Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29565 del 29/12/2011

Cassazione civile sez. trib., 29/12/2011, (ud. 21/06/2011, dep. 29/12/2011), n.29565

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23948/2007 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

FALL. REUNION SRL in persona del Curatore pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA PIAZZA VESCOVIO 21, presso lo studio

dell’avvocato MANFEROCE TOMMASO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MANGO ANTONIO, con procura speciale notarile

del Not. Dr. PIETRO BOERO in TORINO, rep. n. 167165 del 13/06/2011,

giusta delega in calce;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6/2007 della COMM.TRIB.REG. di TORINO,

depositata il 27/03/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/06/2011 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito per il ricorrente l’Avvocato GALLUZZO, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato MANFEROCE, che ha chiesto il

rigetto del primo motivo, inammissibilità degli altri;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In data 29.5.2000 il Fallimento Reunion s.r.l. presentava istanza di rimborso di un credito IVA per lire 496.922.000 relativo all’anno 1999.

L’Ufficio Torino (OMISSIS) della Agenzia delle Entrate soprassedeva al rimborso in quanto notificava al Fallimento, in data (OMISSIS), due avvisi di accertamento per gli anni 1997 e 1998 disponendo contestualmente il “fermo amministrativo” del credito di rimborso IVA ai sensi del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 69.

Il Fallimento impugnava entrambi gli avvisi nonchè con ricorso depositato in data 19.11.2003 il silenzio-rifiuto formatosi sulla istanza di rimborso.

Il giudizio concernente il silenzio opposto alla istanza di rimborso veniva definito, con sentenza in data 14.7.2004 della CTP di Torino, con il rigetto del ricorso sulla duplice motivazione della cessata inerzia da parte della Amministrazione finanziaria con l’adozione del provvedimento di fermo, nonchè della legittimità di tale misura cautelare sospensiva in attesa dell’accertamento dei crediti portati dagli avvisi notificati al contribuente.

L’appello proposto dal Fallimento veniva accolto dalla Commissione tributaria della regione Piemonte che, con sentenza 27.3.2007 n. 6, rigettava l’appello incidentale proposto dall’Ufficio in ordine all’eccepito difetto di legittimazione processuale del Curatore fallimentare e dichiarava il diritto del Fallimento al rimborso del credito IVA “nel suo originario ammontare maggiorato degli interessi legali o nel minar importo che dovesse risultare dovuto per effetto di compensazione L. Fall., ex art. 56, qualora il credito dell’Erario portato dai due avvisi di accertamento fosse risultato certo e definitivo”.

Avverso la sentenza di appello, notificata il 13.6.2007 ha proposto tempestivo ricorso la Agenzia delle Entrate chiedendone la cassazione per i vizi dei legittimità denunciati con cinque motivi articolati in plurime censure.

Ha resistito con controricorso il Fallimento Reunion s.r.l.

depositando anche memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1. La Commissione tributaria della regione Piemonte ha motivato la propria decisione fondandola sulle seguenti ragioni:

– la Curatela aveva prodotto in grado di appello il decreto autorizzativo del Giudice delegato, spiegando efficacia ex tunc tale autorizzazione in mancanza di accertamento esplicito, da parte del giudice di primo grado, del difetto di legittimazione processuale;

– la misura cautelare del fermo era da ritenersi illegittima in quanto violativa del divieto di azioni esecutive individuali nei confronti del fallito previsto dalla L. Fall., art. 51, norma che ricomprendeva anche i provvedimenti cautelari di tipo conservativo la cui funzione rimaneva assorbita dalla disciplina concorsuale volta alla preservazione del patrimonio destinato alla soddisfazione dei creditori;

– la specialità della disciplina concorsuale, fondata sul principio della “par condicio creditorum”, non consentiva di ravvisare nella norma contenuta nella Legge sulla contabilità generale dello Stato una deroga al sistema del diritto fallimentare che conteneva adeguate misure conservative della massa patrimoniale del debitore nell’interesse di tutti i creditori;

– la accertata illegittimità del fermo non escludeva la compensabilita, ai sensi della L. Fall., art. 56, del credito di rimborso vantato dal Fallimento con i crediti vantati dalla Amministrazione finanziaria, una volta definito il giudizio di opposizione avverso gli avvisi di accertamento;

– il ricorso del contribuente era stato correttamente proposto avverso il silenzio rifiuto, formatosi con il decorso di gg. 90 dalla richiesta di rimborso, atteso che il fermo – peraltro adottato illegittimamente – non poteva spiegare effetto sulla situazione già perfezionatasi.

p.2. La Agenzia delle Entrate censura la sentenza di appello per i seguenti motivi:

1 – violazione e falsa applicazione del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, del R.D. n. 267 del 1942, art. 56, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

La relazione istituita dai Giudici di appello tra il divieto di azioni esecutive e la misura R.D. n. 2440 del 1923, ex art. 69, non convince in quanto quest’ultima non è funzionale alla esecuzione ma soltanto alla realizzazione della futura compensazione tra i crediti che è espressamente ammessa dalla L. Fall., art. 56, non costituendo un adeguato strumento conservativo delle ragioni di credito la disciplina dettata dalla L. Fall., art. 44, (inefficacia dei pagamenti eseguiti e ricevuti dal fallito; acquisizione automatica alla massa delle utilità conseguite dal fallito);

2 – omessa motivazione su un fatto decisivo e controverso, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

La ricorrente lamenta la apoditticità della statuizione secondo cui il provvedimento di fermo sarebbe influente perchè oltre che illegittimo sarebbe intervenuto su una situazione già consolidata;

3 – violazione e falsa applicazione del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

La ricorrente censura la sentenza di appello in quanto avrebbe ritenuto illegittimo il fermo emesso su di un credito “consolidato” ossia definitivo, atteso che la funzione della misura conservativa proprio quella di paralizzare la esigibilità di un credito che sia certo, liquido e definitivo (3-1); inoltre ritiene del tutto errata la affermazione secondo cui il decorso del termine per il maturarsi del silenzio-rifiuto sulla istanza di rimborso IVA sarebbe idoneo a rendere “consolidata la situazione del credito” del contribuente impedendo l’adozione del fermo amministrativo (3-2);

4 – violazione del R.D. n. 267 del 1942, art. 56, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

La ricorrente ritiene erronea la statuizione della sentenza laddove subordina la compensazione con i crediti vantati dall’Erario soltanto al passaggio in giudicato anzichè al mero accertamento giudiziale compiuto dal Giudice tributario;

5 – violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

La Agenzia sostiene che anche nel caso in cui non dovesse ritenersi applicabile il R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, il rimborso non sarebbe comunque dovuto in quanto l’obbligo di restituzione previsto a carico del contribuente dalla norma indicata in rubrica in caso di notifica di avviso di accertamento successiva alla corresponsione delle somme richieste a rimborso, legittima la conclusione secondo cui il diritto a rimborso, anche se soddisfatto mediante il versamento della somma richiesta, rimane subordinato alla prestazione di determinate garanzie, e dunque tanto più giustificata appare la misura del fermo amministrativo nel caso in cui la notifica dell’avviso di accertamento portante il (contro)credito della Amministrazione finanziaria preceda il pagamento della somma richiesta a titolo di rimborso.

p.3. Il Fallimento Reunion s.r.l. aderendo integralmente alla motivazione della sentenza impugnata ha chiesto il rigetto del ricorso per infondatezza di tutti i motivi dedotti dalla Agenzia delle Entrate.

p.4. Esame e valutazione dei motivi di ricorso.

p.4.1 Il primo motivo è infondato.

Se la tesi sostenuta dalla ricorrente potrebbe sembrare trovare aggancio nella modifica normativa della L. Fall., art. 51, introdotta dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 48, (che ha espressamente esteso l’originario divieto previsto per le azioni individuali esecutive anche alle azioni individuali cautelari) con decorrenza dal 16.7.2006 (cfr. D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 153, comma 1), potendosi argomentare (ubi lex dixit, voluit) che anteriormente a detta modifica il divieto non comprendesse le misure cautelari conservative (nella specie la notifica del fermo amministrativo è stata eseguita in data 7.3.2003), rileva tuttavia il Collegio che la prospettata ipotesi ricostruttiva non può essere accolta in quanto la “ratio legis” sottesa alla norma di divieto, anche precedentemente alla modifica legislativa del 2006, era pacificamente da individuarsi nella esigenza – consustanziale alla disciplina fallimentare – di evitare dispersioni della massa patrimoniale, destinata al soddisfacimento dei creditori concorsuali, mediante il frazionamento dell’attivo nei singoli rapporti debito-creditori esistenti tra il soggetto dichiarato fallito e ciascuno dei creditori, con la conseguenza che “il divieto posto dalla L. Fall., art. 51, di iniziare o proseguire, dal giorno della dichiarazione di fallimento, azioni esecutive individuali sui beni compresi nel fallimento concerne – attesa la rafia di assicurare la par candido creditorum – non solo le azioni esecutive vere e proprie, ma anche quelle dirette ad attuare la conservazione della garanzia patrimoniale le quali, pur rivestendo carattere strumentale, sono tuttavia preordinate all’esecuzione e quindi rientrano nella previsione della norma suindicata” (cfr. Corte Cass. 3^ sez. 7.3.1981 n. 1292, con riferimento ad azione revocatoria ex art. 2901 c.c.; id. 1^ sez. 21.5.1983 n. 3515, con riferimento al sequestro conservativo; id. 1^ sez. 23.10.1993 n. 10558, con riferimento al sequestro giudiziario ex art. 670 c.p.c.: id. 1^ sez. 16.4.1996 n. 3595 con riferimento al sequestro amministrativo R.D.L. 12 maggio 1938, n. 794, ex art. 3, comma 3, effettuato in relazione ad infrazioni valutarie a garanzia del pagamento delle pene pecuniarie di cui al R.D.L. 5 dicembre 1938, n. 1928, art. 2; id. 3^ sez. 4.4.2003 n. 5323, con riferimento alla azione surrogatoria ex art. 2900 c.c.).

Come è stato chiaramente evidenziato, infatti, dai principi informatori del sistema fallimentare (che possono sinteticamente riassumersi, da un lato, nella sottrazione al soggetto dichiarato fallito del potere di disposizione dei propri beni e dei rapporti confluiti nel suo patrimonio, e dall’altro, nella conformazione ed unificazione dei poteri di aggressione del patrimonio del fallito, esercitabili da parte dei singoli creditori, non più in forma individuale ma esclusivamente in forma aggregata, all’esito della verifica e dell’ammissione dei crediti al concorso disposta dagli organi della procedura fallimentare) discende che, non solo la disciplina della espropriazione forzata, ma anche la disciplina normativa relativa ai provvedimenti cautelari e conservativi del credito verso il fallito “viene superata dalla funzione conservativa che il fallimento esercita a favore della massa nella sua figura globale di esecuzione concorsuale. Di conseguenza così come vengono privati di efficacia i provvedimenti cautelari legittimamente ottenuti prima dell’apertura del fallimento (e sono “ab origine” privi di efficacia quelli emessi nel corso della stessa procedura), identicamente lo stesso regime sostitutivo dell’istituto fallimentare, nelle sue varie funzioni si estende ai provvedimenti con finalità cautelare singolare e alle situazioni espresse in forme di autotutela per il singolo creditore, salve rimanendo quelle forme di autotutela che lo stesso ordinamento settoriale del concorso prevede e conserva” (cfr. Corte Cass. 1^ sez. 3.9.1996 n. 8053; id.

1^ sez. 13.1.2011 n. 711, entrambe con specifico riferimento al “fermo amministrativo” R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, ex art. 69).

Ne consegue che la modifica normativa della L. Fall., art. 51, apportata dal D.Lgs. n. 5 del 2006, deve correttamente intendersi non già come innovativa, quanto piuttosto come recettiva di un orientamento interpretativo, coerente al sistema del concorso fallimentare, già da tempo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità volto a ricomprendere nel divieto della L. Fall., art. 51, non solo le azioni individuali esecutive ma tutti “i mezzi direttamente od indirettamente satisfattivi delle situazioni giuridiche soggettive” (cfr. Corte Cass. 1^ sez. n. 8093/1996 cit.), fatti salvi quelli espressamente disciplinati dallo stesso ordinamento settoriale, qual è l’istituto della compensazione previsto dalla L. Fall., art. 56, che, in quanto realizza il frazionamento dal patrimonio del fallito di singoli rapporti obbligatori, consentendo al singolo creditore di compensare il proprio debito verso il fallito con il credito vantato nei confronti della massa fallimentare, si pone, pertanto, come eccezione alla regola generale di divieto di frazionamento dei rapporti tra fallito e singoli creditori contenuta nella L. Fall., art. 51, ed in quanto tale non è suscettibile di applicazione analogica con riferimento ad altre misure (nella specie cautelari, qual è il fermo amministrativo, esercizio dei poteri di autotutela della PA) strumentali alla soddisfazione di crediti individuali verso il fallito e che vengono pertanto ad incidere sulla “par condicio creditorum” in quanto dirette a “separare” i crediti vantati nei confronti del fallito dal concorso fallimentare.

Appare opportuno precisare, infatti, che la misura cautelare del fermo amministrativo, adottata nei confronti del Fallimento, non può ripetere la propria legittimità dalla stessa L. Fall., art. 56, atteso che, se è indubbio che la norma fallimentare (salva la disposizione speciale del comma secondo diretta ad evitare che.

mediante la compensazione, vengano perseguiti scopi fraudolenti in pregiudizio dei creditori concorsuali) non ha inteso alterare la disciplina ordinaria della compensazione (la compensabilità in sede fallimentare di crediti pur se non ancora scaduti alla data di dichiarazione del fallimento, non deroga all’art. 1243 c.c., comma 1, trovando logica giustificazione nelle disposizioni della L. Fall., art. 55, comma 2, e art. 59, che ricollegano la scadenza, rispettivamente, dei debiti e dei crediti, alla data della predetta dichiarazione), tuttavia, come è stato esattamente rilevato, la norma del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, riferendosi a mere “ragioni di credito” vantate dalla Amministrazione pubblica nei confronti del terzo avente diritto al pagamento, non circoscrive l’applicazione del fermo amministrativo ad una funzione meramente strumentale alla compensazione ex art. 1243 c.c., (che può essere disposta in giudizio anche nella ipotesi di credito non liquido ma “di facile e pronta liquidazione”, secondo quanto previsto dall’art. 1243 c.c., comma 2), ma la estende fino a ricomprendersi la “eventuale compensabilità” di un credito la cui stessa esistenza può essere attualmente incerta (in quanto disputata nell'”an” – cfr. Corte Cass. 1^ sez. 4.5.2004 n. 8417 -, come nel caso in cui venga contestata dai contribuente l’affermazione della esistenza degli stessi presupposti di imposta sui cui è fondato l’avviso di accertamento opposto), con ciò discostandosi nettamente dalla disciplina della compensazione in quanto detta misura cautelare “non esige, quale ulteriore requisito, che il diritto … (ndr della PA) … sia stato definitivamente accertato e resta di conseguenza adottabile anche in previsione di una compensazione eventuale e futura” (cfr. Corte Cass. 1^ sez. 24.1.2007 n. 1602; id. 1^ sez. 13.1.2011 n. 711), con la necessaria conseguenza per cui l’Amministrazione pubblica – che intenda avvalersi della sospensione del pagamento del proprio debito – qualora sia stata convenuta in giudizio dal terzo titolare di un credito liquido ed esigibile con domanda di condanna all’adempimento, “ove voglia conservare gli effetti prodotti dall’esercizio del suo potere cautelare, ha l’onere di chiedere l’accertamento e la liquidazione del suo credito, in funzione della dichiarazione di estinzione del proprio debito, così affidando alle regole del processo, davanti al giudice cui domanda ed eccezione sono state proposte, l’applicazione della disciplina sostanziale della compensazione, quale risultante dell’avvenuto esercizio del provvedimento di fermo” (cfr. Corte Cass. SU 21.5.2003 n. 7945).

L’adozione di tale misura cautelare – conservativa disposta nei confronti del soggetto fallito, risulta dunque incompatibile con il divieto della L. Fall., art. 51, in quanto volta a “prenotare” una frazione del patrimonio del fallito (idest il credito liquido ed esigibile vantato verso la PA), sottraendola alla massa destinata alla soddisfazione dei creditori concorsuali, in vista di una futura ed eventuale compensazione con un controcredito della PA non opponibile attualmente in compensazione in quanto neppure ancora definitivamente accertato.

Diversamente da quanto opinato dalla Agenzia delle Entrate la disposizione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, comma 3, (secondo cui, quando sia constatato nel relativo periodo di imposta un reato tributario la esecuzione dei rimborsi dovuti per eccedenza detraibile “è sospesa…fino alla definizione del relativo procedimento penale”) non fornisce alcun elemento utile a sostegno della tesi della legittimità della applicazione della misura cautelare – conservativa di cui al R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, nei confronti del soggetto fallito.

Il primo motivo è dunque, infondato.

4.2 Il secondo motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza.

La ricorrente estrapola un passaggio della motivazione della sentenza, concernente la ammissibilità del ricorso proposto dal Fallimento avverso il silenzio – rifiuto opposto dalla Amministrazione finanziaria alla istanza di rimborso, senza tuttavia individuare la correlata statuizione giuridica, ed la lacuna o l’incongruenza logica che renderebbe inidonea detta motivazione a supportare il “decisum”, impedendo in tal modo alla Corte di eseguire la verifica di concludenza del motivo.

Ed infatti la parte della motivazione censurata concerne l’esame di una questione pregiudiziale – verifica di ammissibilità del ricorso introduttivo – che i Giudici risolvono asserendo che il ricorso era stato ritualmente proposto dal contribuente dopo il decorso del termine di formazione del c.d. silenzio – rifiuto D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, comma 1, lett. g), e art. 21, comma 2, e che la successiva adozione del fermo amministrativo non poteva spiegare alcuna influenza “sulla sua efficacia…perchè intervenuta su una situazione già consolidata”, ovvero non potendo spiegare la misura cautelare effetti preclusivi sulla introduzione della lite – ormai perfezionatasi – e sulla procedibilità del giudizio tributario (la questione risolta dalla CTR in ordine alla ammissibilità del ricorso viene a chiarirsi con la lettura dei fatti processuali riportati in sentenza nello “svolgimento del processo” ove è fatto riferimento alla eccezione – proposta in primo grado dall’Ufficio – concernente la definitività del provvedimento di fermo amministrativo per omessa impugnazione nei termini, eccezione ritenuta “ininfluente” dalla Curatela “essendo l’oggetto principale del ricorso introduttivo rappresentato dal riconoscimento del diritto al rimborso”).

In ordine a tale statuizione pregiudiziale la ricorrente ha omesso del tutto di formulare una specifica contestazione, limitandosi a porre dei meri dubbi interpretativi relativi alla motivazione ma inconferenti rispetto alla questione pregiudiziale, risolta dalla CTR piemontese, della irrilevanza del fermo sulla ammissibilità del ricorso procedibilità del giudizio tributano, con ciò non assolvendo all’onere, sanzionato a pena di inammissibilità del motivo ai sensi dell’art. 366 c.p.c., di fornire “la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basa la decisione od il capo di essa censurato, ovvero la specificazione di illogicità o ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte e quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi” (cfr. Corte Cass. 3^ sez. 5.3.2007 n. 5066; id sez. lav. 23.5.2007 n. 12052).

4.3 Il terzo motivo è inammissibile per difetto del requisito di pertinenza rispetto alla “ratio decidendi” della sentenza impugnata (art. 366 c.p.c.).

La ricorrente “ipotizza” una ricostruzione del passaggio motivazionale della sentenza sopra indicato (paragr. 4.2) equivocandone il significato ed attribuendo alla espressione una portata semantica diversa da quella fatta palese dalle parole.

Come chiarito in precedenza la “influenza” del provvedimento di fermo sulla “situazione già consolidata” non concerne il rapporto di diritto sostanziale e la incontestabilità del diritto di credito al rimborso, ma si riferisce alla ritualità della introduzione del giudizio tributario mediante la impugnazione del “silenzio-rifiuto” formatosi sulla istanza di rimborso: i Giudici di appello hanno inteso affermare, infatti, che il comportamento di fatto, ritenuto dalla legge equipollente ad un atto tributario di diniego (avverso il quale è consentita la impugnazione giusta l’art. 19, comma 1, lett. g), nel termine di decadenza stabilito dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2), non può ritenersi implicitamente revocato dalla adozione del successivo provvedimento amministrativo di fermo che pertanto è inidoneo ad esplicare effetti preclusivi sulla procedibilità del giudizio avente ad oggetto la condanna al pagamento delle somme dovute a titolo di rimborso di imposta.

Le censure della ricorrente, sono infatti rivolte a delle mere ipotesi interpretative alternative (secondo la ricorrente la CTR avrebbe attribuito al decorso del termine di gg. 90 previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2, per la formazione del silenzio-rifiuto l’effetto del “consolidamento” della situazione giuridica sostanziale, ovvero quello di impedire l’esercizio del potere d autotutela della PA) desunte da alcune espressioni tratte dalla motivazione della sentenza impugnata – peraltro relative all’esame della questione pregiudiziale di ammissibilità del ricorso – e non corrispondono affatto alle argomentazioni logiche poste a sostegno della decisione fondate sulla preminenza della specialità della disciplina concorsuale (e della norma di divieto di cui alla L. Fall., art. 51) sulla specialità della disciplina amministrativa del provvedimento di fermo.

Ne consegue la inammissibilità del complesso motivo dedotto dalla ricorrente avuto riguardo al principio di diritto enunciato da questa Corte e che il Collegio intende ribadire secondo cui “la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata èassimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4, con conseguente inammissibilità – rilevabile anche d’ufficio – del ricorso stesso” (cfr. Corte Cass. sez. lav. 13.10.1995 n. 10695; id. 2^ sez. 9.10.1998 n. 9995; id. 1^ sez. 24.2.2004 n. 3612; id. 5^ sez. 3.8.2007 n. 17125 “La proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al “decisum” della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione, restando estranea al giudizio di cassazione qualsiasi doglianza che riguardi pronunzie diverse da quelle impugnate”).

4.4 Il quarto motivo è inammissibile in quanto la censura è rivolta ad una enunciazione della sentenza costituente un “obiter dictum” e come tale priva dei caratteri della statuizione (“regula juris” del rapporto sostanziale dedotto in giudizio) suscettibile di passaggio in giudicato.

Al riconoscimento del diritto del Fallimento di conseguire la prestazione di rimborso (attesa la certezza del credito) i Giudici di appello hanno fatto seguire la affermazione, riprodotta in dispositivo, secondo cui tale credito “deve essere rimborsato nel suo integrale ammontare o nel minore importo che dovesse risultare per effetto della compensazione L. Fall., ex art. 56, qualora il credito dell’Erario portato dai due avvisi di accertamento sia risultato già certo e definitivo a seguito di giudicato formatosi in esito negativo al ricorso avverso i due avvisi di accertamento” (cfr. sentenza appello).

Orbene, tenuto conto che nel corso del giudizio di merito la Amministrazione finanziaria non risulta avere proposto la eccezione propria di compensazione con i controcrediti di cui agli atti impositivi oggetto di accertamento, peraltro, in altri giudizi, rileva il Collegio che l’utilizzo nella motivazione e nel dispositivo della sentenza impugnata della congiunzione in funzione alternativa/esclusiva (“o”: aut…aut), nonchè della congiunzione introduttiva del periodo ipotetico (“qualora”), consente agevolmente di escludere che la CTR piemontese abbia inteso statuire sulla compensazione, difettando del tutto un accertamento della esistenza – neppure parziale ex art. 1243 c.c., comma 2 – dei controcrediti vantati dalla PA (come emerge inequivocamente dalla proposizione dubitativa – ipotetica, riprodotta anche nel dispositivo, in ordine all’effetto compensativo che potrà prodursi soltanto in seguito alla “eventuale” certezza e definitività dei crediti risultante all’esito dei giudizi pendenti avverso gli avvisi di accertamento).

La censura prospettata dalla ricorrente appare peraltro difficile comprensione, dolendosi l’Agenzia che nella sentenza impugnata “l’effetto compensativo pare subordinato, non genericamente all’esito dei giudizi sugli avvisi di accertamento, ma alla circostanza che alla data di emanazione della sentenza si fosse già formato un giudicato che confermasse gli avvisi di accertamento” (ricorso pag.

11).

Se da un lato, infatti, non è dubbio che il credito opposto in compensazione, se contestato, debba essere accertato giudizialmente, e dunque soltanto all’esito di tale giudizio – una volta divenuto incontestabile l’accertamento del credito – potrà essere pronunciata dal giudice la estinzione dei reciproci debiti e crediti per compensazione (correttamente, quindi, i Giudici di appello fanno riferimento ai fini della realizzazione dell’effetto compensativo all’esito dei giudizi aventi ad oggetto la impugnazione degli avvisi di accertamento concernenti i controcrediti opposti in compensazione dall’Erario); dall’altro la lettura della sentenza impugnata non legittima in alcun modo, stante il significato fatto palese dalle parole della motivazione e del dispositivo, l’attribuzione, all’enunciato in questione, del diverso significato, ipotizzato invece dalla ricorrente, secondo cui il giudicato di accertamento del credito opposto in compensazione dovrebbe precedere la pronuncia di condanna al pagamento delle somme dovute a titolo di rimborso.

Pertanto anche tale motivo difetta di autosufficienza in quanto non pertinente al “decisum”.

4.5 Il quinto motivo deve ritenersi inammissibile e, comunque, infondato.

La norma la cui violazione è denunciata dalla ricorrente (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, relativamente alla disposizione del comma quinto, nel testo vigente al tempo – 2003 – della notifica degli avvisi di accertamento e del fermo amministrativo, che dispone “Se successivamente al rimborso viene notificato avviso di rettifica o accertamento il contribuente, entro sessanta giorni, deve versare all’ufficio le somme che in base all’avviso stesso risultano indebitamente rimborsate, insieme con gli interessi del 5 per cento annuo dalla data del rimborso, a meno che non presti la garanzia prevista nel secondo comma fino a quando l’accertamento sia divenuto definitivo”) risulta incontestabilmente regolare una fattispecie astratta diversa da quella che ricorre nel caso di specie in cui alcuna somma è stata corrisposta dalla Amministrazione a titolo di rimborso Iva.

La ricorrente nello sviluppo argomentativo a supporto del motivo non chiarisce se la violazione di tale norma da parte dei Giudici territoriali sia dovuta ad omessa applicazione diretta (in quanto – in ipotesi – “implicitamente comprensiva” anche del potere di autotutela preventiva della PA che sarebbe pertanto legittimata anche a sospendere, in via cautelativa, il pagamento del rimborso) od analogica della stessa, ovvero ad erronea applicazione dei criteri ermeneutici che presiedono alla interpretazione delle norme di legge (ma allora la norma violata avrebbe dovuto essere indicata nell’art. 12 preleggi), venendo in questione il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, come mero parametro di riferimento per la interpretazione logico – sistematica della norma di cui al R.D. n. 2440 del 1923, art. 69.

Nel primo caso il motivo è inammissibile in quanto la ricorrente viene ad introdurre, per la prima volta in sede di legittimità, una diversa questione giuridica, sostituendo alla tesi principale sostenuta nei gradi di merito (concernente la applicabilità del fermo amministrativo R.D. n. 2440 del 1923, ex art. 69, per sospendere il pagamento di un debito -liquido ed esigibile – verso il fallito) una nuova eccezione, volta a paralizzare la domanda di condanna proposta dal Fallimento, e che non si risolve esclusivamente in una diversa qualificazione giuridica della fattispecie ma comporta la allegazione di nuovi fatti costitutivi (l’accertamento fiscale – portante il controcredito – deve, infatti, riguardare la stessa imposta – Iva – e lo stesso periodo di imposta: cfr. D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, nel testo modificato dalla L. n. 342 del 2000, art. 52) il cui accertamento è sottratto al Giudice di legittimità.

Il motivo va quindi incontro alla pronuncia di inammissibilità, per difetto di autosufficienza, alla stregua del principio costantemente affermato da questa Corte secondo cui qualora una determinata questione giuridica, che implichi accertamenti di fatto non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della cesura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia affatto, trascrivendone il contenuto o le parti essenziali di esso, onde dare modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione Stessa (giurisprudenza consolidata:

cfr. Corte Cass. 5^ sez. 2.4.2004 n. 6542; id. 3^ sez. 10.5.2005 n. 9765; id. 3^ sez. 12.7.2005 n. 14599; id. sez. lav. 11.1.2006 n. 230;

id. 3^ sez. 20.10.2006 n. 22540; id. 3^ sez. 27.5.2010 n. 12912).

Il motivo è altresì infondato in quanto, da un lato, la tesi secondo cui il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, includerebbe anche l’esercizio da parte della Amministrazione finanziaria dei poteri di autotutela preventiva non trova alcun riscontro testuale (“ubi lex voluit, dixit”) ed anzi viene smentito dalla espressa disciplina del “fermo amministrativo” contenuta nel R.D. n. 244 del 1923, art. 69, che, in quanto “avente lo scopo di assicurare la realizzazione dei fini cui è rivolto l’iter amministrativo procedimentale, necessariamente complesso e disciplinato da norme inderogabili e preordinate d abiurare la regolarità contabile e la realizzazione delle entrate dello Stato” (cfr. Corte cost. sent.

23.4.1972 n. 67), trova applicazione per qualsiasi credito della Amministrazione pubblica e dunque anche per crediti di natura tributaria.

Inoltre la tesi sostenuta dalla ricorrente (anche in relazione alla interpretazione sistematica delle norme in questione) è inidonea a scalfire il presupposto giuridico sul quale è fondata la decisione impugnata, che conclude per l’inapplicabilità nella fattispecie del fermo amministrativo trattandosi di istituto speciale del diritto amministrativo avente, tuttavia, carattere recessivo rispetto alla specialità della disciplina normativa delle procedure concorsuali (atteso il divieto di azioni individuali esecutive e cautelari disposto dalla L. Fall., art. 51, a garanzia della “par condicio creditorum”), avendo la ricorrente omesso del tutto di indicare le ragioni in diritto per cui la interpretazione sistematica del R.D. n. 240 del 1923, art. 69, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, comma 5, (nel testo vigente ratione temporis) consentirebbe di superare, in difetto di norme espressamente derogatorie del principio della “par condicio creditorum”, la preminenza accordata alla specialità delle norme e dei principi informatori della disciplina fallimentare (cfr.

Corte Cass. 1^ sez. 3.9.1996 n. 8053; id. 1^ sez. 13.1.2011 n. 711).

p.5. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e l’Agenzia delle Entrate condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio che si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE – rigetta il ricorso e condanna la Agenzia delle Entrate alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 12.000,00 per onorari, Euro 100,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 21 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2011

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