ruolo della causa relativa alle domande separate che dovevano proseguire, adempimento peraltro non espletato dalle parti attrici con la conseguente estinzione del giudizio.

4. Avverso la predetta sentenza hanno proposto appello le attrici B.B., B., Italsug e Kiem svolgendo nove motivi per ottenere la totale riforma della pronuncia impugnata, nonchè dell’ordinanza di separazione, di cui hanno lamentato l’abnormità.

Hanno proposto appello incidentale le appellate A.B. e A.B. Italia sulla base di sei motivi, svolti per scrupolo difensivo e in via subordinata, salvo gli ultimi due.

Con la sentenza n. 5034 del 16/12/2019 la Corte di appello di Milano ha rigettato sia l’appello principale, sia quello incidentale, confermando integralmente la sentenza di primo grado, condannando le appellanti principali a rifondere alle controparti appellate i 4/5 delle spese del giudizio di secondo grado, per il resto compensate, nonchè a pagar loro la somma di Euro 1.500,00 ex art. 96 c.p.c., comma 3.

5. Avverso la predetta sentenza, notificata in data 20/12/2019, con atto notificato il 18/2/2020 hanno proposto ricorso per cassazione B.B., Italsug, B. (ora B.L. Import Export in liquidazione e concordato preventivo con riserva s.r.l.) e Kiem, svolgendo nove motivi.

Con atto notificato il 1/6/2020 hanno proposto controricorso A.B. e A.B. Italia, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’avversaria impugnazione.

Il controricorso appare tempestivo in relazione alla sospensione dei termini processuali sino all’11/5/2020 per l’emergenza epidemiologica Covid 19, disposta con i decreti L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni in L. 24 febbraio 2020, n. 27, e L. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni in L. 5 giugno 2020, n. 40, poichè il termine per il deposito del ricorso notificato il 18/2/2020 scadeva il 9/3/2020 (data compresa nella sospensione) ed è quindi slittato al 12/5/2020, sicchè il termine di cui all’art. 370 c.p.c. veniva a scadere appunto il 1/6/2020.

Come già riferito supra, in data 16/6/2020 le parti ricorrenti hanno chiesto la riunione del presente ricorso a quello iscritto al n. r.g. 12466/2018 per revocazione proposto da B.B. avverso la sentenza n. 2499/2018 per la stretta connessione delle vicende processuali, ovvero la loro la discussione unitaria.

Con provvedimento del 17/7/2020 l’istanza è stata accolta ed è stata fissata udienza di discussione nella stessa data del 29/9/2020 per entrambi i ricorsi.

In data 29/7/2020 le parti ricorrenti hanno depositato ai sensi dell’art. 372 c.p.c. copia della sentenza n. 3796/2020 della Corte di appello di Roma, pubblicata il 28/7/2020, pronunciata in conseguenza del rinvio disposto dalla sentenza impugnata n. 2499 del 2018 della Corte di Cassazione.

Le parti ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. datata 7/9/2020.

Le parti resistenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. datata 23/9/2020.

Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare la Corte ritiene necessario disporre la riunione dei due ricorsi, strettamente connessi per vincolo di pregiudizialità poichè l’efficacia del giudicato formatosi nel procedimento in cui è stata pronunciata la sentenza di questa Corte n. 2499/2018, oggetto di richiesta di revocazione di cui al ricorso r.g.12466/2018, viene invocata nell’ambito del procedimento oggetto del ricorso n. 5967/2020.

E’ quindi necessario prevenire un possibile contrasto fra le due decisioni con la riunione dei due procedimenti, come consente la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale l’istituto della riunione di procedimenti relativi a cause connesse, previsto dall’art. 274 c.p.c., volto a garantire l’economia ed il minor costo del giudizio, oltre alla certezza del diritto, trova applicazione anche in sede di legittimità, sia in relazione a ricorsi proposti contro sentenze diverse pronunciate in separati giudizi sia, a maggior ragione, in presenza di sentenze pronunciate in grado di appello in un medesimo giudizio, legate l’una all’altra da un rapporto di pregiudizialità e impugnate, ciascuna, con separati ricorsi per cassazione (Sez. 1, n. 22631 del 31/10/2011, Rv 620433-01; Sez.U, n. 3690 del 9/3/2012, Rv. 621343-01).

In particolare è stato affermato che la riunione delle impugnazioni può altresì essere facoltativamente disposta, anche in sede di legittimità, ove esse siano proposte contro provvedimenti diversi ma fra loro connessi, quando la loro trattazione separata prospetti l’eventualità di soluzioni contrastanti, siano ravvisabili ragioni di economia processuale, ovvero siano configurabili profili di unitarietà sostanziale e processuale delle controversie (Sez. U, n. 1521 del 23/01/2013, Rv. 624792 – 01).

2. Con riferimento al primo ricorso, appare opportuno premettere una ricapitolazione dei principi in materia di impugnazione per revocazione delle decisioni, sentenze e ordinanze, della Corte di Cassazione.

2.1. Il ricorso per revocazione ex art. 391 bis c.p.c. è consentito solo se la sentenza o l’ordinanza pronunciata dalla Corte di Cassazione è affetta da errore materiale ovvero da errore di fatto ai sensi dell’art. 395, n. 4), ossia se la decisione è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa.

Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare. In tal caso la parte interessata può chiederne la correzione o la revocazione con ricorso ai sensi degli artt. 365 e ss. entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione ovvero di sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento.

2.2. L’errore di fatto revocatorio, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 4, consiste in una falsa percezione della realtà, in una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile, che abbia condotto ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo, incontestabilmente escluso dagli atti e dai documenti di causa, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che, dagli stessi atti e documenti, risulti positivamente accertato, sicchè i vizi relativi all’interpretazione della domanda giudiziale non rientrano nella nozione di errore di fatto denunciabile mediante impugnazione per revocazione (Sez. 3, 06/12/2018, n. 31563).

Il predetto errore di fatto revocatorio presuppone il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti processuali, ciò che non è configurabile nella ipotesi di erronea individuazione, nella sentenza, della norma applicabile al caso concreto, integrandosi, in tal caso, un errore di diritto (Sez. U, n. 9882 del 20/07/2001, Rv. 548338 – 01); non è invece previsto come causa di revocazione della sentenza di cassazione l’errore di diritto, sostanziale o processuale, al pari dell’errore di giudizio o di valutazione (Sez. U, n. 15227 del 30/06/2009, Rv. 608893 – 01).

D’altro canto, con riguardo al sistema delle impugnazioni, la Costituzione non impone al legislatore ordinario altri vincoli oltre a quelli, previsti dall’art. 111 Cost., della possibilità di ricorso in cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, sicchè non appare irrazionale la scelta del legislatore di riconoscere ai motivi di revocazione una propria specifica funzione, escludendo gli errori giuridici e quelli di giudizio o valutazione, proponibili solo contro le decisioni di merito nei limiti dell’appello e del ricorso per cassazione, considerato anche che, quanto all’effettività della tutela giurisdizionale, la giurisprudenza Europea e quella costituzionale riconoscono la necessità che le decisioni, una volta divenute definitive, non possano essere messe in discussione, onde assicurare la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, nonchè l’ordinata amministrazione della giustizia (Sez. U, n. 8984 del 11/04/2018, Rv. 648127 – 02).

2.3. L’errore di fatto idoneo a costituire il vizio revocatorio:

1) deve consistere in una errata percezione del fatto, in una svista di carattere materiale, oggettivamente e immediatamente rilevabile e tale da aver indotto il giudice a supporre la esistenza di un fatto la cui verità era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un fatto accertato in modo parimenti indiscutibile;

2) deve essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa;

3) non deve cadere su di un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata;

4) deve presentare i caratteri della evidenza e della obiettività, sì da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche;

5) non deve consistere in un vizio di assunzione del fatto nè in un errore nella scelta del criterio di valutazione del fatto medesimo;

6) deve riguardare gli atti interni, cioè quelli che la Corte esamina direttamente, con propria autonoma indagine di fatto, nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili d’ufficio, e avere quindi carattere autonomo, nel senso di incidere direttamente ed esclusivamente sulla sentenza della S.C., perchè, se invece l’errore è stato causa determinante della decisione di merito, in relazione ad atti o documenti che ai fini della stessa sono stati o avrebbero dovuto essere esaminati, il vizio che inficia la sentenza dà adito agli specifici mezzi di impugnazione esperibili contro le sentenze di merito (Sez. 1, n. 8295 del 20/04/2005, Rv. 581562 01; Sez. 1, n. 4295 del 01/03/2005, Rv. 583237 – 01; Sez. U, n. 26022 del 30/10/2008, Rv. 605295 – 01); in particolare, costituiscono atti interni quelli conseguenti alla proposizione del ricorso (ad esempio, il deposito ex art. 369 c.p.c., comma 1, ed il controricorso con eventuale ricorso incidentale), tutti gli atti che vanno depositati insieme al ricorso ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, nonchè il fascicolo d’ufficio, ma esclusivamente nei casi in cui la Corte debba esaminarli direttamente con propria autonoma indagine di fatto, senza cioè la mediazione della sentenza impugnata, in quanto siano stati dedotti errores in procedendo, ovvero perchè siano emerse questioni processuali rilevabili d’ufficio (Sez. 1, n. 24856 del 22/11/2006, Rv. 593234 01).

Occorre quindi la deduzione di un errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti e tale da aver indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (o escluso) nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale, e non anche nella pretesa errata valutazione di fatti esattamente rappresentati (Sez. U, n. 26022 del 30/10/2008, Rv. 605295 – 01).

E’ stata anche chiarita l’importanza in tema di revocazione della distinzione tra giudizio di fatto (tutto ciò che attiene all’accertamento della verità di “fatti bruti”, fatti, dunque, accaduti nel mondo fenomenico, ai quali si addice per l’appunto il predicato di “vero” o “falso”), e giudizio di diritto (tutto quanto attiene all’applicazione di norme e, così, all’individuazione della norma applicabile al caso concreto, alla sua interpretazione, alla sussunzione dei fatti, come ricostruiti, entro la fattispecie astratta, all’individuazione delle conseguenze da quella norma previste); l’errore revocatorio ricorre in presenza di una falsa percezione della realtà: di un errore, cioè, obbiettivamente ed immediatamente percepibile, che attiene all’accertamento o alla ricostruzione della verità di specifici dati empirici, idonei a dar conto di un accadimento esterno al processo, al quale la parte interessata intende ricollegare effetti giuridici a sè favorevoli, all’esito della sua sussunzione entro una fattispecie generale ed astratta determinata (Sez.1, n. 9361 del 16/4/2018; Sez.1, n. 8760 del 10/4/2018; Sez.1, 15186 del 20/6/2017; Sez.6-3, n. 8472 del 29/4/2016; Sez.6-3, n. 17402 del 30/7/2014).

2.4. E’ stata quindi riconosciuta l’ammissibilità del l’impugnazione per revocazione in caso di omesso esame di un motivo di ricorso in presenza di un errore che presuppone l’esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti di causa (Sez. 1, n. 26301 del 18/10/2018 Rv. 651304 – 01); deve tuttavia escludersi il vizio revocatorio tutte le volte che la pronunzia sul motivo sia effettivamente intervenuta, anche se con motivazione che non abbia preso specificamente in esame alcune delle argomentazioni svolte come motivi di censura del punto, perchè in tal caso è dedotto non già un errore di fatto (quale svista percettiva immediatamente percepibile), bensì un’errata considerazione e interpretazione dell’oggetto di ricorso e, quindi, un errore di giudizio (Sez. U, n. 31032 del 27/11/2019, Rv. 656234 – 01; Sez. 6 – 3, n. 3760 del 15/02/2018, Rv. 647695-01; Sez. U, n. 30994 del 27/12/2017,Rv. 646963 – 01).

2.5. Deve invece essere recisamente esclusa l’impugnazione per revocazione per errore di giudizio e interpretazione degli atti processuali formatisi sulla base di una valutazione (Sez. 6 – L, n. 10184 del 27/04/2018, Rv. 648204 – 01; Sez. 6 – 5, n. 20635 del 31/08/2017, Rv. 645048 – 01); i vizi relativi all’interpretazione della domanda giudiziale non rientrano nella nozione di “errore di fatto” denunciabile mediante impugnazione per revocazione (Sez. 6 – L, n. 6405 del 15/03/2018, Rv. 647570 – 01).

2.6. Infine, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il ricorso per revocazione delle pronunce di cassazione con rinvio deve ritenersi inammissibile soltanto se l’errore revocatorio enunciato abbia portato all’omesso esame di eccezioni, questioni o tesi difensive che possano costituire oggetto di una nuova, libera ed autonoma valutazione da parte del giudice del rinvio ma non anche se la pronuncia di accoglimento sia fondata su di un vizio processuale dovuto ad un errore di fatto o se il fatto di cui si denuncia l’errore percettivo sia assunto come decisivo nell’enunciazione del principio di diritto, o, nell’economia della sentenza, sia stato determinante per condurre all’annullamento per vizio di motivazione (Sez. 6, n. 12046 del 17/05/2018, Rv. 648547 – 01; Sez.2, 20/10/2003, n. 15660; Sez. lav., 07/11/2001, n. 13790; nonchè, in motivazione, Sez.6-5, 20/6/2019, n. 16522).

3. Nella specie la sentenza n. 2499 del 2018 di questa Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata della Corte di appello di Roma n. 2330 del 2016.

Tuttavia i plurimi errori revocatori denunciati da B.B., secondo l’impostazione del ricorrente, hanno condotto a statuizioni che non possono costituire oggetto di una nuova, libera ed autonoma valutazione da parte del giudice del rinvio e i fatti al cui proposito viene dedotto l’errore percettivo vengono infatti descritti come decisivi nell’enunciazione del principio di diritto e determinanti nella decisione di annullamento della sentenza.

4. Con il primo motivo di ricorso per revocazione, proposto ex art. 395 c.p.c., n. 4, l’ente ricorrente denuncia “errata trascrizione e conseguente travisamento del “mandato” conferito da Cass. 21023/2013″.

4.1. Secondo il ricorrente la sentenza qui impugnata si è basata, sia per il rigetto del ricorso principale, sia per l’accoglimento di quello incidentale, su di una errata identificazione del principio di diritto espresso dalla prima sentenza di legittimità n. 21023/2013, secondo cui non era sufficiente la notorietà del nome “(OMISSIS)” quale sinonimo di “Budejovice” al momento della registrazione del marchio da parte di A.B. negli anni Novanta, poichè la perduranza di tale notorietà doveva essere verificata presso il pubblico italiano anche negli anni 2000.

A tale approdo, secondo il ricorrente, la Cassazione è pervenuta sulla base della sentenza n. 21023/2013, citata riportando cinque passi virgolettati, che invece erano assenti nel suo testo: questo è l’errore revocatorio denunciato, comportante falsa supposizione di esistenza di affermazioni pacificamente assenti nella prima sentenza di cassazione con rinvio.

Sarebbe stato così stravolto il significato del mandato conferito al giudice del rinvio, perchè la sentenza n. 21023/2013 aveva ritenuto più che sufficiente la decettività fino agli anni Novanta ai fini dell’invalidazione della causa petendi di A.B. per nullità assoluta del suo marchio; tale decettività doveva semplicemente essere verificata in concreto, non potendo giovare a tal fine la cosa giudicata al proposito maturata solo con la successiva pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione n. 21472/2013, deliberata nella stessa data della sentenza n. 21023/2013, ma depositata e pubblicata successivamente il 19/9/2013.

4.2. In particolare il ricorrente fonda l’errore revocatorio dedotto, che avrebbe, in tesi, portato la Corte di Cassazione all’errata lettura del principio di diritto espresso dalla sentenza n. 21023/2013, su cinque elementi.

4.2.1. In primo luogo, il ricorrente evidenzia che nel suo p. 12.3 la sentenza impugnata n. 2499/2018 riporta la massima ufficiale della sentenza n. 21023/2013 elaborata dall’Ufficio del Massimario e non il testo letterale della sentenza n. 21023/2013, che non aveva formalmente enucleato e ipostatizzato, con apposita evidenza grafica, il principio di diritto cristallizzato ex art. 384 c.p.c..

La citata massima così suona: “Ai fini della tutela del marchio d’impresa recante indicazioni geografiche da segni idonei ad ingannare il pubblico, la denominazione identificativa prescelta continua a rivestire piena validità ed efficacia quando la sua notorietà perdura, ancorchè essa non sia più ufficialmente usata e sia perciò diversa da quella attuale, riferendosi l’art. 14 del Codice della proprietà industriale a qualunque designazione idonea ad indicare presso i consumatori la provenienza di un prodotto da un certo ambito geografico” (Sez. 1, n. 21023 del 13/09/2013, Rv. 628001 01).

La motivazione della sentenza n. 21023/2013 recita: “Da questa considerazione inevitabilmente discende che la denominazione geografica continua a rivestire piena validità ed efficacia, ai fini che qui interessano, quando la sua notorietà perdura ancorchè essa non sia più ufficialmente usata”.

4.2.2. In secondo luogo, il ricorrente rileva che nel suo p. 12.3.1. la sentenza n. 2499/2018 riporta come citazione della sentenza n. 21023/2013 uno stralcio testuale che proviene invece dalla “sentenza gemella” n. 21472/2013, volto a giustificare l’esclusione della necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

4.2.3. Analoga confusione – prosegue il ricorrente – è stata consumata a pagina 20, p. 15.3, laddove il brano riportato, in tema di collocazione temporale della ritenuta notorietà della denominazione geografica Budweiser, appartiene alla sentenza gemella n. 21472/2013 e non alla precedente n. 21023/2013, resa in questo stesso giudizio.

4.2.4. Inoltre – osserva B.B. – nel p. 15.6. della sentenza n. 2499/2018 viene attribuito alla sentenza n. 21023/2013 l’accertamento della notorietà della denominazione geografica fino agli anni ‘90: secondo il ricorrente, ciò è errato perchè tale accertamento è invece contenuto nella sentenza gemella.

4.2.5. L’ultimo punto evidenziato dal ricorrente invece si riferisce al p. 15.4. della sentenza impugnata, laddove la Cassazione, sulla base di quanto in precedenza osservato al p. 15.3., afferma testualmente “In altri termini, un accertamento che ha stabilito inequivocabilmente l’esistenza di un uso decettivo della denominazione sino alla metà degli anni novanta andava completato con riferimento al periodo successivo e, perciò, nutrito di una verifica probatoria che non poteva essere di competenza della Corte di cassazione, ma del giudice del rinvio. Accertamento che è stato compiuto, sappiamo, con esito negativo”.

4.2.6. In sostanza il ricorrente denuncia la presenza nella sentenza n. 2499/2018 di vari errori, sia perchè è stata richiamata la massima ufficiale, e non la motivazione, della sentenza n. 21023/2013, sia perchè erano stati imputati alla precedente sentenza n. 21023/2013, resa nello stesso giudizio, brani testuali della sentenza n. 21472/2013 (ossia della sentenza gemella, deliberata insieme e depositata successivamente).

Quest’errore percettivo, secondo la ricostruzione dell’Ente ricorrente, si sarebbe rivelato determinante nell’attività interpretativa svolta dalla Corte circa la portata del principio di diritto cristallizzato nella precedente sentenza n. 21023/2013; in particolare, quanto alla collocazione temporale dell’accertamento della “perdurante notorietà” della denominazione geografica, non indicata in modo esplicito dalla sentenza n. 21023/2013, e del “mandato” da questa conferito al giudice del rinvio.

Più precisamente, il ricorrente assume che, per effetto dell’errore lamentato, la sentenza impugnata n. 2499/2018 abbia interpretato il contenuto della precedente sentenza n. 21023/2013, resa nello stesso giudizio, e del mandato conferito al giudice del rinvio – che non conteneva riferimenti testuali a un preciso periodo temporale – e abbia concluso, erroneamente, che l’accertamento doveva estendersi agli anni successivi al 2000 e non limitarsi agli anni Novanta del secolo XX, perchè altrimenti con la sentenza n. 21023/2013 (alla quale era stato attribuito erroneamente l’accertamento contenuto nella successiva n. 21472/2013) la Cassazione avrebbe potuto decidere la controversia nel merito e non avrebbe avuto bisogno di disporre il rinvio.

L’influenza determinante del predetto errore di attribuzione dell’accertamento della notorietà della denominazione geografica sul percorso logico-giuridico della Corte di Cassazione nella sentenza n. 2499/2018 risulterebbe poi confermata dalla lettura dei p.p. 15.215.4 della sentenza, che sono volti a spiegare la ritenuta riferibilità del mandato conferito al giudice del rinvio ad epoca successiva agli anni ‘90 del secolo XX.

4.3. Nella sentenza impugnata la Corte ha scritto: “15.2. Nè può sensatamente affermarsi che la decisione cassatoria avrebbe vincolato il giudice del rinvio all’affermazione della notorietà di quella denominazione storica, come indicazione geografica, perchè altrimenti (in disparte la chiarezza del mandato conferito) non si comprenderebbe perchè – essendo già certa quella conclusione essa non sia stata già affermata dalla Corte di cassazione, quantomeno nell’esercizio dei suoi poteri di decisione nel merito (ai sensi dell’art. 384 c.p.c.).

15.3. Del resto la sentenza n. 21023 ha chiaramente espresso il principio secondo cui “L’utilizzo lecito come marchio di un prodotto di un nome geografico che non costituisce indicazione geografica ricorre dunque quando non esiste alcun collegamento tra il prodotto e la località geografica e i prodotti tipici di questa”, sicchè non è un caso che, pur dopo aver dato atto che “la Corte d’appello (aveva ritenuto) (addizione del R.) sussistere la conoscenza da parte del consumatore italiano della provenienza dalla città boema della birra Budweiser da una pagina scaricata dal sito Internet Wikipedia sulla storia di (OMISSIS) nonchè da cinque estratti da pubblicazioni sulla birra, tutte edite negli anni tra il 1995 e il 1999, in cui si parla anche della birra della (OMISSIS), chiamandola Budweiser” ha poi ritenuto necessario precisare che “la documentazione posta a base della decisione della Corte d’appello si riferisce a metà anni novanta ed è pertanto prossima al 1993 data di registrazione del marchio da parte di A.B., che costituisce la data cui far riferimento ai fini di valutare la decettività del marchio, e quindi la valutazione della conoscenza appare correttamente riferita a tale periodo” e che perciò “la denominazione geografica continua a rivestire piena validità ed efficacia, ai fini che qui interessano, quando la sua notorietà perdura ancorchè essa non sia più ufficialmente usata”. 15.4. In altri termini, un accertamento che ha stabilito inequivocabilmente l’esistenza di un uso decettivo della denominazione sino alla metà degli anni novanta andava completato con rifermento al periodo successivo e, perciò, nutrito di una verifica probatoria che non poteva essere di competenza della Corte di cassazione, ma del giudice del rinvio….”.

4.3.1. In altre parole – precisa il ricorrente – la sentenza impugnata per revocazione ha ritenuto che la precedente pronuncia n. 21023/2013 avesse demandato al giudice del rinvio il compito di accertare la perdurante notorietà del collegamento negli anni 2000 perchè altrimenti, se invece fosse stata ritenuta rilevante e sufficiente la perdurante notorietà negli anni Novanta, al momento della registrazione dei marchi di B.B., non vi sarebbe stato alcun bisogno del rinvio al giudice di merito visto che la stessa sentenza n. 21023/2013 aveva già accertato a quell’epoca la perdurante notorietà.

4.3.2. Poichè tale accertamento non era contenuto nella sentenza n. 21023/2013 ed era invece contenuto in altra sentenza, pubblicata successivamente (ancorchè deliberata nella stessa data), su cui la sentenza n. 21023/2013 non poteva fondarsi, secondo l’Ente ricorrente, l’intero ragionamento della Corte di Cassazione, sfociato nell’affermazione centrale circa l’esigenza di una indagine completata per il periodo successivo al 2000, era stato influenzato in modo determinante dall’errore commesso.

Il quarto motivo di ricorso principale accolto dalla sentenza n. 21023/2013 si riferiva alla illiceità della registrazione del marchio di A.B. perchè decettivo e quindi al momento in cui la registrazione era avvenuta; quindi l’accertamento del fatto se la denominazione geografica continuasse a rivestire validità ed efficacia, quando la sua notorietà perdurava, anche se essa non era più ufficialmente usata, doveva essere logicamente riferita al momento della registrazione del marchio di A.B..

La diversa conclusione attinta dalla sentenza impugnata sarebbe stata quindi determinata dall’attribuzione alla sentenza n. 21023/2013 – e non a quella n. 21472/2013 – dell’accertamento della perdurante notorietà della denominazione geografica “Budweiser” negli anni Novanta.

4.3.3. L’Ente ricorrente pone in particolare risalto il fatto che la perdurante notorietà della denominazione geografica in lingua tedesca boema dell’espressione “Budweiser” è stata accertata solo successivamente con la sentenza n. 21472/2013 del 19/9/2013.

In tale sentenza è stata ritenuta corretta la valutazione della Corte d’appello di Milano, che aveva rilevato che il giudicato formatosi con la precedente sentenza sempre della Corte d’appello di Milano del 2000 circa la mancanza di un milieu (cioè, di caratteristiche della birra boema strettamente legate al luogo di produzione) fosse strettamente riferibile alla fattispecie riguardante le indicazioni geografiche e non si estendesse al caso in cui si discuteva di decettività del marchio.

In quel caso – si legge nella sentenza n. 21472/2013 – la tipicità del prodotto non deve avere gli stringenti requisiti di collegamento con il territorio previsti per le indicazioni geografiche, essendo comunque sufficiente che risulti che in una certa località esista un certo prodotto conosciuto come da essa proveniente per far sì che il nome di quella località non possa essere utilizzato come marchio per lo stesso tipo di prodotto.

Ed ancora: l’accertamento effettuato dalla Corte d’appello riguardava proprio siffatta circostanza, laddove era stata rilevata l’innegabile esistenza del collegamento tra la birra e la città boema vista la celebrità della birra di (OMISSIS); secondo la sentenza n. 21472/2013, la Corte d’appello aveva ritenuto sussistere la conoscenza da parte del consumatore italiano della provenienza dalla città boema della birra Budweiser da una pagina scaricata dal sito Internet Wikipedia sulla storia di (OMISSIS), nonchè da cinque estratti da pubblicazioni sulla birra, tutte edite negli anni tra il 1995 e il 1999, in cui si parla anche della birra della (OMISSIS), chiamandola Budweiser, fornendo al proposito adeguata motivazione sul punto sulla base di una pluralità di documenti attendibili, non sindacabile in sede di legittimità.

La sentenza infine ha ripetuto che la documentazione posta a base della decisione della Corte d’appello si riferiva a metà anni novanta ed era pertanto prossima al 1993, ossia alla data di registrazione del marchio da parte di A.B., che costituiva la data cui far riferimento ai fini di valutare la decettività del marchio, e quindi la valutazione della conoscenza appariva correttamente riferita a tale periodo.

4.3.4. La Corte di appello di Roma con la sentenza n. 4430/2016 ha rigettato la domanda di A.B. di dichiarazione di nullità delle frazioni italiane dei marchi internazionali di B.B., oggetto del rinvio conseguente all’accoglimento del quarto motivo di ricorso di B.B., senza espletare in concreto una rinnovata indagine e valutazione circa la perdurante notorietà del collegamento (cosa che ha fatto invece con riferimento alla domanda riconvenzionale di B.B. volta a conseguire tutela alle IGP).

La Corte di appello si è infatti basata sul giudicato nel frattempo intervenuto (conseguente alla sentenza gemella della Cassazione nel frattempo pubblicata, la n. 21472/2013), che ha ritenuto capace di proiettare estensivamente l’accertamento di illiceità e decettività anche al secondo marchio identico successivamente registrato da A.B., conseguentemente ritenuto inidoneo a inficiare di nullità per mancanza di novità i marchi di B.B..

4.4. La doglianza proposta con il motivo di ricorso non può dirsi superata per effetto della sentenza n. 3796 resa il 28/7/2020 dalla Corte di appello di Roma nel giudizio di rinvio commessole dalla sentenza n. 2499/2018, oggetto della domanda di revocazione, che ha accertato la perdurante decettività anche negli anni Duemila del marchio Budweiser di A.B. e ha conseguentemente rigettato nuovamente la domanda proposta da A.B. di declaratoria di nullità per difetto di novità dei marchi internazionali n. 614.536, 614.537, e 674.530 dell’Ente boemo B.B..

In buona sostanza, il nuovo (e terzo) giudizio di rinvio innescato dalla pronuncia della sentenza n. 2499/2018, di cui viene domandata la revocazione, si è concluso con esito comunque favorevole per l’Ente boemo e la conferma della validità dei suoi marchi denunciati come nulli da A.B..

In primo luogo, il motivo di ricorso non è stato rinunciato.

Infatti nella sua memoria del 7/9/2020 B.B. segnala soltanto l’incidenza della nuova pronuncia della Corte capitolina sulla “rilevanza” dell’errore revocatorio denunciato con riferimento al tema del marchio decettivo, preferendo poi concentrare le proprie argomentazioni al tema del diritto sull’indicazione geografica protetta.

L’interesse, pur attenuato, comunque persiste perchè la sentenza della Corte romana n. 3796/2020 non è passata in giudicato ed anzi A.B. ne ha preannunciato con la sua memoria del 23/9/2020 la prossima impugnazione dinanzi a questa Corte anche per la ravvisata violazione del giudicato cristallizzato dalla sentenza n. 2499/2018 oggetto di richiesta di revocazione.

4.5. Il Collegio ritiene che il complesso motivo di ricorso così analiticamente ricostruito sia inammissibile perchè rivolto in ultima analisi a denunciare un preteso errore di diritto nella decisione assunta nella sentenza impugnata, seppur a sua volta innescato, secondo Ilpartericorrente, da un errore di fatto nella esposizione del contenuto della sentenza resa dalla stessa Corte di Cassazione nella fase processuale anteriore.

4.5.1. Come già accennato in precedenza, la giurisprudenza di questa Corte è del tutto consolidata nell’escludere l’ammissibilità della revocazione delle decisioni della Corte di Cassazione per errore di diritto.

L’errore di fatto revocatorio che presuppone il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti processuali, non è configurabile nella ipotesi di erronea individuazione, nella sentenza, della norma applicabile al caso concreto, integrandosi, in tal caso, un errore di diritto, sostanziale o processuale, che non è previsto come causa di revocazione della sentenza al pari dell’errore di giudizio o di valutazione (Sez. U, n. 9882 del 20/07/2001, Rv. 548338 – 01; Sez. U, n. 15227 del 30/06/2009, Rv. 608893 – 01).

4.5.2. A più riprese è stato escluso il fondamento di qualsiasi dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 391 bis c.p.c. nella parte in cui non prevede l’ammissibilità della revocazione delle sentenze della Corte di cassazione anche nell’ipotesi dell’errore di diritto.

L’attuale quadro delle norme sulle impugnazioni, difatti, assicura pienamente i diritti di difesa ed il diritto al giusto processo, apprestando incondizionata possibilità di ricorso ordinario e straordinario ad una Corte di legittimità alla quale è attribuita la funzione di decidere in via definitiva sulle controversie assicurando, nel contempo, l’omogenea interpretazione delle norme, mentre l’esigenza di chiusura dei mezzi di gravame con l’esperimento del ricorso per cassazione è sicuramente una necessità immanente ad ogni sistema processuale, atta a giustificare la non impugnabilità delle sentenze della Corte stessa, qual che sia il grado di esattezza della sua decisione (Sez. 1, n. 9394 del 04/09/1999, Rv. 529661 01; Sez. 1, n. 1373 del 08/02/2000, Rv. 533589 – 01; Sez. 1, n. 4708 del 12/05/1999, Rv. 526245 – 01; Sez. 6 – 3, n. 30245 del 30/12/2011, Rv. 621076 – 01).

Da ultimo, in tal senso, alcune pronunce delle Sezioni Unite (n. 8984 del 11/04/2018, Rv. 648127 – 02 e n. 30994 del 27/12/2017, Rv. 646963 – 01) hanno posto in risalto che il combinato disposto dell’art. 391 bis e dell’art. 395 c.p.c., n. 4, non prevede come causa di revocazione della sentenza di cassazione l’errore di diritto, sostanziale o processuale, e l’errore di giudizio o di valutazione. Inoltre, con riguardo al sistema delle impugnazioni, la Costituzione non impone al legislatore ordinario altri vincoli oltre a quelli, previsti dall’art. 111 Cost., della ricorribilità in cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali; non appare quindi irrazionale la scelta del legislatore di riconoscere ai motivi di revocazione una propria specifica funzione, escludendo gli errori giuridici e quelli di giudizio o valutazione, proponibili solo contro le decisioni di merito nei limiti dell’appello e del ricorso per cassazione, considerato anche che, quanto all’effettività della tutela giurisdizionale, la giurisprudenza Europea e quella costituzionale riconoscono la necessità che le decisioni, una volta divenute definitive, non possano essere messe in discussione, onde assicurare la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, nonchè l’ordinata amministrazione della giustizia.

4.5.3. Altrettanto ferreo e consolidato appare l’orientamento di questa Corte secondo cui il giudicato, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, partecipa della natura dei comandi giuridici e, conseguentemente, la sua interpretazione non si esaurisce in un giudizio di fatto, ma deve essere assimilata, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, all’interpretazione delle norme giuridiche; pertanto l’erronea presupposizione dell’esistenza del giudicato, equivalendo ad ignoranza della regula juris, rileva non quale errore di fatto, ma quale errore di diritto, risultando sostanzialmente assimilabile al vizio del giudizio sussuntivo, consistente nel ricondurre la fattispecie ad una norma diversa da quella che reca invece la sua diretta disciplina, inidoneo, come tale, a integrare gli estremi dell’errore revocatorio contemplato dall’art. 395 c.p.c., n. 4, (Sez. U, n. 23242 del 17/11/2005, Rv. 584994 – 01; Sez. U, n. 21639 del 16/11/2004, Rv. 578047 – 01; Sez. U, n. 11501 del 09/05/2008, Rv. 603167 01; e tra le sezioni semplici: Sez. 6 – 5, n. 28138 del 31/10/2019, Rv. 655823 – 01; Sez. 6 – 3, n. 15346 del 20/06/2017, Rv. 644739 – 01; Sez. 3, n. 10930 del 05/05/2017, Rv. 644068 – 01; Sez. 1, n. 17443 del 25/06/2008, Rv. 604023 – 01; Sez. 3, n. 11356 del 16/05/2006,Rv. 591348 – 01).

4.5.4. Ne consegue linearmente che un errore nella lettura del testo di una precedente sentenza di legittimità resa nell’ambito dello stesso procedimento, ai fini della rilevazione del giudicato interno qual è quello denunciato nelle difese dell’Ente ricorrente – ove esistente si traduce inevitabilmente in un preteso errore di diritto, del tutto equiparabile, alla stregua dell’indirizzo sopra ricordato, all’errore nell’individuazione della norma giuridica, non emendabile con il ricorso per revocazione.

4.5.5. In numerose pronunce questa Corte ha escluso l’ammissibilità della revocazione delle proprie sentenze a fronte della deduzione di errori sulla regula juris.

Secondo Sez. U, n. 5709 del 11/04/2012, Rv. 622202 – 01, non è ammissibile il ricorso per revocazione della sentenza della Corte di Cassazione, motivato con la pregressa abrogazione, non considerato nella sentenza, della norma applicata, atteso che stabilire se una disposizione normativa sia stata abrogata costituisce una tipica questione di diritto, in nessun modo riconducibile nel paradigma dell’errore di fatto, contemplato dall’art. 391-bis c.p.c. mediante rinvio all’art. 395 c.p.c., n. 4.

La sentenza della Sez. 2, n. 17847 del 09/09/2016, Rv. 640892 – 01, afferma che le prescrizioni in tema di distanze tra costruzioni contenute negli strumenti urbanistici locali hanno valore di norme giuridiche, sicchè l’erronea percezione del contenuto di documenti che le riproducono costituisce errore di diritto, non qualificabile come vizio revocatorio ex art. 395 c.p.c., n. 4. L’ordinanza della Sez. 6 – 2, n. 1555 del 24/01/2011, Rv. 615965 – 01, ha ritenuto inammissibile il ricorso per revocazione presentato nei confronti di una decisione della Cassazione sul rilievo che la stessa – dichiarando inammissibile il ricorso, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c., per mancata formulazione del quesito di diritto – non avrebbe rilevato che il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, sarebbe stato illegittimamente emesso dal Governo dopo la scadenza dei termini di delegazione legislativa, in quanto l’errore denunciato, ove sussistente, avrebbe configurato un vero e proprio errore di diritto.

La sentenza della Sez. 3, n. 16136 del 09/07/2009, Rv. 608812 – 01, ha ritenuto errore di diritto la mancata applicazione dei principi in tema di scissione del momento perfezionativo della notificazione per il richiedente e per il destinatario, di cui alle sentenze della Corte costituzionale n. 477 del 2002 e n. 28 del 2004, nonchè alla L. n. 263 del 2005, art. 2 che ha modificato l’art. 149 c.p.c..

L’ordinanza della Sez. 6 – 2, n. 1555 del 24/01/2011, Rv. 615965 – 01, ha escluso che il mancato rilievo dell’illegittima emissione del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, dopo la scadenza dei termini di delegazione legislativa si traducesse in un errore materiale o percettivo denunciabile ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c., bensì costituisse, ove sussistente, un vero e proprio errore di diritto.

Non si possono infine rinvenire elementi dissonanti nella pronuncia delle Sez. U, n. 1666 del 23/01/2009, Rv. 606126 – 01, resa con riferimento alla richiesta di revocazione di una sentenza in cui era stato fatto riferimento in motivazione ad una norma di legge entrata in vigore in un momento successivo alla data di deliberazione indicata in calce alla sentenza, ma anteriore alla pubblicazione: in quel caso infatti le Sezioni Unite hanno escluso l’esistenza stessa dell’errore, circoscrivendo la portata dell’attestazione in calce alla sentenza della data di deliberazione in camera di consiglio (“Così deciso il…”) al mero contenuto del dispositivo escludendo che essa si estendesse anche alle motivazioni esposte a sostegno del provvedimento pubblicato; le S.U., nel dichiarare inammissibile il ricorso, hanno precisato che la data della decisione assunta nella camera di consiglio serve unicamente ad individuarne il momento di adozione, ma non già le ragioni di fatto e di diritto che supportano la decisione stessa, non potendo così inferirsi dalla motivazione del provvedimento revocando, in cui si faceva riferimento alla norma inesistente al momento della decisione, che quest’ultima, così come cristallizzata nel dispositivo, non fosse stata già adottata, quand’anche per ragioni giuridiche diverse dalla esistenza della disposizione di legge poi sopravvenuta, nella camera di consiglio indicata nel provvedimento revocando.

4.5.6. La non deducibilità della violazione del giudicato, sia esterno sia interno, o della sua interpretazione, quale motivo di revocazione di una sentenza di cassazione, trova esplicita conferma in numerosi precedenti arresti di questa Corte, anche delle Sezioni Unite, riferiti appunto a giudizi di revocazione di sentenze della Corte di Cassazione.

E’ stato affermato che la sentenza della Corte di Cassazione che, in sede di esame del ricorso avverso la decisione del giudice di rinvio – asseritamente viziata da ribellione del giudice di rinvio al principio di diritto sancito con precedente pronuncia di annullamento – decida su siffatta censura applicando un diverso principio, incompatibile col precedente, non è nè impugnabile, ai sensi dell’art. 360, n. 1, per difetto assoluto di giurisdizione (attenendo la questione dell’intangibilità del detto principio ai limiti interni all’esercizio della giurisdizione ordinaria e non alla determinazione dei confini di questa), nè revocabile ex art. 395 c.p.c., n. 4, essendo esclusa la natura revocatoria dell’errore di lettura del precedente principio dal contenuto della suddetta censura, che implica deduzione di parte in ordine al fatto oggetto dell’errore e correlata decisione della corte, o ai sensi del numero 5 dello stesso art. 395, perchè, a prescindere dalla non utilizzabilità di tale straordinario rimedio avverso le sentenze della corte di legittimità, la contrarietà ad un precedente giudicato, come causa di revocazione della nuova decisione ricorre solo quando trattasi di giudicato risultante da un separato giudizio ed il giudice decidente non abbia pronunciato sulla relativa eccezione con la sentenza revocanda (Sez. U, n. 1431 del 14/02/1994, Rv. 485297 – 01).

Inoltre le Sezioni Unite hanno sottolineato che il giudicato, interno o esterno, in quanto destinato a fissare la “regola del caso concreto”, partecipa della natura dei comandi giuridici e, conseguentemente, la sua interpretazione non si esaurisce in un giudizio di fatto, ma deve essere assimilata, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, all’interpretazione delle norme giuridiche; pertanto gli eventuali errori di interpretazione del giudicato rilevano non quali errori di fatto, ma quali errori di diritto, inidonei, come tali, a integrare gli estremi dell’errore revocatorio contemplato dall’art. 395 c.p.c., n. 4, (Sez. U, n. 5105 del 02/04/2003, Rv. 561743 – 01; Sez. U, n. 21639 del 16/11/2004, Rv. 578047 – 01; Sez. U, n. 23242 del 17/11/2005, Rv. 584994 01, che in particolare assimila tale errore al vizio del giudizio sussuntivo, consistente nel ricondurre la fattispecie ad una norma diversa da quella che reca invece la sua diretta disciplina; nonchè Sez. 6 – 3, n. 15346 del 20/06/2017, Rv. 644739 – 01).

Ancor più specificamente si è espressa la sentenza delle Sez. U, n. 11501 del 09/05/2008, Rv. 603167 – 01, che è stata resa in fattispecie riguardante proprio una sentenza rescindente e che ha precisato, in motivazione, che la sentenza rescindente costituisce giudicato interno: la Corte ha colà affermato che ai fini dell’interpretazione di provvedimenti giurisdizionali si deve fare applicazione, in via analogica, dei canoni ermeneutici prescritti dagli artt. 12 e ss. preleggi, in ragione dell’assimilabilità per natura ed effetti agli atti normativi, secondo l’esegesi delle norme (e non già degli atti e dei negozi giuridici), al pari del giudicato interno ed esterno e della sentenza rescindente, in quanto dotati di vis imperativa e indisponibilità per le parti; di conseguenza la predetta interpretazione si risolve nella ricerca del significato oggettivo della regola o del comando di cui il provvedimento è portatore.

Infine Sez. 1, 24/7/2017, n. 18243, in motivazione ha esplicitamente “escluso che l’omesso rilievo dell’esistenza di un giudicato… possa configurarsi quale errore percettivo, derivante da una disattenta lettura della prima sentenza rescindente”.

4.5.7. Deve quindi ritenersi inammissibile il ricorso per revocazione avverso la decisione della Corte di Cassazione che secondo l’assunto del ricorrente – abbia interpretato in modo erroneo la portata di una sua precedente pronuncia di cassazione con rinvio, anche quando venga dedotto che ciò sia dipeso da errore sul contenuto della pronuncia.

4.6. Nella seconda memoria ex art. 378 c.p.c. del 7/9/2020 il ricorrente, riconoscendo la perdita di rilevanza dell’errore denunciato con riferimento al tema del marchio decettivo per effetto della sopravvenuta sentenza n. 3796/2020 della Corte romana, ha concentrato le sue attenzioni argomentative su un ulteriore profilo di errore revocatorio, in qualche modo già denunciato, sia pur molto sinteticamente, alle pagine 28-30 del ricorso, ma indubbiamente enfatizzato nell’ambito della memoria, tanto da attirare ex adverso nella discussione orale una censura di ribaltamento del thema decidendum.

4.6.1. Secondo B.B., resterebbe inalterata la rilevanza dell’errore revocatorio commesso dalla sentenza n. 2499/2018 con riguardo alla sua domanda riconvenzionale con cui denunciava la violazione da parte di A.B. del diritto di indicazione geografica.

La sentenza impugnata sarebbe incorsa nell’errore di ritenere che secondo la precedente sentenza n. 21023/2013 della Cassazione la domanda riconvenzionale dell’Ente boemo non sarebbe stata fondata sull’IGP di diritto Europeo riconosciuto per effetto del Trattato di Atene del 2003; ciò perchè a pagina 17, al p. 12.3.1., viene riportato un passo attribuito alla sentenza n. 21023/2013 ed invece appartenente alla sentenza quasi coeva n. 21472/2013 secondo cui “dal momento che l’oggetto della controversia non riguarda in alcun modo le indicazioni geografiche e la loro violazione ma esclusivamente la natura decettiva del marchio Budweiser delle società ricorrenti in relazione all’art. 18 l.m. (ora art. 14 c.p.i.) senza che rilevi la protezione a livello delle indicazioni geografiche Europee attribuite dal Trattato di Atene a tre località ceke e le conseguenze che da detto Trattato discendono…. Ne deriva l’irrilevanza di affermazioni ancora una volta svolte con riferimento al profilo della traduzione delle tre IGP (registrate e riconosciute in lingua ceca) in una diversa lingua (quella tedesca) che è problema non rilevante ed estraneo….”

Tanto premesso, nelle pagine 3-5 della memoria 7/9/2020, B.B. ribadisce che l’oggetto del giudizio su cui era intervenuta la sentenza n. 21023/2013 includeva le IGP; che per effetto dell’errore revocatorio la sentenza n. 2499/2018 era stata indotta a omettere la pronuncia nel merito dei motivi di ricorso relativi alle IGP, dichiarati inammissibili perchè ritenuti erroneamente estranei all’oggetto del giudizio; che permarrebbe la dannosa conseguenza dell’errore di fatto dell’omessa pronuncia su una questione, quella delle IGP, estranea al principio di diritto espresso dalla sentenza n. 21023/2013 ma non estranea al giudizio nel quale era stata pronunciata; che tale errore aveva provocato l’erronea dichiarazione di inammissibilità dei motivi di ricorso riguardanti le IGP; che vi sarebbe stata una erronea delimitazione del giudizio determinata da una svista.

4.6.2. Tali argomentazioni, quand’anche riconducibili all’originaria censura svolta con il primo motivo di ricorso perchè dirette solo a sviluppare e illustrare la precedente tempestiva doglianza, non possono essere condivise perchè l’erronea citazione non ha prodotto alcuna conseguenza nel contenuto della decisione e in particolare non ha indotto la Corte di Cassazione a ritenere estranea al tema del contendere la questione della tutela delle indicazioni geografiche protette (IGP) ai sensi del Trattato di Atene, oggetto della domanda riconvenzionale dell’Ente boemo, e tantomeno a giudicare inammissibili i motivi di ricorso sul punto per questa ragione.

4.6.3. La sentenza n. 2499/2018 alle pagine 4-5 (p. 3 da 3.1 a 3.4) dà conto del contenuto della decisione della sentenza n. 4430/2016 con riferimento alla domanda riconvenzionale di B.B. relativa alle IGP, illustrandolo più analiticamente alle pagine 13-14 (p. 9); nel p. 11, alle pagine 15-16, espunge dalle (concorrenti) ragioni poste a sostegno della sentenza romana appellata quella di cui al punto b2) (indicato a paginal3), in tema di mancata prova della conformazione di B.B. al disciplinare, senza per questo ritenerne inficiata la decisione appoggiata su altre valide ragioni, così mostrando di ritenere il tema delle IGP oggetto del giudizio; nel p. 12.5. di pagina 17-18 ha ritenuto irrilevante il profilo linguistico della traduzione delle tre IGP perchè estraneo alla ratio decidendi, avendo la Corte di appello tenuto conto effettivamente dei toponimici non più ufficiali andando a verificarne l’uso e la corrispondenza alla realtà effettuale, ancora una volta occupandosi proprio del tema della tutela delle IGP; tant’è che la sentenza impugnata ha assegnato “ben altro rilievo” (pag.18, p. 14) ai motivi dal nono al dodicesimo dedicato all’affermazione della Corte capitolina circa lo svanire della notorietà della denominazione Budweiser; questa è stata ritenuta la vera ratio decidendi della sentenza n. 4430/2016 della Corte di appello di Roma (pag.19, p. 14.2.); nel p. 15 e in tutti i suoi sottoparagrafi la sentenza n. 2499/2018 si occupa della richiesta tutela delle IGP e delle censure in proposito articolate da B.B..

4.6.4. Non è quindi sostenibile la tesi, alimentata solo dall’errore di citazione improduttivo di effetti, che la sentenza impugnata abbia ritenuto estranea al thema decidendum del giudizio la questione della tutela delle indicazioni geografiche protette in forza del Trattato di Atene.

4.6.5. Non è possibile neppure sostenere che l’errore abbia indotto la Corte a dichiarare inammissibili i motivi dal nono al dodicesimo, come si evince dalla lettura delle pagine 20-22 della sentenza impugnata: nella sostanza la Corte ha affermato che la Corte di appello di Roma aveva compiuto l’accertamento circa la “perdurante notorietà” che le era stato demandato dalla sentenza n. 21023/2013, senza violare nè il principio della domanda, nè il principio di diritto vincolante in sede di rinvio, nè il giudicato della sentenza gemella n. 21472/2013, nè le regole di riparto dell’onere probatorio, procedendo ad un accertamento in fatto insuscettibile di riesame in sede di legittimità (p. 15.8, pagg.21-22).

5. Con il secondo motivo di ricorso per revocazione, proposto ex art. 395 c.p.c., n. 4, l’ente ricorrente B.B. denuncia nella sentenza impugnata “errata supposizione che i tre marchi dell’ente boemo oggetto della domanda principale fossero stati dichiarati non validi, anzichè essere stati dichiarati validi, come lo erano stati” dalla Corte di appello di Roma con la sentenza n. 4430/2016.

5.1. Secondo B.B., a pagina 13, p. 9,dell’impugnata sentenza la Corte di Cassazione aveva supposto che la sentenza n. 4430/2016 avesse “respinto la richiesta di riconoscimento, avanzata in suo favore dall’ente della repubblica Ceca, del marchio Budweiser come IGP o DOP, e conseguentemente la validità delle frazioni italiane dei tre marchi impugnati dalla società A.B.”; invece – precisa B.B. – la Corte del rinvio aveva affermato, e non negato, la validità delle frazioni italiane dei tre marchi impugnati da A.B.

La Cassazione avrebbe inoltre confuso, assimilandoli indebitamente, i marchi con le IGP (indicazioni geografiche di provenienza), ripetendo l’errore revocatorio a pagina 15, p. 11.1. e a pagina 23, p. 18.1.

5.2. L’errore lamentato in questi termini non sussiste.

In primo luogo, il Giudice di rinvio, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto tanto la domanda di nullità dei marchi di B.B. avanzata da A.B., quanto la domanda riconvenzionale di B.B. volta a ottenere la tutela della IGP.

E’ evidente quindi che per il Giudice di rinvio i marchi di B.B. erano validi, anche se all’ente boemo non spettava la tutela prevista per le IGP.

5.3. In secondo luogo, la sentenza impugnata n. 2499/2018 non ha affatto ritenuto e affermato il contrario.

Il p. 20, invocato da A.B., è chiarissimo in tal senso, laddove reca “Vanno a questo punto esaminati i primi due motivi del ricorso incidentale proposto da A.B., la quale lamenta, rispetto alla parte della sentenza impugnata nella quale viene respinta la domanda di nullità dei marchi registrati da B.B…… avanzata da A.B. sulla base del proprio diritto di preuso del segno verbale Budweiser”.

Non solo, però: i p.p. 1 e 2 della sentenza n. 2499/2018 sono del tutto inequivoci.

E poi ancora nel p. 9 la sentenza n. 2499/2018 sintetizza il contenuto decisorio della sentenza n. 4430/2016 della Corte romana e al punto A) afferma, incontrovertibilmente, che essa “ha disatteso la domanda, proposta da A.B., di nullità della frazione italiana dei tre marchi internazionali registrati da B.B. in quanto, pur avendo avuto riconosciuto il preuso del logo Budweiser, era accaduto che un marchio della richiedente., contenente quella stessa parola (Budweiser), era stato considerato decettivo dalla Corte d’appello di Milano (sentenza n. 1779/2011, passata in giudicato a seguito della pronuncia di questa Corte n. 21472 del 2013)”.

5.4. La confusione, peraltro solo apparente, discende dal fatto che la sentenza impugnata con il termine “marchi” talora si riferisce impropriamente, ma in maniera inequivocabilmente comprensibile, alle denominazioni geografiche oggetto di IGP.

Nel p. 9, lettera B), la sentenza 2499/2018 afferma che la sentenza n. 4430/2016 della Corte romana “ha respinto la richiesta di riconoscimento, avanzata in suo favore dall’ente della repubblica Ceca, del marchio Budweiser come IGP o DOP, e conseguentemente la validità delle frazioni italiane dei tre marchi impugnati dalla società A.B., per una pluralità di ragioni”, però subito dopo la precedente affermazione di cui al punto A).

5.5. Nel p. 11.1. la Cassazione ha affermato “Come si è esposto sopra (al p. 9) la sentenza della Corte territoriale, impugnata in questa sede, articolata in tre dicta (riportati sub lett. A), B) e C)), per quello che rileva ai fini dello scrutinio della prima parte del ricorso principale (lett. B), ha respinto la richiesta di riconoscimento, avanzata in suo favore dall’ente della repubblica Ceca, riguardo al marchio Budweiser come IGP o DOP, e conseguentemente la validità delle frazioni italiane dei tre marchi impugnati dalla società A.B., per una pluralità di ragioni che si sono riassunte sub lett. da bl) a b4).”

L’errore, pur sussistente nella parte in cui è stata estesa (consequenzialmente) l’affermazione del rigetto della richiesta di riconoscimento della tutela delle IGP o DOP anche alla validità delle frazioni italiane dei marchi internazionali, a parte il flagrante contrasto con quanto riportato sub A) del p. 9, appare improduttivo di effetti giuridici nell’economia della decisione impugnata, che non ne ha tratto alcuna conseguenza, ragionando successivamente nella corretta prospettiva dell’esame impugnatorio di una pronuncia confermativa della validità delle frazioni italiane dei marchi internazionali di B.B. da parte della Corte di appello, tanto da finire con l’accogliere il ricorso incidentale di A.B. alla luce della nozione giuridica di preuso cristallizzata nell’enunciato principio di diritto.

5.6. Nel successivo p. 18.1. è contenuta analoga improprietà, parimenti improduttiva di conseguenze: “La Corte territoriale ha sinteticamente escluso l’elemento soggettivo, relativo al profilo risarcitorio de quo, in considerazione dell’agire della convenuta A.B. alla stregua della regula iuris del diritto di preuso, riconosciuto alla società americana sulla base di un giudicato (formatosi a seguito della sentenza di questa Corte n. 13168 del 2002), onde l’accertamento, in questo stesso giudizio, dell’esistenza di un concreto limite a quell’agire lecito è stato escluso dalla Corte territoriale proprio in ragione della perdita di forza evocativa della denominazione storica, rispetto ai marchi IGP di cui è titolare l’ente ceco”.

6. Con il terzo motivo di ricorso per revocazione, proposto ex art. 395 c.p.c., n. 4, l’Ente ricorrente denuncia “percezione del requisito della notorietà incontrovertibilmente incompatibile con il “mandato””.

6.1. B.B. osserva che la sentenza impugnata aveva attribuito alla sentenza n. 21023/2013 della Cassazione una qualificazione della notorietà, presupposto della decettività, in termini di generalizzata percezione da parte del pubblico italiano che la parola “(OMISSIS)en” fosse la traduzione o il sinonimo in tedesco boemo del toponimo ceco “(OMISSIS)””, mentre la sentenza n. 21023/2013 aveva affermato che la notorietà oggetto di verifica atteneva al fatto che il toponimico non più ufficiale fosse rimasto nell’uso comune del linguaggio.

6.2. Effettivamente l’accertamento doveva riguardare la notorietà del collegamento geografico e non la notorietà del collegamento alle IGP, o almeno non solo; infatti con la precisazione finale, esposta dopo l’affermazione degli altri motivi di ricorso principale diversi dal quarto, la sentenza n. 21023/2013 di questa Corte aveva prescritto ex art. 384 c.p.c., comma 2, al giudice di rinvio di tener conto del principio dianzi affermato nel rivalutare altresì la questione posta con il primo motivo del ricorso relativo alla protezione accordata come indicazioni geografiche dal Trattato di Atene del 2003 a tre denominazioni in lingua ceca della birra prodotta dall’ente ricorrente.

Nella sentenza n. 21023/2013 si legge: “L’elemento fondamentale su cui essa (la sentenza 1082/2007 della Corte di appello di Roma oggetto allora di impugnazione) si basa è la considerazione che i nomi geografici usati in passato e non più attuali non possono continuare a costituire indicazioni di provenienza geografica. Invero nessuna norma prevede che le denominazioni geografiche ovvero i nomi geografici siano solo quelli attualmente previsti secondo la legislazione e le disposizioni amministrative vigenti. A tale proposito, tralasciando le definizioni poste dai vari accordi internazionali in materia (Parigi, Madrid, Lisbona, GATT) cui il legislatore italiano si è conformato, basta rammentare l’art. 29 del codice della proprietà industriale stabilisce che “sono protette le indicazioni geografiche e le denominazione di origine che identificano un paese, una regione o una località…” mentre l’art. 14 cod. cit. prevede l’illiceità di quei segni che sono idonei ad ingannare il pubblico “in particolare sulla provenienza geografica”. Tale ultimo articolo, applicabile al caso di specie, non fa neppure riferimento a nomi o a denominazioni geografiche ma semplicemente alla ancora più generica “provenienza geografica” termine di per sè in grado di comprendere qualunque designazione idonea ad indicare la provenienza di un prodotto da un certo ambito geografico. Da questa considerazione inevitabilmente discende che la denominazione geografica continua a rivestire piena validità ed efficacia, ai fini che qui interessano, quando la sua notorietà perdura ancorchè essa non sia più ufficialmente usata”.

6.3. Tuttavia la tesi dell’errore percettivo in cui sarebbe incorsa la decisione impugnata non trova le conferme che intravede la ricorrente.

Le affermazioni di p. 12.2, pag.16 e p. 12.4, pag.17, indicate da B.B. non denotano il preteso errore, così come quelle del p. 19 che si riferisce al tema delle IGP.

Nei p.p. 20.7. e 20.8. la sentenza impugnata effettivamente non distingue chiaramente i due concetti (notorietà del collegamento geografico e notorietà del collegamento alle IGP): “20.7. Nel caso in esame, la nullità della registrazione…. risalente alla metà degli anni 90 non è coerente con l’accertamento, compiuto dalla stessa Corte territoriale, circa la rottura nel nesso evocativo del milieu veicolato dalle tre IGP, così come compiuto dalla Corte territoriale con la sentenza qui esaminata in relazione al periodo successivo a quello considerato per statuire sul marchio n. 20.8. La rottura del nesso tra la denominazione e la sua forza evocativa dei corrispondenti toponimici cechi, comporta la piena espansione del diritto di preuso come riconosciuto da giudicato esterno, costituito dalla sentenza di questa Corte n. 13168 del 2002 (laddove essa ha escluso l’esistenza concreta di un tale collegamento per la carenza del celebrato milieu in un prodotto del tutto decontestualizzato dal mondo boemo)”.

6.4. Tuttavia occorre rammentare che la sentenza della Corte capitolina n. 4430/2016 è pervenuta al rigetto della domanda di dichiarazione di nullità delle frazioni italiane dei marchi internazionali di B.B. non già sulla base di un rinnovato accertamento fattuale concretamente esperito ma per effetto e nel rispetto del giudicato scaturente dalle sentenze della Corte di appello di Milano n. 1779 del 2011 e della Corte di Cassazione n. 21472/2013, con la dichiarazione di nullità per decettività del marchio Budweiser n. 589.505 con effetto ex tunc e validità erga omnes, produttiva di conseguenze anche per il marchio del tutto identico registrato successivamente da A.B. con il n. 835.837.

La Corte romana invece ha articolato le sue osservazioni circa la mancanza di evidenze probatorie circa il perdurante collegamento di notorietà presso il pubblico dei consumatori italiani dei nomi tedesco-boemi quali indicatori della zona di provenienza della birra in questione, nell’ambito dell’esame della domanda riconvenzionale di tutela delle IGP proposta da B.B..

6.5. La decisione n. 2499/2018 non è stata perciò influenzata nell’accoglimento del ricorso incidentale di A.B. dalla asserita percezione erronea della portata della precedente sentenza n. 21023/2013, nei termini sopra esposti, poichè la Corte ha piuttosto ritenuto che gli accertamenti eseguiti dalla sentenza n. 4430/2016 in punto perdurante notorietà del collegamento nel contesto della domanda riconvenzionale relativa alla tutela delle IGP potessero rilevare e valere anche nel tema del giudizio di nullità sui tre marchi internazionali registrati negli anni ‘90.

6.6. L’errore prospettato dal ricorrente, quand’anche sussistente, non avrebbe comunque avuto influenza sulla decisione.

Inoltre, anche in questo, caso l’errore denunciato attiene all’interpretazione del giudicato interno e incorre nelle obiezioni di inammissibilità illustrate in sede di esame del primo motivo di ricorso per revocazione.

Il terzo motivo per queste ragioni deve essere ritenuto inammissibile.

7. Con il quarto motivo di ricorso per revocazione, proposto ex art. 395 c.p.c., n. 4, l’Ente ricorrente denuncia “supposizione di fatti non veri” e cioè:

a) che la sentenza della Cassazione n. 13168/2002 avesse escluso la decettività di Budweiser per birra non di (OMISSIS) “per la carenza del celebrato milieu in un prodotto del tutto decontestualizzato dal mondo boemo”;

b) che la sentenza della Cassazione n. 21472/2013 avesse accertato una decettività sopravvenuta – e non già originaria dell’uso del segno Budweiser;

c) la mancata percezione delle pronunce della Corte di appello di Firenze n. 957 del 2014 e della Corte di Cassazione n. 14528 del 2016, che avevano riconosciuto l’irrilevanza del giudicato sul preuso rispetto al tema della decettività.

7.1. In altri termini il ricorrente sostiene che la sentenza n. 2499/2018 si era erroneamente riferita alle predette pronunce per attribuir loro l’accertamento di una decettività sopravvenuta di un marchio A.B. inizialmente valido.

Invece – secondo B.B. – le sentenze n. 21472/2013 della Cassazione e n. 1779/2011 della Corte di appello di Milano avevano affermato l’esatto contrario, ossia l’illiceità originaria del marchio di A.B. e che il giudicato sul preuso non precludeva il giudizio di nullità, perchè il tema della illiceità e della decettività non era stato esaminato dalle precedenti sentenze della Corte di appello di Milano n. 2987/2000 e della Corte di Cassazione n. 13168/2002.

Secondo il ricorrente il lamentato errore sarebbe contenuto nel p. 19, pagina 24, e nel p. 20.8, pag.25, della sentenza impugnata.

7.2. Nel predetto p. 19 si legge “Le ragioni così svolte fanno comprendere anche l’infondatezza dei due restanti mezzi (15 e 16) atteso che in relazione all’asserita omessa pronuncia del giudice distrettuale, rispetto all’appropriazione di pregi ambientali da parte della società A.B., si frappone sia l’accertamento di rottura nel nesso evocativo del milieu veicolato dalle tre IGP, così come compiuto dalla Corte territoriale con la sentenza qui esaminata, e sia il giudicato esterno, costituito dalla sentenza del 2002, laddove essa ha escluso l’esistenza concreta di un tale collegamento (per la carenza del celebrato milieu in un prodotto del tutto decontestualizzato dal mondo boemo)”.

Nei p. 20.5 e 20.6. si legge: “La Corte territoriale non si è coerentemente attenuta a tale principio in quanto, con la sua decisione, ha escluso il detto diritto poichè ha ritenuto che esso fosse escluso retroattivamente per sopravvenute situazioni di nullità di un identico marchio registrato perchè valutato come decettivo, in quanto idoneo a ingannare il consumatore in ordine alla provenienza del prodotto contrassegnato (pp. 14-5 sent.). 20.6. In realtà, essendo il diritto di preuso un vero e proprio diritto che perdura nel tempo e l’accertamento di decettività di una sua registrazione effettuata dall’avente diritto una formalizzazione di esso, ne deriva che l’accertamento di nullità di una tale registrazione non può estinguere anche un diritto già riconosciuto, dovendosi semmai delimitare gli effetti dell’accertata nullità della formalità, anche in rapporto al periodo temporale che l’ha vista nascere”.

Quest’ultima affermazione difetta solo di una esplicazione chiarificatrice ed equivale ancor più comprensibilmente a ” essendo il diritto di preuso un vero e proprio diritto che perdura nel tempo e una sua registrazione effettuata dall’avente diritto una formalizzazione di esso, ne deriva che l’accertamento di (decettività e) nullità di una tale registrazione non può estinguere anche un diritto già riconosciuto, dovendosi semmai delimitare gli effetti dell’accertata nullità della formalità, anche in rapporto al periodo temporale che l’ha vista nascere.”

7.3. Anche a questo proposito il ricorrente prospetta degli errori (in un caso omissivo, per “mancata ricognizione”) nell’interpretazione di giudicati (questa volta esterni), seppur individuati molto meno nitidamente di quello posto a fondamento del primo motivo, sopra esaminato, ed incorre quindi nell’obiezione dell’inammissibilità della revocazione ex art. 391 bis c.c. e art. 395 c.c., n. 4 per errore di diritto, qual è, secondo consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte, l’errore nell’interpretazione del giudicato.

7.4. In ogni caso l’affermazione sopra citata (p. 7.2.) della sentenza n. 2499/2018 scaturisce dalla peculiare ricostruzione che essa ha inteso effettuare dell’istituto del preuso e dei suoi rapporti con le successive registrazioni del segno da parte del preutente, che trova espressione nel principio di diritto da essa formulato, e appare del tutto indipendente dai pretesi errori percettivi circa il contenuto dei richiamati giudicati (sentenze n. 1779/2011 della Corte di appello di Milano e n. 21472/2013 della Cassazione; sentenze della Corte di appello di Milano n. 2987/2000 e della Cassazione n. 13168/2002).

8. Con il quinto motivo di ricorso per revocazione, proposto ex art. 395 c.p.c., n. 4, l’Ente ricorrente denuncia “mancata percezione di fatto incontrovertibilmente vero, vale a dire che fosse stata pronunciata sentenza dichiarativa della illiceità dell’uso di “Budweiser” per birra non di (OMISSIS) negli anni 2000, valevole erga omnes” in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza della Corte di appello di Milano n. 1779/2011, confermata dalla decisione della Cassazione n. 21472/2013, cosa che determinava la illiceità per tutti dell’utilizzo del marchio in esame ai sensi dell’art. 21 cod.propr.ind..

8.1. Vi sarebbe stato quindi errore revocatorio per aver la Cassazione ritenuto che la illiceità sancita dalle predette sentenze fosse sopravvenuta e non originaria, e che avrebbe riguardato non il marchio in sè, ma una particolare modalità di uso del medesimo.

8.2. Il motivo in questione, pur prospettato apparentemente in termini di dichiarata denuncia di errore fattuale percettivo, sottende in realtà, ancora una volta, una effettiva doglianza circa la non corretta interpretazione dei giudicati (e in particolare di quello esterno risultante dalle sentenze n. 1779/2011 della Corte di appello di Milano e n. 21472/2013 della Cassazione) e la loro conseguente violazione da parte della sentenza impugnata.

8.3. Il ricorrente lamenta altresì l’errore asseritamente commesso dalla Cassazione per aver dato rilievo nel p. 15.6. alla diversità soggettiva delle parti coinvolte nei predetti giudicati e per aver mancato di applicare l’art. 21, comma 3, cod.propr.ind., secondo il quale è vietato a chiunque di fare uso di un marchio registrato dopo che la relativa registrazione è stata dichiarata nulla, quando la causa di nullità comporta la illiceità dell’uso del marchio.

8.4. In tal modo il ricorrente B.B. non denuncia un errore nella percezione di un fatto, suscettibile di essere vero o falso, ma un errore di interpretazione e valutazione delle sentenze e di applicazione della corretta norma giuridica, pertanto un errore di giudizio, cosa che non è consentita in sede di ricorso per revocazione, alla luce delle considerazioni generali esposte in precedenza.

Anche questo motivo, quindi, deve ritenersi inammissibile.

9. Con il sesto motivo di ricorso per revocazione, proposto ex art. 395 c.p.c., n. 4, la ricorrente B.B. denuncia “errata supposizione che A.B. avesse proposto domanda di riconoscere il diritto di ricominciare ad utilizzare “Budweiser””.

9.1. Al contrario, osserva la ricorrente, la ravvisata domanda di espansione del diritto di preuso riconosciuto dal giudicato esterno, ovvero di continuare a far uso del segno e del diritto alla registrazione successivo agli anni ‘90 non era mai stata proposta in giudizio dalla società americana.

L’ipotesi al riguardo delineata dalla sentenza impugnata con la disposizione del rinvio, secondo la ricorrente, è certamente contraria a un principio basilare del diritto Europeo in materia di IGP.

9.2. La censura è infondata.

Nei passaggi citati dalla ricorrente (p. 20.8 e 20.9) della sentenza n. 2499/2018 non c’è una affermazione esplicita circa l’esistenza della citata “domanda”.

La Corte, nel determinarsi all’accoglimento dei primi due motivi di ricorso incidentale di A.B., ha ragionato piuttosto con riferimento alla domanda di A.B. di dichiarazione di nullità delle frazioni italiane dei marchi internazionali registrati da A.B. sulla base della richiesta di tutela del preuso del segno, svolgendo quindi una attività di carattere interpretativo, e ha ritenuto che la predetta domanda, diversamente da quanto opinato dalla Corte romana con la sentenza n. 4430/2016, potesse essere accolta sulla base di una diversa ricostruzione in termini di efficacia giuridica del preuso del segno.

E’ quindi evidente che anche in questo caso la doglianza cade fuori dal ben circoscritto perimetro assegnato dalla legge per la deduzione di un errore percettivo di un fatto.

9.3. Infine l’ipotizzato contrasto della decisione con il diritto Europeo non può costituire motivo di revocazione.

10. Con il settimo motivo di ricorso per revocazione, proposto ex art. 395 c.p.c., n. 5, l’Ente ricorrente B.B. denuncia “conflitto con tre giudicati esterni”.

10.1. Secondo B.B., l’affermazione che “il preutente non perde il diritto di far uso del segno ove la dichiarazione (rectius: registrazione) decettiva sia dichiarata nulla” contrastava con le statuizioni delle sentenze della Cassazione n. 21472/2013, della Corte di appello di Firenze n. 957 del 2014, e della Corte di Cassazionen. 14528/2016, che avevano accertato il divieto d’uso del segno decettivo e l’impossibilità di trarne alcuna utilità.

Il ricorrente sostiene inoltre l’ammissibilità del ricorso per revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 5 sia quando la Corte di Cassazione decide nel merito la controversia, avvalendosi dei poteri sostitutivi di cui all’art. 384 c.p.c., sia quando procede alla correzione (nel caso, a suo dire, “al travisamento”) della motivazione resa dalla Corte territoriale, così incorrendo in contrasto con i precedenti giudicati, con i quali la motivazione di merito corretta invece non creava alcun conflitto.

L’Ente ricorrente richiama a tal proposito i termini dell’ordinanza n. 9027 del 2005 di questa Corte, che aveva proposto questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 391 bis c.p.c., laddove non richiamava anche il caso di revocazione di cui all’art. 395, n. 5 ricordando che la Corte Costituzionale aveva dichiarato inammissibile tale questione solo per omesso esame della rilevanza nel giudizio a quo, e alternativamente propugna l’interpretazione costituzionalmente orientata accolta dalla sentenza n. 18234/2006 resa nello stesso giudizio.

Secondo il ricorrente, per il caso segnalato, l’alternativa si porrebbe quindi tra l’interpretazione estensiva costituzionalmente orientata, volta a legittimare l’esperimento del rimedio di cui al n. 5 dell’art. 395 c.p.c. anche con riferimento alle decisioni della Cassazione, o la riproposizione del dubbio di costituzionalità ingenerato dalla sua mancata previsione.

10.2. La tesi così argomentata e le due diverse soluzioni alternative prospettate da parte ricorrente si pongono in contrasto con l’indirizzo nomofilattico ormai consolidato.

10.3. In primo luogo, secondo la già rievocata giurisprudenza di questa Corte, il giudicato è destinato a fissare la regola del caso concreto e partecipa della natura dei comandi giuridici; conseguentemente, la sua interpretazione non si risolve in un giudizio di fatto, ma deve essere assimilata, per natura ed effetti, all’interpretazione delle norme giuridiche, sicchè l’erronea presupposizione della sua esistenza, equivalendo all’ignoranza della regula juris, rileva non quale errore di fatto ma quale errore di diritto, derivandone sostanzialmente un vizio del giudizio sussuntivo, consistente nel ricondurre la fattispecie ad una norma diversa da quella che reca, invece, la sua disciplina, inidoneo, come tale, ad integrare gli estremi dell’errore revocatorio di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, (Sez. 3, n. 10930 del 05/05/2017, Rv. 644068 – 01; Sez. 6 – 5, n. 28138 del 31/10/2019, Rv. 655823 – 01; Sez. U, n. 23242 del 17/11/2005,Rv. 584994 – 01).

10.4. Le Sezioni Unite di questa Corte, con la più risalente pronuncia citata dalla stessa ricorrente, hanno affermato che avverso le sentenze di mera legittimità della Corte di Cassazione non è ammissibile l’impugnazione per revocazione per contrasto di giudicati, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 5, non essendo tale ipotesi espressamente contemplata nella disciplina anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006 (applicabile nella specie), nè in quella successiva (artt. 391 bis e 391 ter c.p.c.), per effetto di una scelta discrezionale del legislatore.

Tale scelta non si pone in contrasto con alcun principio e con alcuna norma costituzionale, atteso che il diritto di difesa e altri diritti costituzionalmente garantiti non risultano violati dalla disciplina delle condizioni e dei limiti entro i quali può essere fatto valere il giudicato, la cui stabilità rappresenta un valore costituzionale, e appare condivisibile anche alla luce della circostanza che l’ammissibilità di una simile forma di impugnazione sarebbe logicamente e giuridicamente incompatibile con la natura delle sentenze di mera illegittimità, che danno luogo solo al giudicato in senso formale e non a quello sostanziale (Sez.U. 30/04/2008, n. 10867).

Il principio, così espresso con riferimento alle sentenze della Corte di Cassazione di mera legittimità, ha trovato conferma e ulteriore definizione in arresti successivi delle Sezioni Unite, dedicati anche alle pronunce rese dalla Cassazione nel merito.

A partire dalla sentenza Sez. U, n. 11508 del 10/07/2012, Rv. 623217 – 01, è stato infatti chiarito che non è possibile pervenire, in via interpretativa, ad una differente soluzione per le sentenze che abbiano deciso nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c. giacchè l’art. 391 ter c.p.c., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, pur ampliando il novero dei mezzi di impugnazione esperibili avverso dette pronunce, non ha deliberatamente incluso tale ipotesi (si vedano inoltre Sez. U, n. 23833 del 23/11/2015, Rv. 637609 – 01; Sez. U, n. 17557 del 18/07/2013, Rv. 627219 – 01; Sez. U, n. 11508 del 10/07/2012, Rv. 623217 – 01).

Infatti, subito dopo la modifica dell’art. 384 c.p.c., ad opera della L. n. 353 del 1990, art. 66 il legislatore ha ritenuto di ammettere per le sentenze della Corte di Cassazione la revocazione per errore di fatto, e, a seguito dell’ulteriore ampliamento delle ipotesi di decisione nel merito ad opera del D.Lgs. n. 40 del 2006, con lo stesso decreto ha introdotto l’art. 391 ter c.p.c., che prevedeva che le sentenze della Cassazione che pronunciano sul merito sono soggette a revocazione straordinaria (oltre che alla già prevista revocazione per errore di fatto) e ad opposizione di terzo, pertanto ancora una volta escludendo la revocabilità per il motivo di cui dell’art. 395 c.p.c., n. 5.

Deve pertanto escludersi che esista uno spazio per una interpretazione degli artt. 391 bis e ter c.p.c., che ammetta quanto chiaramente – e non casualmente – escluso dal legislatore.

11. Con l’ottavo motivo di ricorso per revocazione, proposto ex art. 395 c.p.c., n. 4, il ricorrente denuncia “contrasto tra motivazione e dispositivo in punto mancata cassazione della sentenza emessa in sede di rinvio con riguardo all’inadempimento di A.B. al contratto inter partes del 1939”.

11.1. Secondo il ricorrente, la Cassazione aveva respinto un motivo di ricorso, e cioè il tredicesimo motivo, che pure aveva dichiarato di voler accogliere, accertando che secondo la pronuncia n. 13168/2002 della stessa Cassazione l’impegno di tolleranza assunto da A.B. “non era affatto limitato al mercato americano”. Sorprendentemente la Cassazione aveva capovolto le conseguenze di tale accertamento, traendone ragione per l’infondatezza del primo profilo della doglianza articolata con il predetto tredicesimo motivo e ulteriormente per la ravvisata inutilità del secondo profilo di doglianza circa la non sussistenza di giudicato interno preclusivo.

11.2. Il “contrasto fra motivazione e dispositivo” non costituisce motivo di revocazione di una sentenza della Corte di Cassazione e neppure lo è il vizio di contraddittorietà determinato dal contrasto fra due parti della motivazione: per precisa scelta legislativa tali vizi possono essere predicati solo con riferimento alle pronunce di merito.

Come si è ricordato in precedenza la giurisprudenza delle Sezioni Unite ha chiaramente affermato che la Costituzione non impone al legislatore ordinario altri vincoli oltre alla ricorribilità in cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, ex art. 111 Cost., e che non è irrazionale la scelta del legislatore di riconoscere ai motivi di revocazione una propria specifica funzione, escludendo gli errori giuridici e quelli di giudizio o valutazione, proponibili solo contro le decisioni di merito: e questo per la necessità che le decisioni, una volta divenute definitive, non possano essere messe in discussione, al fine di assicurare la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici e l’ordinata amministrazione della giustizia. (Sez. U, n. 8984 del 11/04/2018, Rv. 648127 – 02; Sez. U, n. 30994 del 27/12/2017, Rv. 646963 – 01).

11.3. In ogni caso la motivazione contenuta nella sentenza n. 2499/2018 con riferimento al tredicesimo motivo di ricorso è affetta da una mera incongruenza che si rivela però ad attenta analisi un semplice errore materiale.

11.4. A pagina 21, sub 1.4, trattando della domanda di risarcimento del danno per inadempimento contrattuale, la sentenza n. 4430/2016 della Corte di appello di Roma aveva ritenuto che la questione fosse coperta dal giudicato perchè nel giudizio svoltosi dinanzi ai Giudici milanesi e definito con la sentenza n. 13168 del 2002 della Cassazione sarebbe stato accertato che gli accordi del 1911 e del 1939 si riferivano solo al commercio della birra nel Nord America e non all’Europa, come ritenuto dalla Corte di appello di Roma nella precedente sentenza n. 1082/2007 (resa nell’ambito dello stesso giudizio “romano”) e perchè la predetta ricognizione contenuta nella sentenza 1082/2007 sarebbe passata in giudicato perchè la Cassazione nella sentenza n. 21023 del 2013 aveva accolto solo il quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri.

11.5. Con il 13 motivo di ricorso, rubricato “Violazione di giudicato (art. 2909 c.c.artt. 112 e 324 c.p.c., art. 384 c.p.c., comma 2) in punto inadempimento contrattuale (artt. 1372 e 1218 c.c.), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, B.B. aveva aggredito l’esposta statuizione, sostenendo, da un lato, che nel primo giudizio milanese, concluso dalla sentenza della Cassazione n. 13168/2002 non vi era stato alcun accertamento in quel senso e, dall’altro, che l’erronea ricognizione contenuta nella sentenza 1082/2007 della Corte romana non poteva a sua volta essere passata in giudicato, visto che gli altri motivi di ricorso diversi dal quarto, erano stati semplicemente ritenuti “assorbiti”.

Quanto al primo profilo B.B. aveva sostenuto che effettivamenteja sentenza della Corte di appello di Milano n. 2987/2000 aveva erroneamente delimitato gli accordi contrattuali al Nord America con un obiter dictum ma la Corte di Cassazione aveva escluso la rilevanza di quel preteso errore cogliendo altrove la ratio della decisione (ossia nell’anteriorità dei vecchi accordi alla registrazione dei marchi).

11.6. Al proposito si legge al p. 17 della sentenza impugnata:

“La prima doglianza (tredicesimo motivo di ricorso) assume infondatamente la violazione del doppio giudicato, a cominciare da quello esterno, atteso che la richiamata (la) sentenza di questa Corte (n. 13168 del 2002) che per prima ebbe a pronunciarsi sul punto così motiva: 8.8. “Sostiene che la Corte di merito ha erroneamente ritenuto che gli accordi del 1911 e del 1939 riguardarono esclusivamente il mercato americano. Essi invece, come appare da un brano di una delle due scritture che la società ricorrente trascrive nel suo atto, riguardano anche le vendite di birra nei paesi Europei e dunque in Italia. 6a) Osserva il collegio che la doglianza dimentica che la sentenza impugnata ha tratto la criticata conclusione dalla osservazione che gli accordi in questione furono precedenti al momento al quale avvenne da parte di 8.8. la prima registrazione dei marchi, del tutto logicamente e senza violare alcuna delle regole ermeneutiche la Corte ha da ciò dedotto che quei negozi, pertanto, non potettero regolare l’esercizio di registrazioni che al momento non esistevano. Il motivo è pertanto infondato giacchè si basa su di una inesatta rappresentazione del processo argomentativo seguito dal giudice del merito”. (pp. 11-12).17.1. Da tale motivazione è chiaro che il patto inter partes non era limitato affatto al “mercato americano”: di qui l’infondatezza del primo profilo di doglianza.”

11.7. La Cassazione afferma, dapprima e del tutto chiaramente, che la prima doglianza del tredicesimo motivo lamentava infondatamente la violazione del doppio giudicato; quindi motiva il proprio assunto, citando la sentenza n. 13168/2002 a tal fine invocata da B.B., che, a sua volta, riporta e cita il motivo di ricorso in quel giudizio proposto da B.B.; il primo periodo del “virgolettato in corsivo” di pagina 23 (secondo capoverso) trascrive semplicemente la tesi svolta nel giudizio di Cassazione del 2002 da B.B..

Quindi la Corte, con il secondo periodo del “virgolettato in corsivo” di pagina 23 (terzo capoverso), cita la risposta della sentenza n. 13168/2002 a tale motivo, da essa giudicato non pertinente (più precisamente basato “su di una inesatta rappresentazione del processo argomentativo seguito dal giudice del merito”), perchè la sentenza di merito impugnata negava qualsiasi rilevanza agli accordi del 1911 e del 1939 perchè anteriori alle registrazioni dei marchi.

Al p. 17.1. la sentenza impugnata afferma che il patto inter partes “non” era limitato affatto al mercato americano ma ne ritrae l’infondatezza del primo profilo di doglianza del tredicesimo motivo (per poi desumere consequenzialmente il corollario della irrilevanza del secondo profilo di doglianza del tredicesimo motivo).

Nella sentenza di conseguenza c’è solo un “non” di troppo, inserito per mero errore materiale nel primo rigo del p. 17.1., come si evince chiaramente dalle prime due righe del p. 17 e dalla seconda e terza riga dello stesso p. 17.2., che rendono possibile, al di là del predetto errore, ricostruire e seguire il percorso logico dei Giudici.

11.8. Infatti la Corte nel passaggio citato dapprima enuncia il motivo di doglianza di B.B. nel procedimento deciso nel 2002 e non la propria opinione, e poi espone sub a) l’opinione al riguardo espressa dalla sentenza di Cassazione n. 13168/2002, che ritenne mal posta la censura.

In realtà la sentenza n. 13168/2002 non dice nulla di preciso in fatto e considera semplicemente mal formulata la doglianza.

Non è consentito in questa sede, in difetto di percezione errata di un fatto, censurare con la revocazione il passaggio argomentativo successivo con cui la Corte arriva a formulare affermazioni circa la corretta interpretazione della clausola, di per sè non necessitate dal rilievo della sentenza n. 13168/2002 circa la non pertinenza di una censura rispetto alla ratio decidendi del provvedimento in quella sede impugnato, giacchè più propriamente il riferimento doveva essere agganciato alla sentenza di appello che sul punto non era stata censurata con motivo ammissibile di impugnazione per cassazione.

Non sussiste quindi alcun errore revocatorio.

12. Per le ragioni sopra illustrate, il ricorso per revocazione r.g. 12466/2018, basato su motivi inammissibili o infondati, deve essere complessivamente rigettato.

Le spese processuali, relative al giudizio di revocazione r.g. 12466/2018, pur riunito a quello recante il n. r.g. 5967/2020, seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo.

13. Quanto al ricorso r.g.5967/2020, la Corte ritiene opportuno, al fine di meglio comprendere i continui riferimenti formulati dalle parti nei loro atti difensivi, tracciare una breve sintesi riassuntiva degli aspetti più rilevanti del complesso contenzioso che nel corso degli anni ha contrapposto dinanzi ai Tribunali e alle Corti italiane gli attuali contendenti.

13.1. Un primo giudizio si è svolto a partire dal 1985 dinanzi al Tribunale di Milano fra A.B. e B.B., definito in primo grado dalla sentenza n. 12839 del 26/11/1998 con la quale è stato accertato il preuso fatto da A.B. dei marchi Bud e Budweiser in Italia a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta e la notorietà da essi conseguita; conseguentemente sono stati dichiarati nulli otto marchi italiani e internazionali di B.B. ed è stata negata protezione a cinque registrazioni d’appelation d’origine di B.B., relative a espressioni includenti il nome Budweiser.

Con sentenza n. 2987/2000 del 1/12/2000 la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza di primo grado, inibendo inoltre a B.B. l’uso dei marchi dichiarati nulli.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 13168/2002 del 10/9/2002 ha confermato la sentenza di appello, salvo estendere in accoglimento del ricorso incidentale di A.B. l’inibitoria a tutti i segni Bud e Budweiser, ove confondibili, e dar atto che il preuso svolgeva effetti anche nei confronti del marchio n. 342.1576 non indicato in dispositivo.

13.2. Un secondo processo era stato instaurato dinanzi al Tribunale di Milano nel 2001 da A.B. e da Birra Peroni s.p.a. nei confronti di Kiem e Italsug.

Il Tribunale con sentenza n. 9946/2008 del 30/7/2008 ha accertato la contraffazione del marchio n. 589.805 di A.B. da parte dei distributori convenuti condannandoli al risarcimento dei danni e respingendo la domanda riconvenzionale di nullità del marchio predetto per decettività.

La Corte di appello di Milano con sentenza n. 1779/2011 del 16/6/2011 ha accolto l’appello accogliendo la domanda di nullità del marchio A.B. n. 589.805 per decettività, dichiarando inammissibile la domanda di nullità del successivo marchio n. 835.837 di A.B., ha respinto le domande di accertamento della contraffazione proposte da A.B. fondate sul marchio nullo e ha respinto le domande di contraffazione di marchio, violazione di IGP e concorrenza sleale proposte dalle convenute.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 21472/2013 del 19/9/2013 ha integralmente confermato la sentenza di appello.

13.3. Un terzo processo è stato radicato nel 2002 dinanzi al Tribunale di Roma tra A.B. e B.B.: si tratta del giudizio nel quale è stata pronunciata la sentenza di questa Corte n. 2499/2018, oggetto del ricorso per revocazione sopra esaminato.

14. Con il controricorso A.B. e A.B. Italia hanno eccepito l’inammissibilità degli avversari motivi di ricorso per violazione del principio di specificità, sia perchè con alcuni dei mezzi sono stati censurati più profili tra loro diversi, sia perchè con alcuni dei mezzi viene denunciata cumulativamente la violazione di una pluralità di norme differenti senza specificare in che cosa consisterebbe la violazione di ciascuna di esse, sia, infine perchè in numerosi mezzi vengono dedotti promiscuamente vizi diversi nella tipologia dell’art. 360 c.p.c., comma 1.

La Corte non ritiene che il ricorso e i suoi singoli motivi presentino i vizi strutturali segnalati dalle controricorrenti.

14.1. Essi infatti non violano il requisito di specificità e completezza del motivo di cassazione: il ricorso è strutturato su motivi separati e ricondotti specificamente ciascuno ad una (o a due) delle doglianze di cui all’art. 360 c.p.c., e sono opportunamente preceduti ciascuno da una rubrica con la chiara identificazione del vizio prospettato, senza che sia richiesto alcun inesigibile intervento integrativo della Corte per giungere all’enucleazione dei motivi di censura e degli specifici vizi prospettati nell’ambito del coacervo indistinto del testo dell’atto (Sez.6-1 n. 11329 del 26/4/2019).

14.2. E’ pur vero, poi, che nel giudizio di cassazione, che è rimedio a critica vincolata, il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, sicchè è inammissibile il ricorso nel quale non venga precisata la violazione di legge nella quale sarebbe incorsa la pronunzia di merito, non essendo al riguardo sufficiente un’affermazione apodittica non seguita da alcuna dimostrazione (Sez. 6 – 1, n. 4905 del 24/02/2020, Rv. 657230 01).

Ritiene tuttavia il Collegio che ciascun motivo proposto dalle ricorrenti illustri adeguatamente le violazioni o false applicazioni di legge imputate alla sentenza impugnata, correlando l’indicazione

delle norme asseritamente violate all’argomentazione concretamente dimostrativa agganciata al tenore della decisione.

14.3. Alcuni dei motivi effettivamente sono articolati in plurimi profili, afferenti a distinte e cumulate violazioni imputate alla medesima statuizione, senza peraltro sollecitare questa Corte ad alcun compito integrativo improprio in ragione della loro rigorosa scansione, che ne permette la scissione concettuale e l’esame separato e successivo.

14.4. Infine le ricorrenti mescolano effettivamente in numerosi casi all’interno dello stesso motivo sia la doglianza di “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”, sia quella di “nullità della sentenza e del procedimento”, riconducibili a diverse tipologie di vizi nella classificazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1 ossia rispettivamente al n. 3 in tema di errores in judicando de jure e al n. 4 in tema di errores in procedendo.

Un ampio indirizzo della giurisprudenza di questa Corte, in tema di motivi promiscui, non ritiene consentito proporre cumulativamente due mezzi di impugnazione eterogenei, in contrasto con la tassatività dei motivi di ricorso e riversando impropriamente con tale tecnica espositiva sul giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure (ex plurimis, Sez.3, 23/6/2017 n. 15651; Sez.6, 4/12/2014 n. 25722; Sez. 2, 31/1/2013 n. 2299; Sez.3, 29/5/2012 n. 8551; Sez.1, 23/9/2011 n. 19443; Sez.5, 29/2/2008 n. 5471).

Appare infatti inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Sez. 1, n. 19443 del 23/09/2011, Rv. 619790 – 01).

Vi è da dire, però che nella specie la mescolanza attiene pur sempre a violazioni della legge sostanziale e processuale e non coinvolge mezzi di doglianza strutturalmente e concettualmente divergenti come la violazione e falsa applicazione della norma giuridica e l’inadeguatezza del supporto motivazionale.

In ogni caso nella giurisprudenza di questa Corte si è anche ritenuto che l’inammissibilità in linea di principio della mescolanza e della sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, (e in particolare quelle di cui ai nn. 3 e 5), può essere superata se la formulazione del motivo permette di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, di fatto scindibili, onde consentirne l’esame separato, esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Sez.6, 09/08/2017 n. 19893; Sez.un. 6/5/2015, n. 9100).

In particolare, le Sezioni Unite con la sentenza n. 17931 del 24/7/2013 hanno ritenuto che, ove tale scindibilità sia possibile, debba ritenersi ammissibile la formulazione di unico articolato motivo, nell’ambito del quale le censure siano tenute distinte, alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamento processuale, segnatamente a quello, tradizionale e millenario, iura novit curia, ed a quello, di derivazione sovranazionale, della c.d. “effettività” della tutela giurisdizionale, da ritenersi insito nel diritto al “giusto processo” di cui all’art. 111 Cost., elaborato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ed inteso quale esigenza che alla domanda di giustizia dei consociati debba, per quanto possibile e segnatamente nell’attività di interpretazione delle norme processuali, corrispondere una effettiva ed esauriente risposta da parte degli organi statuali preposti all’esercizio della funzione giurisdizionale, senza eccessivi formalismi.

Nella fattispecie, tale operazione di scissione può essere compiuta senza troppe difficoltà nell’ambito delle deduzioni delle ricorrenti, isolando e affrontando separatamente le censure volte a denunciare una violazione della legge sostanziale da quelle relative alla violazione della legge processuale.

15. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, dedicato al capo 9.1. della decisione e involgente le sole posizioni di Italsug e Kiem, le ricorrenti denunciano nullità della sentenza e del processo, per omessa pronuncia e motivazione apparente, o per violazione di giudicato esterno e violazione o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., art. 21, comma 3, cod.propr.ind., art. 2598 c.c., n. 3, art. 4, comma 3, TUE, e art. 288 TFUE.

15.1. Il Tribunale aveva dichiarato inammissibili le domande svolte da Italsug e Kiem nei confronti delle convenute in forza del giudicato formatosi nel secondo processo milanese (sentenza Corte di appello n. 1779/2011, confermata in Cassazione) conclusosi con il rigetto di tali domande, fondate sulla contraffazione e usurpazione di marchio e denominazione di origine geografica, concorrenza sleale per sviamento di clientela e appropriazione di pregi.

15.2. A fronte degli argomenti proposti dalle appellanti, la Corte territoriale ha affermato che il passaggio in giudicato della declaratoria di nullità del marchio n. 589.505 di A.B. non rappresentava un fatto costitutivo nuovo e diverso rispetto a quelli allegati con le predette domande, proposte e rigettate nel secondo processo milanese, e veniva in rilievo solo come elemento dimostrativo della causa petendi.

Quanto al Trattato di Atene non costituiva jus superveniens, avendone tenuto conto la Corte di appello nella pronuncia n. 1779/2011.

Secondo la Corte milanese anche la domanda di risarcimento del danno da concorrenza sleale per appropriazione di pregi era stata proposta in quel giudizio e rigettata dal Tribunale con la sentenza n. 9946/2008, con statuizione impugnata in appello e non riformata dal Giudice di secondo grado, senza che sul punto fosse stato proposto ricorso per cassazione, con il conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado; analoghe considerazioni valevano anche per la domanda ex art. 2598 c.c., n. 3.

Infine, con la sentenza n. 1779/2011 la Corte di appello aveva non solo dichiarato inammissibile per tardività la domanda di risarcimento del danno per violazione dell’indicazione geografica protetta proposta da parte di Italsug e Kiem, ma l’aveva anche rigettata nel merito per carenza di legittimazione attiva delle attrici.

15.3. In primo luogo le ricorrenti lamentano la mancata considerazione di quanto da esse dedotto criticamente con il secondo motivo di appello (pag.32 dell’atto di appello) circa l’esistenza di una loro autonoma domanda fondata sulla violazione dell’art. 21, comma 3, cod.propr.ind. da esse proposta già in sede cautelare, ribadita con atto di citazione di primo grado e alla prima udienza di trattazione e poi ancora con memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, (come puntualizzato analiticamente a pag.20, nota 6, del ricorso).

Non può quindi essere condivisa la valutazione circa il difetto di autosufficienza della censura al proposito espressa dal Procuratore generale, che, pur riconoscendo che i ricorrenti avevano riportato il passo dell’atto di appello in cui si faceva cenno della domanda, osserva che non sarebbe stato dato adeguatamente conto delle domande rivolte al giudice di primo grado, con la conseguente impossibilità di comprendere se la domanda svolta in secondo grado fosse o meno nuova.

Per tale ragione, visto che le ricorrenti hanno ben posto in risalto lo specifico punto del ricorso in cui esse hanno riferito il contenuto della domanda proposta in primo grado, non sussiste la ravvisata impossibilità di apprezzamento della novità della domanda nel giudizio di secondo grado.

15.4. Occorre quindi procedere all’esame della censura sollevata dalle ricorrenti.

Dell’art. 21 cod.propr.ind., il comma 3 fa divieto a chiunque di fare uso di un marchio registrato dopo che la relativa registrazione è stata dichiarata nulla, quando la causa di nullità comporta la illiceità dell’uso del marchio e l’art. 127 cod. cit. prevede apposita sanzione amministrativa a presidio del divieto.

Non si vede quindi come questa domanda o profilo di domanda possa essere stato proposto nel corso del predetto “secondo giudizio milanese” e cioè prima del passaggio in giudicato della sentenza che accertava l’illiceità e decettività del marchio in questione.

Infatti, in parte qua la pretesa delle due società era fondata su di un titolo differente e il passaggio in giudicato della declaratoria di nullità del marchio n. 589.505 di A.B. rappresenta un fatto storico costitutivo nuovo e diverso rispetto a quelli allegati con le domande proposte e rigettate, che non veniva quindi in rilievo solo come elemento dimostrativo della causa petendi, come ritenuto dalla Corte territoriale.

15.5. Come osservano persuasivamente le ricorrenti, è ben diversa una domanda fondata sulla asserita capacità decettiva di un marchio volta a farlo dichiarare illecito e nullo per tale ragione come era quella azionata nell’ambito del giudizio di merito concluso dalla sentenza della Corte di appello n. 1779/2011- rispetto ad un’altra fondata sull’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa dell’illiceità del marchio e volta a inibire sic et simpliciter la continuazione dell’uso del marchio sanzionato con lo stigma della decettività e illiceità.

Come argomentano ineccepibilmente le ricorrenti per ancor meglio chiarire le diversità delle due domande, l’uso precedente alla declaratoria di illiceità non è necessariamente illecito e fonte di responsabilità risarcitoria, rispetto a quello successivo al passaggio in giudicato della sentenza di accertamento dell’illiceità e ciò riverbera sia sull’elemento oggettivo della fattispecie, sia sulla caratterizzazione soggettiva della condotta.

Inoltre un marchio può essere decettivo senza essere contraffatto perchè inganna i consumatori sull’origine o le caratteristiche del prodotto senza interferire con l’ambito di protezione di un marchio altrui (Sez. 1, n. 16948 del 10/08/2016, Rv. 640908 – 01).

15.6. Le ricorrenti criticano lo stesso capo di pronuncia anche con riferimento alle domande risarcitorie e inibitorie fondate sulla decettività del marchio poichè la Corte di appello nella sentenza n. 1779 del 2011, non avendo pronunciato al proposito, non poteva aver rigettato tali domande.

Secondo le ricorrenti, tali domande non erano mai state da loro proposte e in ogni caso una eventuale omessa pronuncia sul punto non avrebbe potuto cristallizzare la cosa giudicata; vi era invece una domanda risarcitoria fondata sulla concorrenza sleale ex art. 2598, n. 1, su cui la sentenza n. 1779/2011 aveva dichiarato il difetto di legittimazione attiva, escludendo invece la proposizione di altre domande di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c., nn. 2 e 3; era quindi del tutto irrilevante che una domanda in tal senso vi fosse stata, in difetto di una pronuncia sul merito da parte della Corte di appello, la cui pronuncia in mero rito era incapace a fondare il giudicato.

Infine la sentenza del Tribunale n. 9946/1998 non aveva preso in esame il tema della concorrenza sleale, arrestandosi, come aveva fatto, alla questione pregiudiziale per ritenere la non decettività del marchio di A.B. con statuizione poi ribaltata in appello.

15.7. Le controricorrenti, difendendo la decisione impugnata, ribattono che la domanda di concorrenza sleale fondata su profili diversi da quella confondibilità art. 2598 c.c., ex n. 1 e quindi sul n. 2 (appropriazione di pregi) e n. 3 (scorrettezza professionale) dello stesso articolo, era stata effettivamente proposta in primo grado; che essa era stata respinta dalla sentenza n. 9946/1998, seppur con la statuizione residuale della pagina 16 volta a rigettare “ogni altra domanda od eccezione”; che la Corte di appello non aveva pronunciato al riguardo – e non aveva affatto dichiarato non proposte tali domande, come sostenuto dalle ricorrenti – sicchè era passata in giudicato la decisione di primo grado, non riformata in appello, con decisione non impugnata in Cassazione.

15.8. Secondo il Collegio, è chiaro che la domanda in primo grado era stata proposta, come sostenuto dalla sentenza impugnata e dalle controricorrenti e contestato solo genericamente dalle ricorrenti, che ritengono la circostanza irrilevante: lo dimostra in modo decisivo il solo fatto che le stesse ricorrenti assumano di aver proposto appello sul punto.

Ciò di cui si controverte realmente è il tenore della statuizione della Corte di appello: secondo le controricorrenti, essa avrebbe ignorato la censura, incorrendo in omissione di pronuncia (non impugnata per cassazione) e determinando il passaggio in giudicato del rigetto di primo grado; invece, secondo le ricorrenti, la Corte di appello di Milano nella sentenza n. 1779/2011 avrebbe escluso l’esistenza di una domanda diversa da quella di concorrenza sleale per confondibilità dei segni ex art. 2598 n. 1, c.c., così riformando almeno implicitamente il rigetto della sentenza di primo grado con statuizione di rito insuscettibile di passaggio in giudicato.

15.9. Per la soluzione della questione appare dirimente il passaggio esplicito della sentenza n. 1779/2011, a pagina 41, citato dalle ricorrenti secondo cui l’azione di concorrenza sleale non era stata svolta sotto profili diversi da quelli della confondibilità dei marchi, che le controricorrenti si limitano a smentire genericamente.

Poco importa quindi che la sentenza di primo grado avesse rigettato, anche senza motivazione, una domanda effettivamente esistente o che tale domanda non esistesse affatto: quel che conta è che il giudice di appello, con statuizione non censurata, ha escluso con pronuncia in rito che tale domanda fosse stata proposta.

Tale pronuncia ovviamente era insuscettibile di determinare l’effetto della cosa giudicata: infatti, secondo giurisprudenza consolidata, la statuizione su una questione di rito dà luogo soltanto al giudicato formale, ha effetto limitato al rapporto processuale nel cui ambito è emanata, non è idonea a produrre gli effetti del giudicato in senso sostanziale e non preclude la riproposizione della domanda in altro giudizio (Sez. 6 – L, n. 10641 del 16/04/2019, Rv. 653626 – 01; Sez. 3, n. 26377 del 16/12/2014, Rv. 633676 – 01; Sez. 2, n. 15383 del 04/07/2014, Rv. 631696 – 01; Sez. 1, n. 9772 del 14/06/2012, Rv. 623061 – 01).

15.10. Lo stesso vale per la domanda ex art. 2598, n. 3, laddove la risposta della Corte di appello, diversamente da quanto preliminarmente recriminato dalle ricorrenti, non appare affatto incomprensibile, in presenza di un inequivocabile richiamo per relationem alle “stesse considerazioni” svolte in tema di domanda di concorrenza sleale per appropriazione di pregi, evidentemente ritenute altrettanto valide anche in questo caso dalla Corte di appello.

Secondo la pronuncia della Sez.1 del 12/2/2015 n. 2828, in tema di indicazioni di provenienza geografica occorre distinguere fra due diverse ipotesi di concorrenza sleale: la prima, riconducibile alla scorrettezza professionale ex art. 2598 c.c., n. 3, in caso di indicazione sul prodotto di una provenienza geografica diversa dall’effettivo luogo di origine, a prescindere da ogni riferimento alla qualità dei prodotti originari da quel luogo; la seconda, riconducibile alla appropriazione di pregi ex art. 2598 c.c., n. 2, ravvisabile nella falsa attribuzione ad un prodotto di qualità che provengono da una data indicazione geografica, che, in quanto riferita alla qualità del prodotto, ricade nell’ambito delle disposizioni del regolamento comunitario e in assenza di registrazione della indicazione geografica presso il registro della UE, non può essere fatta valere sulla base di disposizioni nazionali.

15.11. Secondo le ricorrenti, la sentenza della Corte di appello n. 1779/2011 non conterrebbe alcun rigetto delle domande dei distributori di accertamento della violazione da parte di A.B. del diritto di indicazione geografica protetta e registrata ai sensi del Trattato di Atene di adesione della Repubblica Ceca alla UE (IGP UE, registrato il 23/9/2003), idonea a fondare un giudicato preclusivo.

Non è coerente, a loro parere, ritenere che la sentenza abbia ad un tempo ritenuto inammissibile, perchè tardiva, la domanda e l’abbia rigettata anche nel merito per difetto di legittimazione attiva; tale statuizione si riferiva invece alle denominazioni di origine di cui all’Accordo di Lisbona (DOL) n. 49 e 52 del 22/11/1967.

La statuizione circa la tardività della domanda era dirimente e preclusiva, come del resto confermava anche il riferimento circa l’assorbenza della carenza di legittimazione attiva rispetto all’eccepito giudicato, riferibile solo alle cosiddette DOL e non già alle IGP (indicazioni geografiche di provenienza) di diritto Europeo che non poteva riguardare la sentenza della Corte di appello di Milano n. 2987 del 2000.

Ulteriore elemento a suffragio della proposta interpretazione viene colto nell’ulteriore argomentazione che ricava dalla carenza di legittimazione attiva a far valere le DOL il difetto di legittimazione all’azione di contraffazione, senza alcun accenno alle IGP di diritto Europeo, al cui proposito evidentemente militava solo l’assunto della tardiva proposizione della domanda.

15.12. L’interpretazione proposta dalle ricorrenti appare convincente nel senso di riferire l’affermazione del difetto di legittimazione attiva alle sole denominazioni di origine ai sensi dell’Accordo di Lisbona e non alle registrazioni IGP di diritto Europeo del 23/9/2003.

Gioca in tal senso il primario argomento della contraddittorietà della statuizione della inammissibilità per tardività di una domanda susseguita da una affermazione circa il difetto di legittimazione attiva, che comunque non potrebbe che costituire un obiter dictum privo di dignità decisoria: nel dubbio deve propendersi per l’interpretazione che assegna la seconda motivazione, non solo superflua ma anche contraddittoria, a una diversa richiesta.

Il predetto argomento principale è corroborato ulteriormente dai due argomenti accessori e convergenti proposti dalle ricorrenti e citati nel precedente paragrafo.

15.13. Le controricorrenti si difendono ulteriormente sostenendo che quella esposta a pag.38, punto 3) della sentenza impugnata costituisce solo un obiter dictum o comunque una ratio concorrente, dovendosi invece far riferimento a quanto esposto a pagina 40 (p. 9.2.2.) della sentenza impugnata.

In quel punto la Corte di appello afferma che ogni considerazione circa la legittimazione attiva dei distributori deve ritenersi assorbita dal rilievo dirimente per cui con forza di giudicato la sentenza della Corte di appello di Roma n. 4430/2016, sul punto confermata dalla sentenza n. 2499/2018 della Cassazione, aveva respinto la richiesta avanzata da B.B. di riconoscimento del segno Budweiser come IGP o DOP.

L’affermazione della Corte milanese è palesemente erronea visto che essa oppone ai distributori agenti jure proprio la sentenza resa nei confronti di B.B., tanto più per ricavarne apoditticamente argomenti circa il loro difetto di legittimazione attiva.

15.14. Le ricorrenti comunque hanno censurato anche questa affermazione della Corte al punto 1.11, del ricorso, trattando della legittimazione attiva del distributore importatore a far valere la violazione del diritto Europeo di indicazione geografica jure proprio ai sensi dell’art. 8, comma 1, Reg. 510/2006 ed ora dell’art. 12, comma 1, Reg.1151/2012, secondo cui le indicazioni geografiche protette possono essere utilizzate da qualsiasi operatore che commercializzi un prodotto conforme al relativo disciplinare, e sostenendo che del diritto di IGP Europeo è titolare lo Stato, ossia la Repubblica ceca, e può essere fatto valere in forma non esclusiva da tutti i soggetti che rientrano nella classe indicata dal Regolamento.

Tanto basta per confermare che rispetto all’azione esercitata jure proprio dai distributori non può essere opposto alcun argomento ritratto dal giudicato formatosi per effetto della sentenza n. 2499/2018 di questa Corte nei confronti di B.B..

16. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, dedicato al capo 9.2. della decisione e relativo alle sole posizioni di B., Italsug e Kiem, le ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di giudicato esterno (art. 2909 c.c.), violazione dell’art. 8, comma 1, REG.UE 510/2006, e dell’art. 12, comma 1, Reg.UE 1151/2012, dell’art. 4 della Dir.UE 2004/48, dell’art. 25, comma 3, Dir.UE 2015/2436, dell’art. 122 bis cod.propr.ind. (D.Lgs. n. 15 del 2019, art. 15, comma 1), nullità della sentenza per falsa applicazione di giudicato esterno, in punto legittimazione dei distributori.

16.1. Il secondo motivo riguarda tutti e tre gli importatori e si dirige contro la predetta affermazione di pagina 40, p. 9.2., della sentenza impugnata.

Le ricorrenti rilevano la contraddittorietà di tale osservazione con l’aver ritenuto la questione già coperta dal precedente giudicato esterno del 2013 e sostengono che la sentenza n. 2499/2018 della Cassazione non avrebbe già determinato il passaggio in giudicato della sentenza di merito in quanto impugnata per revocazione ordinaria.

Tali argomenti non convincono: un doppio giudicato esterno conforme, se esistesse, non sarebbe pregiudizievole; il punto è che non esiste, come sopra osservato ai p. 3.10. e 3.11.

Certamente l’impugnazione per revocazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza ex art. 391 bis c.p.c., commi 4 e 5, che rispettivamente chiariscono che la pendenza del termine per revocazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con il ricorso per cassazione respinto e che l’impugnazione per revocazione non consente la sospensione dell’esecuzione della sentenza “passata in giudicato”.

16.2. Le ricorrenti sostengono che la sentenza n. 2499/2018 ha espunto dalla motivazione ogni riferimento al diritto Europeo e argomentano sulla base di quanto ivi esposto al p. 12.3.1. di pag.17, che peraltro attiene proprio al passaggio della motivazione in cui la Corte avrebbe equivocato fra il contenuto delle sue precedenti sentenze n. 21023 e n. 21472 del 2013.

In proposito è il caso di richiamare tutto quanto in precedenza analiticamente esposto con riferimento al primo motivo del ricorso n. 12466/2018.

Quel che è certo è che la sentenza n. 2499/2018 ha esaminato e rigettato i motivi di ricorso proposti da B.B. e inerenti la protezione accordata alle IGP Europee in forza del Trattato di Atene, che costituivano pacificamente oggetto del contenzioso.

16.3. Appare comunque dirimente il fatto che la pronuncia sul punto contenuta nella sentenza n. 2499/2018 (che ha resistito alle censure mosse con il ricorso per revocazione qui riunito) non è opponibile qual giudicato esterno ai distributori agenti a titolo proprio.

E’ quindi ineccepibile il rilievo delle ricorrenti che le statuizioni contenute nella sentenza della Corte di appello di Roma n. 4430/2016 non sono opponibili ai soggetti estranei a quel giudizio, ossia, dal lato attivo, Kiem, Italsug e B., e dal lato passivo A.B. Italia.

In questi limiti il motivo deve pertanto essere accolto.

16.4. Inoltre, secondo le ricorrenti, la sentenza impugnata nega a Kiem, Italsug e B. la legittimazione attiva all’azione di contraffazione del marchio, in quanto meri distributori e non licenziatari del prodotto, così entrando in contrasto con la Direttiva Europea 2004/48, che, almeno nei testi inglese, francese e tedesco, farebbe riferimento alle persone autorizzate all’uso dei diritti (e non come nella versione italiana, alla loro disposizione) e alla giurisprudenza di legittimità.

16.4.1. Il Collegio non ritiene condivisibile la tesi delle ricorrenti secondo la quale la legittimazione attiva ad esperire l’azione di contraffazione del marchio spetterebbe anche agli intermediari commerciali che distribuiscono il prodotto marchiato e dissente dal precedente reperito nella giurisprudenza di questa Corte (per vero relativo alla materia delle invenzioni industriali), secondo il quale la legittimazione ad agire in giudizio in caso di contraffazione del brevetto spetta non solo al licenziatario con esclusiva, il quale acquista un diritto di sfruttamento di contenuto identico a quello del concedente e fruisce della medesima tutela processuale, ma anche – in coerenza con quanto previsto dalla normativa comunitaria (art. 4 della direttiva n. 48 del 2004 sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale) – a chi, come la società distributrice dei prodotti brevettati è titolare di un proprio interesse economico alla tutela dei prodotti da essa distribuiti e subisce gli effetti negativi della contraffazione, abbia l’interesse a proporre l’azione (Sez. 1, n. 15350 del 04/07/2014, Rv. 631817 – 01).

16.4.2. Una cosa infatti è l’esistenza di un pregiudizio di fatto e di un interesse economico, altra cosa è la sussistenza di un interesse protetto dal diritto.

L’art. 20 cod.propr.ind. attribuisce i diritti conferiti dalla registrazione al titolare del marchio e l’art. 23 regola il trasferimento del marchio attraverso il contratto di licenza e i rapporti fra licenziante e licenziatario.

L’attribuzione dell’azione di contraffazione a un soggetto diverso dal titolare del marchio o dal licenziatario da lui autorizzato, e in particolare a un intermediario commerciale che si limita a distribuire i suoi prodotti sul mercato in forza di un rapporto personale e obbligatorio, non ha quindi fondamento normativo e contrasta inoltre con le esigenze di accentramento dei poteri giudiziali di tutela del marchio.

16.4.3. La nozione di contratto di distribuzione è essenzialmente economica e può trovare espressione attraverso molteplici istituti contrattuali (compravendita, somministrazione, contratto estimatorio, agenzia), eventualmente combinati tra loro, o in formulazioni atipiche meritevoli di tutela secondo l’ordinamento, ma non attribuisce all’intermediario che rivende, colloca o distribuisce i prodotti di un imprenditore alcun diritto sui segni distintivi di costui.

16.4.4. Neppure la legislazione Europea soccorre le tesi delle ricorrenti perchè l’art. 4 della Direttiva 2004/48 (c.d. Direttiva enforcement) in tema di soggetti legittimati a chiedere l’applicazione di misure, procedure e mezzi di ricorso, applicabile ratione temporis, riconosce la legittimazione oltre che, ovviamente, ai titolari dei diritti di proprietà intellettuale, conformemente alle disposizioni della legislazione applicabile (lettera a) a tutti gli altri soggetti autorizzati a disporre di questi diritti, in particolare ai titolari di licenze, se consentito dalle disposizioni della legislazione applicabile e conformemente alle medesime (lettera b).

Le sfumature linguistiche suggestivamente poste in evidenza dalle ricorrenti, che sottolineano nei testi inglese, francese e tedesco, in luogo del concetto del concetto di “autorizzazione a disporre” il ricorso al concetto di “autorizzazione ad usare” (rispettivamente con le parole “to use”, “utiliser” e ” Nutzung”) non giustificano diverse conclusioni: pur concesso che l’autorizzazione a disporre equivalga ad autorizzazione ad usare, quel che conta è l’oggetto di tale facoltà che deve essere il diritto sul segno distintivo-marchio (ossia right, droit, Rechte) e non già il diritto obbligatorio ad utilizzare i prodotti marchiati.

Non a caso il “considerando” n. 18 della predetta Direttiva sottolinea che il diritto di chiedere l’applicazione di misure, procedure e mezzi di ricorso dovrebbe essere riconosciuto non soltanto ai titolari dei diritti, ma anche alle persone direttamente interessate e legittimate ad agire nella misura in cui ciò è consentito dalla legge applicabile e conformemente ad essa, così mostrando di volersi riferire ai principi generali in tema di attribuzione del diritto di azione nei vari ordinamenti in relazione alla titolarità di un vero e proprio diritto soggettivo.

16.4.5. E’ quindi solo per completezza e attualizzazione del panorama normativo che si ricorda che l’art. 25, comma 3, della direttiva UE 16/12/2015 n. 2436 ha previsto che, fatte salve le clausole del contratto di licenza, il licenziatario possa avviare un’azione per contraffazione di un marchio d’impresa soltanto con il consenso del titolare del medesimo, nonchè in via surrogatoria, se il titolare del marchio, previa messa in mora, non avvia lui stesso un’azione per contraffazione entro termini appropriati. Inoltre il comma 4 prevede che il licenziatario possa intervenire nell’azione per contraffazione avviata dal titolare del marchio d’impresa per ottenere il risarcimento del danno da lui subito.

In conseguenza nel nostro ordinamento è stato introdotto l’art. 122 bis cod.propr.ind., ad opera del D.Lgs. 20 febbraio 2019, n. 15, art. 15, comma 1, dedicato espressamente al tema della legittimazione all’azione di contraffazione in capo al licenziatario di marchio.

La norma prevede che, fatte salve le clausole del contratto di licenza (che possono quindi regolare in modo difforme la materia: vuoi limitando o escludendo il diritto, vuoi ampliandolo con il riconoscimento generalizzato della possibilità di agire in giudizio), il licenziatario possa avviare un’azione per contraffazione di un marchio d’impresa soltanto con il consenso del titolare del medesimo.

Inoltre il titolare di una licenza esclusiva può tuttavia promuovere una siffatta azione se il titolare del marchio, previa messa in mora, non avvia un’azione per contraffazione entro termini appropriati; in tal modo la legge tutela il licenziatario con un potere concorrente e sostitutivo di azione nel caso di ingiustificata inerzia del titolare inutilmente sollecitato.

Ai sensi del comma 2 della nuova disposizione il licenziatario può intervenire nell’azione per contraffazione avviata dal titolare del marchio per ottenere il risarcimento del danno da lui subito, esercitando un titolo di legittimazione autonomo e nell’interesse proprio con intervento adesivo autonomo.

E’ stata così regolata in modo espresso la legittimazione all’azione di contraffazione da parte del licenziatario del marchio.

La giurisprudenza aveva già riconosciuto che il licenziatario esclusivo, in quanto portatore di un interesse divenuto autonomo da quello del titolare, fosse legittimato ad agire anche in assenza di autorizzazione, salva l’ipotesi in cui il contratto di licenza prevedesse diversamente. La nuova norma ha codificato questa soluzione, prevedendo altresì specifiche condizioni (che il titolare del marchio sia stato messo in mora e, nonostante ciò, sia rimasto inerte).

16.4.6. In questa seconda parte, quindi, il secondo motivo deve essere rigettato.

17. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, dedicato al capo 9.3. della decisione e relativo alle sole posizioni di B., Italsug e Kiem, le ricorrenti denunciano nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. in punto travisamento della deduzione “malafede e slealtà anche contrattuale”.

17.1. I ricorrenti – ancora una volta i tre distributori sostengono di non aver mai proposto una domanda contrattuale fondata sui contratti del 1911 e del 1939 fra i danti causa di B.B. e A.B. e assumono che il loro riferimento alla malafede e alla slealtà anche contrattuale era stato introdotto quale ulteriore profilo della domanda di concorrenza sleale per scorrettezza professionale ex art. 2598 c.c., n. 3.

Il ragionamento della Corte di appello sarebbe viziato dall’assimilazione analogica effettuata fra l’atto introduttivo dei distributori e quello dell’Ente boemo, senza considerare che anche questo conteneva una domanda fondata sull’art. 2598 c.c., n. 3.

I due atti divergevano infatti nella pagina 12, ove nell’atto dei distributori mancava il riferimento alla richiesta risarcitoria fondata sull’inadempimento dei contratti stipulati nel 1911 e nel 1939.

17.2. La tesi delle parti ricorrenti non può essere condivisa.

A fronte della precisa affermazione della Corte di appello (compiuta nel p. 9.3.2., pag.41) secondo cui in nessun punto degli atti di primo grado era possibile rinvenire una domanda specifica di concorrenza sleale con riferimento esplicito ai contratti del 1911 e del 1939, esse citano solo un passaggio dell’atto introduttivo contenente riferimenti al tenore della sentenza n. 1779/2011, alla malafede e slealtà anche contrattuale di A.B., a una deposizione sotto giuramento resa nel 1894 da Adolphus Busch e alla transazione intercorsa nel 1939.

Le parti ricorrenti però non formulano alcun idoneo collegamento di tali elementi ad argomentazioni e deduzioni contenute nell’atto volte a dimostrare – assunto questo tutt’altro che auto-evidente – come l’inadempimento a obbligazioni contrattuali assunte verso un terzo potesse costituire fonte di illecito extracontrattuale nei loro confronti quale comportamento contrario alla correttezza professionale imprenditoriale.

18. Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, relativamente al solo Ente boemo e al capo decisionale n. 10, parte ricorrente denuncia falsa applicazione di giudicato esterno e violazione dell’art. 2909 c.c., nullità della sentenza e del processo anche per motivazione apparente, in punto azione ex contractu.

18.1. Secondo le ricorrenti, nel p. 10.2. della impugnata sentenza la Corte di appello milanese, con riferimento alla domanda di B.B. di accertamento dell’inadempimento dei contratti del 1911 e del 1939 e al quinto motivo di gravame, ha esaminato solo una delle censure rivolte alla sentenza di primo grado, ossia quella relativa alla prospettata non estensibilità dell’accertamento con riguardo a domanda con diverso petitum e diversa causa petendi, pur riconoscendo espressamente la proposizione di altra censura, circa l’inesistenza del supposto giudicato nella sentenza della Corte di appello di Milano n. 2987/2000 (in tesi: che con gli accordi in questione A.B. si era impegnata a non disturbare l’uso del segno Budweiser da parte dell’ente boemo solo con riferimento al territorio americano e non all’Europa), che costituiva un mero obiter dictum, alla luce del contenuto della sentenza della Cassazione n. 13168/2002.

Era del tutto preliminare l’accertamento della contestata esistenza del giudicato rispetto alla valutazione della sua efficacia conformativa in altro giudizio.

Quanto al fatto che la Corte milanese avesse ritenuto precluso l’ulteriore esame della questione alla luce della sentenza n. 4430/2016 della Corte di appello di Roma, confermata sul punto da Cassazione n. 2499/2018, le ricorrenti ne predicano l’incompatibilità e il contrasto con l’affermazione precedente, visto che, con evidente contradictio in adiecto, la sentenza impugnata ha dichiarato non doversi procedere all’esame di questione che ha invece esaminato.

Inoltre nel giudizio di revocazione della sentenza della Cassazione n. 2499/2018 era stato denunciato il contrasto fra la decisione, ossia il rigetto del mezzo di ricorso contro la sentenza della Corte di appello Roma n. 4430/2016, e la motivazione, che aveva escluso il giudicato esterno; la sentenza romana si era basata erroneamente sul giudicato interno ripetendo lo stesso errore della sentenza qui impugnata; non veniva poi in considerazione alcun punto fondamentale relativo ad entrambe le cause.

18.2. E’ pur vero che la Corte di appello, dopo aver sintetizzato entrambi i profili del motivo di appello (che investiva sia la natura di mero obiter dictum dell’affermazione circa la restrizione al solo mercato americano degli impegni di A.B. attribuita alla sentenza della Corte di appello di Milano n. 2987/2000, sia l’effetto conformativo esplicabile sul presente giudizio), al p. 10.2. ha preso posizione solo sul secondo profilo con una citazione giurisprudenziale.

Tuttavia, subito dopo, la Corte milanese ha espresso una ulteriore ratio decidendi autonoma, di per sè sola capace di sorreggere la decisione, assumendo che sul punto si sarebbe formato il giudicato per effetto della conferma ad opera della sentenza n. 2499/2018 della Corte di Cassazione della sentenza della Corte di appello di Roma n. 4430/2016 in parte qua.

Si è già detto che il giudicato non è escluso dall’impugnazione per revocazione della sentenza della Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso e in ogni caso nel giudizio di revocazione (qui riunito e contestualmente esaminato e deciso) il relativo motivo viene dichiarato inammissibile.

Ancor meno rileva – nella prospettiva del giudicato – che la decisione sul punto sia corretta o meno, non essendo consentito rivalutarla.

Invece, quanto alla possibilità di sviluppo dell’effetto conformativo del giudicato, la Corte milanese si è puntualmente adeguata alla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano ad oggetto un medesimo rapporto giuridico e uno dei due pervenga al giudicato, l’accertamento di una situazione giuridica comune a entrambe le cause preclude il riesame del punto accertato e risolto con il suddetto giudicato, quand’anche il giudizio successivo sia instaurato per finalità diverse da quelle costituenti lo scopo e il petitum del primo. (Sez. 3, n. 5486 del 26/02/2019, Rv. 652990 – 01; Sez. 3, n. 5486 del 26/02/2019, Rv. 652990 – 01; Sez. 6 – 2, n. 11600 del 14/05/2018, Rv. 648531 – 01; Sez. 3, n. 20629 del 13/10/2016, Rv. 642917 – 01; Sez. L, n. 25862 del 21/12/2010, Rv. 615585 – 01).

18.3. Solo per completezza è il caso di aggiungere, come osservato in precedenza nel p. 11 in sede di esame dell’ottavo motivo del riunito ricorso per revocazione, che la motivazione contenuta nella sentenza n. 2499/2018 con riferimento al tredicesimo motivo di ricorso di B.B. è affetta da un mero errore materiale.

19. Con il quinto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, relativo al solo Ente boemo e al capo decisionale n. 11, le ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 21, comma 3, cod.propr.ind., e dell’art. 39 c.p.c., comma 1, nullità della sentenza e del processo anche per omessa pronuncia e motivazione apparente, in punto litispendenza.

19.1. Le ricorrenti si riferiscono al p. 11 della sentenza impugnata e al rigetto del sesto motivo di gravame rivolto a evidenziare l’insussistenza del ravvisato rapporto di litispendenza rispetto alle domande introdotte da B.B. nel giudizio deciso con la sentenza n. 4430/2016 della Corte di appello romana e dalla sentenza della Cassazione n. 2499/2018, attualmente sottoposta a revocazione quant:

a) al divieto di proseguire dopo la sentenza della Corte di appello di Milano n. 1779/2011 l’uso del marchio dichiarato nullo ex art. 21, comma 3, cod.propr.ind.;

b) la contraffazione dei tre marchi di B.B. registrati negli anni Novanta;

c) la contraffazione delle denominazioni di origine ai sensi dell’Accordo di Lisbona del 1958;

d) la contraffazione delle indicazioni geografiche IGP registrate ai sensi del Trattato di Atene in data 23/9/2003;

e) la domanda di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c., n. 3, per atti contrari alla correttezza professionale;

f) la domanda di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c., n. 2, per appropriazione di pregi.

19.2. Quanto alla domanda sub a), ossia al divieto di proseguire dopo la sentenza della Corte di appello di Milano n. 1779/2011 l’uso del marchio dichiarato nullo ex art. 21, comma 3, cod.propr.ind. la doglianza della ricorrente appare fondata.

Come precedentemente esposto nel p. 3.3., si tratta di una domanda diversa da quella risarcitoria fondata sulle precedenti condotte, che oltretutto non avrebbe potuto essere proposta per la prima volta nel giudizio di rinvio, ove la legge fa divieto alle parti di introdurre nuove conclusioni, e che comunque non era stata proposta perchè B.B. aveva formulato un riferimento al giudicato esterno di cui alla sentenza 1779/2011 della Corte di appello di Milano al solo fine che si prendesse semplicemente atto in relazione alle domande già svolte del giudicato sceso su quella pronuncia per effetto della sentenza n. 21472 del 2013 della Cassazione.

Del resto la sentenza della Corte di appello di Roma n. 4430/2016 non ha rilevato affatto la pretesa domanda e non ha pronunciato al riguardo, tantomeno nel merito, limitandosi a rigettare la domanda di nullità dei marchi registrati da B.B. proposta da A.B..

19.3. Tantomeno la Corte romana ha pronunciato sulla domanda di contraffazione dei tre marchi di B.B. registrati negli anni Novanta (punto b).

Nelle conclusioni dell’appellante riportate nella sentenza n. 4430/2016 della Corte di appello di Roma non vi è traccia di una domanda risarcitoria fondata sulla contraffazione dei marchi registrati da B.B., al cui proposito veniva chiesto solo di respingere la domanda di nullità proposta da A.B..

La domanda riconvenzionale nell’indicare i titoli delle pretese di A.B. si riferisce alla indicazione geografica protetta, alla decettività del segno Budweiser come utilizzato da A.B., al compimento di atti di concorrenza sleale, senza correlare in alcun modo tali richieste alla violazione dei diritti sui marchi registrati negli anni Novanta da B.B..

La Corte di appello milanese attribuisce tali domande alla citazione in riassunzione nel giudizio di rinvio, atto che per sua natura non può ospitare domande nuove e comunque non ne ospitava, perchè a pagina 5 dell’atto del 22/11/2013 B.B. si riferiva al contenuto della comparsa di risposta del 9/4/2013 in ordine alla nullità del marchio di A.B., senza peraltro formulare alcuna domanda di contraffazione.

19.4. La Corte di appello milanese ha ritenuto la litispendenza anche per le domande risarcitorie fondate sulla contraffazione delle denominazioni di origine ai sensi dell’Accordo di Lisbona del 1958 (lett. c).

La censura della ricorrente sul punto non è fondata perchè la sentenza n. 4430/2016 della Corte di appello di Roma (pag.15) ha richiamato la sentenza di primo grado, che aveva ravvisato la discesa del giudicato con riferimento alla pronuncia n. 2987/2000 della Corte di appello di Milano, confermata dalla sentenza n. 13168/2002 della Cassazione, aggiungendo che non era stato interposto appello sul punto, non essendosi B.B. doluta del mancato riconoscimento del suo diritto ad usare le denominazioni di origine in base alle norme anteriori al Trattato del 2003 e così prestando acquiescenza alla sentenza di primo grado.

Tale pronuncia è uscita indenne dal giudizio di cassazione sfociato nella sentenza n. 2499/2018, a sua volta non scalfita in parte qua nel qui riunito giudizio di revocazione.

V’è però da precisare che se il Tribunale di Milano a luglio del 2017 poteva correttamente parlare di litispendenza della domanda con riferimento al giudizio romano, lo stesso non valeva per la Corte milanese nel 2019, epoca in cui per effetto della pronuncia n. 2499/2018 della Cassazione avrebbe dovuto più propriamente rilevare l’intervenuto giudicato.

19.5. Analoga sorte merita la censura relativa alla domanda risarcitoria fondata sulla contraffazione delle indicazioni geografiche IGP registrate ai sensi del Trattato di Atene in data 23/9/2003.

La questione era sottoposta alla Corte romana che l’ha rigettata esaminando la domanda riconvenzionale dell’appellante B.B., con statuizione confermata dalla sentenza. n. 2499/2018 della Cassazione e formazione del giudicato sulla domanda per cui era già stata ritenuta la litispendenza.

19.6. Secondo la ricorrente, la Corte di appello di Milano sarebbe incorsa in omissione di pronuncia quanto alla doglianza di cui al sesto motivo di appello relativa alla contestazione della litispendenza anche quanto alla domanda di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c., n. 3, per atti contrari alla correttezza professionale, collegata alla tutela della indicazione di provenienza semplice.

B.B. aveva negato di aver mai proposto tale domanda nel giudizio romano, ove aveva invece dedotto la diversa ipotesi concorrenziale dell’art. 2598 c.c., n. 2 per appropriazioni di pregi, collegata invece alla violazione del diritto su indicazione geografica protetta.

Se è vero che la Corte di appello di Milano non ha risposto esplicitamente alla censura, una risposta implicita può invece essere colta nel riferimento al fatto che nel giudizio romano era stata introdotta la domanda fondata sulle denominazioni di origine, che ne costituiva il presupposto.

Tant’è che l’intervenuto giudicato sul punto si ripercuote anche sulla domanda risarcitoria concorrenziale correlativa.

19.7. Quanto alla domanda risarcitoria fondata su atti di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c., n. 2, per appropriazione di pregi (punto f) la ricorrente ammette di averla proposta nel giudizio romano ma assume che la Corte di appello di Roma non si era pronunciata sul punto.

La censura così formulata è infondata: visto che la domanda era stata proposta anche nel giudizio precedente, tanto bastava a radicare la litispendenza ex art. 39 c.p.c..

La Corte di appello si era pronunciata sul punto implicitamente, rigettando il gravame quanto alla violazione del diritto sulle IGP, che costituiva il presupposto della dedotta concorrenza sleale appropriativa.

Secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (Sez. 5, n. 29191 del 06/12/2017, Rv. 646290 – 01);infatti ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia. (Sez. 1, n. 24155 del 13/10/2017, Rv. 645538 – 01).

Se pur la Corte di appello non si fosse pronunciata sul punto, neppure implicitamente, la sentenza avrebbe dovuto essere impugnata a tale titolo per violazione dell’art. 112 c.p.c..

Il che peraltro era avvenuto con il quindicesimo motivo di ricorso di B.B., rigettato dalla Corte di Cassazione al p. 19 di pag.24 della sentenza n. 2499/2018, sul punto indenne dalla richiesta revocazione nel giudizio qui riunito.

20. Con il sesto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, relativamente al capo decisionale n. 12, le ricorrenti denunciano nullità della sentenza e del processo, violazione dell’art. 183 c.p.c., comma 5, artt. 112 e 34 c.p.c., art. 2909 c.c., e art. 123 e art. 21, comma 3, cod.propr.ind., e motivazione apparente, in punto registrazione del marchio n. 835.837.

20.1. La Corte di appello al capo 12 aveva affrontato il primo motivo di appello in ordine alla mancata delibazione della questione di nullità della ri-registrazione effettuata nel 2004 del marchio Budweiser – già dichiarato decettivo dalla sentenza della Corte di appello di Milano n. 1779/2011 – effettuata da A.B. con il n. 835.837.

A tal proposito la Corte milanese ha ritenuto tardiva la domanda consequenziale introdotta dalle attrici a titolo di reconventio reconventionis, sancendo l’inammissibilità dell’intero tema della invalidità della “ri-registrazione” e della illiceità del marchio del 2004, e ciò perchè:

(a) l’appellante era già a conoscenza del marchio n. 835.837 al momento dell’instaurazione del giudizio di merito (p. 12.3.2. della sentenza impugnata);

(b) perchè tale questione non configurerebbe una questione pregiudiziale, nonostante che A.B. avesse contestato la fondatezza delle domande risarcitorie in considerazione dell’attuale assenza di decettività venuta meno a partire degli anni 2000, prima della registrazione del marchio n. 835.837 richiesta il 30/9/2003;

(c) il marchio 835.837 sarebbe stato richiamato da A.B. in comparsa di risposta di primo grado al solo fine argomentativo di persuadere il Tribunale della attuale non decettività dell’uso del termine Budweiser.

20.2. La prima affermazione della Corte milanese sub (a) appare inconferente.

E’ del tutto irrilevante il rilievo che B.B. avrebbe potuto proporre la domanda volta a far dichiarare la nullità nello stesso processo del marchio n. 835.837 perchè nessuna norma processuale impone alla parte di cumulare nello stesso processo una pluralità di domande: il cumulo è appunto facoltativo, come appare ben chiaro dalla lettura dell’art. 104 c.p.c..

Nè il mancato avvalersi di tale facoltà può concretare un abuso dello strumento processuale in violazione dei doveri di correttezza e buona fede, assimilabile al frazionamento indebito e ingiustificato di una domanda invece unitaria (Sez. 2, 15/02/2018, n. 3738; Sez. un., 16/02/2017, n. 4091; Sez. 1, 30/04/2014, n. 9488; Sez. 3, 11/06/2008, n. 15476; Sez. un., 15/11/2007, n. 23726).

Nessuna controindicazione decisiva può ritrarsi dalla sentenza di questa Corte invocata dalla Corte milanese (Sez.1, 11/01/2017, n. 498).

Secondo questa pronuncia, l’art. 183 c.p.c., comma 5, – inserito nell’ambito di un contesto normativo volto a circoscrivere sin dal suo inizio l’oggetto del processo attraverso un rigido sistema di preclusioni – nel consentire all’attore di formulare nella prima udienza di trattazione la nuova domanda o la nuova eccezione che siano conseguenza, oltre che della domanda riconvenzionale, della eccezione proposta dal convenuto con la comparsa di risposta, è rivolto unicamente a tutelare la parte attrice a fronte di iniziative difensive della parte convenuta che mutino, con la sua prima difesa, i termini oggettivi della controversia, o comunque introducano nel processo ulteriori questioni; la norma, pertanto, ove contempla l’eccezione dell’avversario, deve intendersi riferita all’eccezione in senso stretto, non alla semplice controdeduzione del convenuto che sia rivolta a contestare le condizioni dell’azione: rispetto a tale eccezione, inoltre, la nuova domanda o la nuova eccezione dell’attore devono presentarsi come consequenziali e, quindi, configurarsi come una contro-iniziativa necessaria per replicare all’eccezione medesima; deve, conclusivamente, ritenersi che l’art. 183 c.p.c., comma 5, mentre consente all’attore, nella prima udienza di trattazione di proporre le domande e le eccezioni anche nuove che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni in senso stretto del convenuto, non attribuisce alle parti la facoltà di proporre domande nuove che potessero essere proposte con la citazione o con la comparsa di risposta.

La sentenza citata contrappone le mere contestazioni quali le controdeduzioni difensive alle eccezioni in senso stretto, senza considerare le eccezioni in senso lato, che pure ampliano il thema decidendum al fine di paralizzare l’accoglimento della domanda dell’attore, e riguarda comunque ex professo un caso in cui non era stata opposta dal convenuto una eccezione in senso lato ma una mera difesa.

Nella presente fattispecie la nuova questione e la circostanza su cui essa si basava erano state introdotte dalla convenuta con la comparsa difensiva, con la quale A.B. non si era limitata affatto a contestare nell’ambito dei medesimi fatti costitutivi la pretesa attorea, ma aveva introdotto in giudizio un fatto nuovo che radicava ragionevolmente l’esigenza di una reazione difensiva della parte attrice.

20.3. L’art. 183 c.p.c., comma 5, (nel testo sostituito dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 23 lett. c-ter) convertito, con modificazioni, in L. 14 maggio 2005, n. 80, come modificato dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 11, lett. a), con effetto dal 1/3/2006) prevede che alla prima udienza di trattazione l’attore possa proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto. Alla stessa udienza le parti possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate e, in caso di richiesta delle parti, il giudice possa concedere alle parti termine perentorio di trenta giorni per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte (art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’art. 183 c.p.c. (sia nel testo anteriore alla riforma di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, sia nel testo successivo) consente all’attore di proporre le domande consequenziali alle eccezioni o domande del convenuto soltanto nell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., e non anche, a pena di inammissibilità rilevabile anche d’ufficio, con le memorie previste dalla medesima norma (Sez.3, 19/07/2013, n. 17708).

Il punto di diritto che contrappone le parti nella discussione attiene al fatto se una mera difesa o un’eccezione in senso lato, possa o meno legittimare la proposizione della domanda contro-riconvenzionale.

Non può invece essere condivisa l’opinione espressa nelle conclusioni del Procuratore generale, che parrebbe subordinare l’ammissibilità della reconventio reconventionis alla formulazione da parte del convenuto di una vera e propria “domanda riconvenzionale”, tenuto conto del contenuto letterale dell’art. 183 c.c., comma 5, primo periodo.

E’ stato al proposito sostenuto – in via di interpretazione estensiva – che l’art. 183 c.p.c., comma 4, nel testo anteriore alla riforma del 2006, così come l’attuale comma 5 della stessa norma, consentono che l’attore possa introdurre una nuova domanda, oltre che a seguito di eccezione o domanda riconvenzionale del convenuto, anche in dipendenza di una mera difesa in iure o in facto che alleghi l’infondatezza della domanda originaria, ferma restando la necessità che la nuova domanda assuma carattere consequenziale e, dunque, che la mera difesa svolga rispetto ad essa funzione di elemento costitutivo (Sez. 3, n. 17708 del 19/07/2013, Rv. 628941 – 01).

Secondo la Corte di appello una mera difesa non può legittimare l’introduzione della domanda nuova consequenziale in via di reconventio reconventionis.

Le Sezioni Unite, occupandosi dell’art. 183 c.p.c., sia pur in diversa prospettiva, che atteneva propriamente ai limiti della cosiddetta emendatio libelli, hanno affermato che con riguardo alle domande nuove, pur in assenza di un espresso divieto come quello di cui all’art. 345 c.p.c., questo poteva essere implicitamente desunto dal fatto che risultano specificamente ammesse per l’attore le domande e le eccezioni “che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto”; se ne poteva quindi desumere che sono (implicitamente) vietate tutte le domande nuove ad eccezione di quelle che per l’attore rappresentano una reazione alle opzioni difensive del convenuto, secondo una struttura in parte dissimile da quella riscontrabile nel più volte citato art. 345 c.p.c., dove il divieto di domande nuove risulta esplicitato (Sez.un. 15/6/2015 n. 12310). In tal modo il supremo consesso nomofilattico non ha preso posizione sul dibattito, limitandosi a ribadire il tenore della formula codicistica.

20.4. La questione della idoneità delle mere difese a radicare il diritto a proporre domanda contro-riconvenzionale non è tuttavia rilevante nel caso di specie poichè A.B. non aveva proposto una mera difesa nell’ambito dei fatti costitutivi allegati da controparte ma, avvalendosi del proprio potere assertivo, aveva ampliato il thema decidendum, introducendo un fatto nuovo, ossia l’avvenuta registrazione del marchio 835.837, al fine di paralizzare la domanda di controparte.

20.5. Secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte, in relazione all’opzione difensiva del convenuto consistente nel contrapporre alla pretesa attorea fatti ai quali la legge attribuisce autonoma idoneità modificativa, impeditiva o estintiva degli effetti del rapporto sul quale la predetta pretesa si fonda, occorre distinguere il potere di allegazione da quello di rilevazione.

Il primo compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile (pertanto sempre soggiacendo alle relative preclusioni e decadenze), mentre il secondo compete alla parte (e soggiace perciò alle preclusioni previste per le attività di parte) solo nei casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte.

In ogni altro caso si deve ritenere la rilevabilità d’ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito, senza che, peraltro, ciò comporti un superamento del divieto di scienza privata del giudice o delle preclusioni e decadenze previste, perchè il generale potere dovere di rilievo d’ufficio delle eccezioni facente capo al giudice si traduce solo nell’attribuzione di rilevanza, ai fini della decisione di merito, a determinati fatti, sempre che la richiesta della parte in tal senso non sia strutturalmente necessaria o espressamente prevista, essendo però in entrambi i casi necessario che i predetti fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultino legittimamente acquisiti al processo e provati alla stregua della specifica disciplina processuale in concreto applicabile (Sez. Un., 03/02/1998, n. 1099).

Le Sezioni Unite, ribadendo che nel nostro ordinamento vige il principio della normale rilevabilità di ufficio delle eccezioni e che la necessità dell’istanza di parte deriva solo da una specifica previsione normativa, hanno poi precisato che l’eccezione in senso lato (nel caso di giudicato esterno), in difetto di una tale previsione, è rilevabile d’ufficio ed il giudice è tenuto a pronunciare sulla stessa, qualora il suo fondamento risulti da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito; di qui la conseguenza che, in mancanza di pronuncia o nell’ipotesi in cui il giudice del merito abbia affermato la tardività dell’allegazione – e la relativa pronuncia sia stata impugnata – il giudice di legittimità accerta l’esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini e accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice del merito (Sez. Un., 25/05/2001, n. 226).

Principio poi ribadito dalle Sezioni Unite, quando hanno affermato che il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (Sez. un., 07/05/2013, n. 10531).

L’eccezione in senso lato è, come tale, rilevabile d’ufficio dal giudice, il quale può fare riferimento, per il principio dell’acquisizione della prova, a tutte le risultanze del giudizio (Sez. 6 – 3, n. 20111 del 24/09/2014, Rv. 632976 – 01; Sez. 3, n. 533 del 14/01/2014, Rv. 629728 – 01; nonchè Sez.Un. 03/02/1998, n. 1099).

Dell’art. 183, il comma 5 non distingue fra eccezioni in senso proprio e in senso lato e consente quindi la proposizione della domanda riconvenzionale all’attore alla prima udienza di trattazione purchè essa appaia conseguenziale e necessitata sotto il profilo difensivo da un’eccezione sollevata dal convenuto, anche in senso lato.

Ben poteva quindi B.B. – a fronte dell’allegazione della registrazione del nuovo marchio del 2004 formulata ex adverso proporre la domanda di nullità della “ri-registrazione” che altrimenti avrebbe potuto essere posta a base della decisione del Giudice nell’ambito della selezione dei fatti rilevanti ai fini della decisione, tanto più che si rendeva necessario contrastare la presunzione di validità del titolo di proprietà industriale ex art. 121, comma 1, cod.propr.ind..

20.6. L’esposta conclusione appare in definitiva anche conforme alla logica del sistema processuale introdotto dalla Novella del 1990 e successive modifiche e integrazioni, come ricostruito dalle Sezioni unite nella sentenza già ricordata.

Tale sistema è sì preordinato alla prioritaria cristallizzazione del thema decidendum con l’obiettivo pubblicistico di garantire un processo rapido e concentrato, esente da arresti e ritorni all’indietro, ma non può trascurare l’interdipendenza delle attività difensive dei contendenti anche al fine di prevenire situazioni di pregiudizialità rispetto ad altri giudizi successivamente introdotti che finirebbero con il ritardare e condizionare l’iter processuale (come avverrebbe se l’attore fosse costretto, anzichè proporre la riconvenzionale conseguenziale, a instaurare altro separato giudizio).

La chiave del sistema è offerta dal concetto fondamentale di “consequenzialità” che abilita il giudice a valutare pragmaticamente la sussistenza del collegamento fra la domanda introdotta alla udienza di trattazione e l’esigenza difensiva tracciata dalle allegazioni contenute nella comparsa di risposta del convenuto per ravvisarvi quelle allegazioni di fatti idonei a radicare eccezioni anche in senso lato che potrebbero, ove non contrastate, condurre al rigetto della domanda.

Secondo le Sezioni Unite è perciò da ritenersi che il legislatore abbia scelto proprio questo momento per consentire, prima dell’inizio della trattazione della causa, “correzioni di tiro” e cambiamenti anche rilevanti (rispetto ai quali è addirittura previsto un triplo ordine di termini) al fine di massimizzare la portata dell’intervento giurisdizionale richiesto così da risolvere in maniera tendenzialmente definitiva i problemi che hanno portato le parti dinanzi al giudice, evitando che esse tornino nuovamente in causa in relazione alla medesima vicenda sostanziale.

Diversamente opinando, si finirebbe per imprigionare la ratio che presiede alla organizzazione dell’art. 183 c.p.c., nell’ambito di una logica deontica fine a sè stessa, intesa ad inquadrare e regolamentare permessi, obblighi e divieti con l’unica preoccupazione che siano certi i confini tra quel che si può, quel che si deve e quel che è vietato fare, anche a discapito della funzionalità dell’intero processo e dei suoi valori fondanti.

Ed ancora – secondo le Sezioni Unite – i risultati ermeneutici in tal modo raggiunti circa la riconosciuta possibilità di modificare domande, eccezioni e conclusioni già formulate, risultano in completa consonanza sia con l’esigenza – ripetutamente perseguita nel codice di rito talora anche attraverso modifiche della disciplina sulla competenza – di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale, sia, più in generale, con i valori funzionali del processo via via enucleati nel corso degli ultimi anni dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità.

L’interpretazione adottata risulta infatti maggiormente rispettosa dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, poichè non solo non incide negativamente sulla durata del processo nel quale la modificazione interviene, ma determina anzi una indubbia incidenza positiva più in generale sui tempi della giustizia, in quanto idonea a favorire una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale portata dinanzi al giudice in un unico contesto invece di determinare la potenziale proliferazione dei processi.

La concentrazione favorita da tale interpretazione risulta inoltre maggiormente rispettosa della stabilità delle decisioni giudiziarie, anche in relazione alla limitazione del rischio di giudicati contrastanti, nonchè della effettività della tutela assicurata, sempre messa in pericolo da pronunce meramente formalistiche.

20.7. Ulteriore valido argomento a sostegno delle conclusioni attinte può essere ritratto dalla stessa ricordata pronuncia n. 17708/2013, laddove è stato osservato che la legge processuale, all’art. 34 c.p.c., consente all’attore un’attività di proposizione di domanda consequenziale come reazione ad un atteggiamento di mera difesa del convenuto.

Infatti l’ammissione della possibilità che l’attore, a fronte della proposizione di una questione pregiudiziale, invece che lasciare che tale questione relativa venga accertata solo incidentalmente in funzione della decisione con efficacia di giudicato sulla domanda originaria da lui proposta, possa chiedere che essa venga fatta oggetto di decisione con efficacia di cosa giudicata, dimostra l’ammissibilità di una domanda nuova che vada ad innestarsi su una mera difesa del convenuto, il cui esercizio non può che avere la sua sede necessariamente nella prima udienza di trattazione ai sensi dell’art. 183 c.p.c..

La citata previsione dell’art. 34 c.p.c., rappresenta dunque un sintomo sistematico che un’attività dell’attore in replica ad una mera difesa con un’eccezione o con una domanda consequenziale sia pienamente legittima e supposta dall’art. 183 c.p.c., comma 5.

21. Con il settimo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, relativamente al capo decisionale n. 13, le ricorrenti denunciano nullità della sentenza e del processo, violazione dell’art. 183 c.p.c., comma 5, artt. 112 e 34 c.p.c., art. 2909 c.c., e art. 123 e art. 21, comma 3, cod.propr.ind., in punto “reviviscenza” delle registrazioni.

21.1. La Corte di appello si era occupata della domanda risarcitoria di B.B. fondata sul preteso fenomeno di “reviviscenza” di alcuni marchi di cui era titolare (già dichiarati nulli ad opera di Corte di appello Milano n. 23987/2000) per effetto dell’accertamento contenuto nella sentenza 21472/2013 della Cassazione.

Per un verso, la domanda era stata considerata tardiva e inammissibile; per un altro infondata, per effetto della pronuncia della Cassazione n. 2499 del 2018, che aveva ritenuto che la precedente propria sentenza n. 13168 del 2002 non fosse stata scalfita da quella n. 21472 del 2013.

21.2. Secondo le ricorrenti, la valutazione di tardività era errata perchè l’invocazione degli ulteriori titoli di proprietà industriale (ossia: marchio n. 238.203 dell’11/5/1960; marchio n. 62.359 del 30/9/1940; marchio n. 342.157 del 1967) era stata introdotta da parte attrice alla prima udienza di trattazione del 17/12/2014 in risposta alle eccezioni e difese delle convenute rivolte a neutralizzare la validità dei diversi e successivi marchi posti a fondamento delle domande attrici registrati negli anni Novanta (n. 614.536, 614.537 e 674.530).

21.3. La censura proposta non è condivisibile.

Come osservato nella sentenza impugnata, la sentenza delle Sezioni Unite 15/06/2015, n. 12310, superando la tralaticia distinzione fra mutatio e emendatio libelli, effettivamente ammette che la modificazione della domanda prevista a norma dell’art. 183 cod. proc. civ., possa riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, ma richiede pur sempre che per effetto della modificazione non si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, o l’allungamento dei tempi processuali.

E’ comunque assorbente il corretto rilievo opposto dalle controricorrenti circa l’impossibilità di configurare la proposizione della domanda di reviviscenza come una mera modificazione della domanda originaria.

Infatti, pur nei rimodellati e ampi margini concessi allo jus variandi dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 12310/2015, che si estendono alla causa petendi, è pur sempre necessario che la domanda modificata non si aggiunga a quella originaria ma la sostituisca: solo così – osservano ineccepibilmente le controricorrenti – è configurabile una domanda ammissibilmente modificata e non già una domanda nuova.

Secondo le Sezioni Unite, infatti: “La vera differenza tra le domande “nuove” implicitamente vietate – in relazione alla eccezionale ammissione di alcune di esse – e le domande “modificate” espressamente ammesse non sta dunque nel fatto che in queste ultime le “modifiche” non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive”, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali -, o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività” (nello stesso senso Sez.3, 11/7/2017 n. 17074).

Nella fattispecie, anche se la domanda era stata introdotta all’udienza di trattazione e non con la prima memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, (e quindi in un momento in cui era ancora possibile proporre domande consequenziali ai sensi dell’art. 183, comma 5), non sussistevano i presupposti per l’esercizio di tale facoltà perchè le controricorrenti si erano limitate a controdeduzioni difensive senza ampliare il tema di indagine e senza legittimare in alcun modo l’invocazione di altri titoli di proprietà industriale, già dichiarati nulli e in ipotesi “reviviscenti”.

21.4. Le altre considerazioni della sentenza impugnata circa l’infondatezza della domanda tardiva e inammissibile costituiscono un mero obiter dictum, come conferma l’incipit del p. 13.2.2. “L’accertata inammissibilità per tardività della domanda risarcitoria preclude ogni discorso sulla sua (manca presumibilmente la parola “fondatezza”)”.

21.5. La giurisprudenza di questa Corte si è sovente confrontata con pronunce strutturate secondo la stessa architettura della sentenza in esame, caratterizzata dall’accoglimento di eccezioni preliminari o pregiudiziali litis impedientes, seguito dall’esame anche delle questioni attinenti al merito della controversia.

Secondo le Sezioni Unite di questa Corte, qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), con la quale si è spogliato della potestas iudicandi in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere nè l’interesse ad impugnare; conseguentemente è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta ad abundantiam nella sentenza gravata (Sez. U, n. 3840 del 20/02/2007, Rv. 595555 – 01).

Inoltre le affermazioni contenute nella motivazione della sentenza di appello impugnata con ricorso per cassazione, relative al merito della domanda azionata, devono ritenersi – qualora effettuate nella riconosciuta carenza di potere giurisdizionale estranee all’unica ratio decidendi della sentenza, e, perciò, svolte ad abundantiam, con argomentazioni meramente ipotetiche e virtuali, che la parte soccombente non ha l’onere nè l’interesse ad impugnare in sede di legittimità, con la conseguenza che gli eventuali motivi proposti al riguardo devono essere dichiarati inammissibili (Sez. U, n. 8087 del 02/04/2007, Rv. 595928 – 01).

Diverso è il caso in cui la sentenza del giudice di merito, la quale, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui la prima possa risultare erronea; tale pronuncia non incorre nel vizio di contraddittorietà della motivazione, che sussiste nel diverso caso di contrasto di argomenti confluenti nella stessa ratio decidendi, nè contiene, quanto alla causa petendi alternativa o subordinata, un mero obiter dictum insuscettibile di trasformarsi nel giudicato. Detta sentenza, invece, configura una pronuncia basata su due distinte rationes decidendi, ciascuna di per sè sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso (Sez. 3, n. 10815 del 18/04/2019, Rv. 653585 – 01; conforme Sez. 3, n. 21490 del 07/11/2005, Rv. 586047 – 01).

L’orientamento delineato dai citati arresti del 2007 delle Sezioni Unite è stato condiviso da numerose pronunce successive delle sezioni semplici, che hanno affermato che la sentenza con cui il giudice di primo grado, dopo avere riconosciuto, nella motivazione, di essere privo del potere di pronunciarsi abbia poi erroneamente, anzichè spogliarsi della causa, deciso il merito della stessa, respingendo in dispositivo la domanda, è, nondimeno, impugnabile esclusivamente in relazione alla statuizione preliminare posto che essendo la motivazione sul fondo della controversia resa ad abundantiam da un giudice che ha esaurito la propria potestas iudicandi con l’emissione di una pronuncia in rito completamente definitiva della causa dinanzi a sè anche la statuizione di rigetto, contenuta nel dispositivo, è meramente apparente e, come tale, non solo insuscettibile di passare in cosa giudicata, ma anche in concreto inidonea a incidere sulla individuazione del rimedio impugnatorio esperibile (Sez. 2, n. 19754 del 27/09/2011, Rv. 619326 – 01).

In altri termini, qualora il giudice, oltre a dichiarare l’inammissibilità della domanda o del gravame, con ciò spogliandosi della potestas iudicandi sul merito della controversia, la abbia anche rigettata, la parte soccombente non ha l’onere nè l’interesse ad impugnare; di conseguenza è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è, viceversa, inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta ad abundantiam nella sentenza gravata (Sez. 2, n. 19754 del 27/09/2011, Rv. 619326 – 01; Sez. 1, n. 3927 del 12/03/2012, Rv. 621978 – 01; Sez. 2, n. 2736 del 05/02/2013, Rv. 625070 – 01; Sez. 5, n. 27049 del 19/12/2014, Rv. 633881 – 01, Sez. L, n. 22380 del 22/10/2014, Rv. 633495 – 01, Sez. 5, n. 7838 del 17/04/2015, Rv. 635230 – 01; Sez. 2, n. 101 del 04/01/2017, Rv. 642185 – 01; Sez. 6 – 5, n. 30393 del 19/12/2017, Rv. 646988 – 01).

Il principio è stato ulteriormente confermato anche dalle Sezioni unite sia con la sentenza n. 24469 del 30/10/2013, Rv. 627991 – 01, sia con l’ordinanza n. 31024 del 27/11/2019, Rv. 656074 – 01), ribadendo che se il giudice si spoglia della potestas iudicandi con una pronuncia in rito completamente definitoria della causa dinanzi a sè, l’ulteriore statuizione resa anche sul merito della medesima controversia si appalesa meramente apparente e, come tale, è insuscettibile di passare in cosa giudicata.

21.6. Rimangono così assorbite tutte le ulteriori considerazioni sviluppate da parte delle ricorrenti circa l’erroneità del principio di diritto coniato dalla sentenza n. 2499 del 2018, la sua inopponibilità alle parti estranee a quel procedimento e la sua non conformità al diritto Europeo asseritamente capace di inficiare il giudicato secondo la sentenza della Corte di Giustizia 18/7/2007 in causa C-119/05.

22. Con l’ottavo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, relativamente al capo decisionale n. 14, le ricorrenti denunciano nullità della sentenza e del processo, per omessa pronuncia, violazione dell’obbligo di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, falsa applicazione di preclusione da litispendenza, violazione dell’art. 39 c.p.c., violazione di giudicato esterno e dell’art. 2909 c.c., in punto omessa delibazione nel merito quanto al marchio decettivo.

22.1. La Corte milanese al p. 14. della sentenza impugnata ha disatteso il secondo motivo di appello, che si doleva dell’omessa pronuncia o dell’errata valutazione di litispendenza quanto alla richiesta di inibitoria dell’uso del marchio Budweiser di A.B. e di condanna della stessa per concorrenza sleale, pubblicità ingannevole e generico illecito aquiliano.

A tal proposito è stato ritenuto che la dichiarazione di giudicato o di litispendenza quanto alle domande principali risarcitorie producesse i suoi effetti anche per le domande sussidiarie, mentre per alcune domande era stato disposto che il giudizio proseguisse separatamente in punto quantum, ma il giudizio si era estinto per inerzia delle attuali ricorrenti.

22.2. L’errore lamentato è evidente per quanto attiene alle domande proposte da B., che non era entrata a far parte di alcun precedente giudizio, e per quanto attiene A.B. Italia, estranea a ogni precedente giudizio e chiamata a rispondere solo a partire dal 2011.

In secondo luogo, la dedotta responsabilità per pubblicità ingannevole, abuso di diritto, illecito aquiliano e responsabilità processuale non è stata esaminata dalla Corte di appello.

La domanda di inibitoria del marchio Budweiser non può essere in alcun modo ritenuta accessoria rispetto alla domanda risarcitoria, poichè configura una richiesta indipendente e parallela fondata sullo stesso titolo giuridico.

23. Con il nono motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, relativamente al capo decisionale 12, le ricorrenti denunciano violazione dell’art. 96 c.p.c., comma 1, nullità della sentenza per motivazione apparente, in punto condanna per lite temeraria.

Il motivo resta evidentemente assorbito per effetto dell’accoglimento di vari motivi di ricorso con la conseguente cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Milano, chiamata così a rivalutare, prima ancora che i presupposti della responsabilità aggravata, anche quelli della soccombenza ai fini della regolazione delle spese di lite in relazione al nuovo assetto del merito.

24. In sintesi, quindi per le ragioni sopra esposte la Corte accoglie il primo, il sesto e l’ottavo motivo, nonchè il secondo e il quinto motivo, nei sensi di cui in motivazione, rigetta il terzo, il quarto e il settimo motivo e dichiara assorbito il nono; di conseguenza la Corte cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa oggetto del ricorso n. 5967/2020 alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, riuniti preliminarmente i ricorsi n. r.g. 12466/2018 e n. 5967/2020;

rigetta il ricorso n. 12466/2018 e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidate nella somma di Euro 15.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esposti, 15% rimborso spese generali, oltre accessori di legge;

accoglie il primo, il sesto e l’ottavo motivo, nonchè il secondo e il quinto motivo nei sensi di cui in motivazione, del ricorso n. 5967/2020, rigetta il terzo, il quarto e il settimo motivo e dichiara assorbito il nono, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente del ricorso n. 12466/2018, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile, il 29 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 dicembre 2020

 

 

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA