Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29556 del 14/11/2019

Cassazione civile sez. II, 14/11/2019, (ud. 29/11/2018, dep. 14/11/2019), n.29556

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18254/2014 proposto da:

L.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO

9, presso lo studio dell’avvocato EMILIANO AMATO, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato WLADIMIRO MANZIONE;

– ricorrente –

contro

NUTE PARTECIPAZIONI SPA, già GRUPPO LA PERLA SPA, in persona del

legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA VITTORIO VENETO 7, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO

MAGNANTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

FEDERICO DELLA VERITA’;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 09/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/11/2018 dal Consigliere Dott. RAFFAELE SABATO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per l’accoglimento del primo e

ottavo motivo e per il rigetto dei restanti motivi del ricorso;

udito l’Avvocato Emiliano Amato difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato Claudio Magnanti difensore del resistente che si

riporta agli atti depositati.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione notificato in data 26.02.1998 il Gruppo La Perla s.p.a. (ora Nute Partecipazioni s.p.a.) ha convenuto L.R. dinanzi al pretore di Bologna, chiedendone la condanna al pagamento di Lire 9.725.908 a titolo di saldo attivo di crediti e debiti inerenti a rapporto di agenzia di commercio.

2. A sua volta L.R., riassumendo la causa precedentemente avviata innanzi al giudice del lavoro di Salerno, ha convenuto la società dinanzi al tribunale di Bologna chiedendone la condanna al pagamento di Lire 1.065.471.107, come somma dovuta per provvigioni stornate sulla merce consegnata alla clientela, per indennità per attività di incasso esercitata negli anni 1991-1996, per provvigioni derivanti dagli ordini procurati alla preponente e per indennità di fine rapporto. Ha proposto, in via subordinata, azione di condanna per ingiustificato arricchimento ai sensi dell’art. 2041 c.c.

3. Con sentenza depositata in data 24.02.2010 il tribunale di Bologna, previa riunione delle due cause, ha condannato la società a versare al signor L. la somma di Euro 39.759,00, accertando la sussistenza di un credito in favore di quest’ultimo pari a Euro 44.706,00, compensandolo con la somma di Euro 4.491,93 riconosciuta in favore della società preponente siccome non contestata. Ha ritenuto prescritte le provvigioni antecedenti al secondo trimestre del 1993. Ha rigettato le ulteriori domande dell’agente, osservando come il contratto di agenzia non contenesse alcuna clausola che prevedesse il diritto dell’agente di percepire un’indennità aggiuntiva per l’attività di riscossione dei crediti; inoltre ha rilevato che, ai fini della spettanza di provvigioni sugli ordini inevasi, l’agente avrebbe dovuto provare che la mancata accettazione o esecuzione derivassero da comportamenti ingiustificati della società preponente; ha disatteso la domanda di condanna a titolo di ingiustificato arricchimento rilevando come non fosse stata data prova nè dell’effettivo arricchimento della società, nè tantomeno della diminuzione patrimoniale dell’agente stesso.

4. Avverso la predetta sentenza ha proposto appello L.R. muovendo plurime doglianze.

4.1 Circa il pagamento dell’indennità di incasso, ha censurato l’interpretazione del termine “insoluto” come operata dal primo giudice, dal momento che, nella prassi commerciale in Campania, il termine era – in tesi – utilizzato per differenziare i clienti insolventi da quelli – assai numerosi – semplicemente in ritardo nei pagamenti. In tal senso, ha sostenuto come la stessa società fosse edotta di tale generalizzata situazione di ritardo nei pagamenti, dal momento che aveva aumentato del 5% il prezzo di listino della merce: i ritardi erano dunque consentiti per ragioni commerciali e non si trattava di insolvenze.

4.2. In merito al c.d. “mancato consegnato” ha dedotto l’esistenza di una clausola contrattuale nulla, in quanto sottoposta a condizione sospensiva meramente potestativa ai sensi dell’art. 1355 c.c., che condizionava l’insorgere del diritto alla provvigione all’emissione di una fattura da parte della proponente, laddove la regolamentazione collettiva del rapporto di agenzia prevedeva una presunzione di accettazione per gli ordini trasmessi dall’agente non rifiutati dal preponente entro sessanta giorni (art. 6, commi 9 e 10 dell’accordo economico collettivo – AEC – del 16.11.1988). Ha altresì lamentato come il tribunale avesse erroneamente ritenuto che l’onere della prova delle ragioni della mancata accettazione gravasse sull’agente, e non sulla società preponente; quest’ultima, non informando l’agente circa l’impossibilità di procedere all’evasione degli ordini non accettati, aveva poi violato gli obblighi di buona fede e correttezza contrattuale.

4.3. L’appellante ha poi contestato che il giudice di prime cure aveva rilevato la prescrizione delle provvigioni dovute in epoca antecedente al 1993 nonostante non fosse stata sollevata la relativa eccezione da parte della preponente, nonchè che aveva omesso il riconoscimento del maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c. Ha infine criticato la decisione nella parte relativa al riconoscimento in favore della convenuta della somma di Euro 4.491,93 sulla base della ritenuta mancata contestazione della pretesa in giudizio.

5. La Nute Partecipazioni s.p.a. ha resistito nel giudizio di secondo grado, spiegando appello incidentale in ordine alla parte della sentenza relativa alle spese di lite, che erano state poste interamente a suo carico, oltre che in ordine all’erroneità della condanna al pagamento delle provvigioni sui resi.

6. Con sentenza depositata in data 02.07.2014 la corte d’appello di Bologna ha rigettato l’appello principale; ha accolto in parte quello incidentale, dichiarando compensate tra le parti le spese del primo grado di giudizio e condannando la parte appellante principale alla rifusione delle spese di secondo grado.

6.1. In primo luogo la corte d’appello non ha ritenuto condivisibile l’interpretazione data dall’appellante al concetto di “insoluto”, nel senso di “insolvente”, ritenendo essa oltremodo forzata; ha affermato come il rifiuto della appellata dell’esecuzione delle proposte dell’agente non dipendesse da mero arbitrio, ma da ragioni di tutela del proprio interesse economico.

6.2. In merito poi all’attività di incasso delle fatture ha rilevato come fosse onere dell’agente dare la prova del conferimento di specifico incarico da parte della società preponente, non considerando sufficiente il richiamo dell’appellante a un’attività di rendicontazione sui singoli incassi.

6.3. In relazione alla domanda di ingiustificato arricchimento ha affermato che non poteva ravvisarsi alcun vantaggio per la casa mandante, dal momento che il mancato pagamento dei crediti alle scadenze comportava comunque un pregiudizio che la maggiorazione del 5% sui listini dei prezzi era volta a compensare. Su questo punto ha altresì rilevato come non fosse data prova dell’avvenuto impoverimento dell’agente.

6.4. Per quanto concerne, inoltre, la pretesa di pagamento delle provvigioni per il mancato consegnato, ha ritenuto dirimente la circostanza che non fossero prodotti in giudizio gli ordini inviati dall’agente alla società preponente e rimasti inevasi, con conseguente mancato assolvimento dell’onere probatorio. Ha osservato sul punto come non fossero condivisibili le argomentazioni dell’appellante circa la sussistenza di una presunzione di accettazione, dal momento che nel rapporto di agenzia il preponente non è obbligato a concludere ed eseguire tutti i contratti proposti dall’agente, spettando a quest’ultimo solo le provvigioni per gli affari accettati ed eseguiti, ovvero rimasti ineseguiti per causa non imputabile. Nè sussisteva una presunzione di accettazione degli ordini da parte del preponente, dal momento che l’art. 6 dell’AEC allora vigente stabiliva l’operatività della presunzione solo nel caso in cui non fosse stabilito un termine per l’accettazione o il rifiuto nei singoli contratti (termine che, nel caso di specie, era espressamente previsto dall’art. 1 del contratto di agenzia). Ha poi ravvisato la non vessatorietà della clausola, in quanto non comportava alcuna limitazione di responsabilità del preponente, limitandosi a regolare le modalità di esercizio di un diritto.

6.5. Ha in via ulteriore dichiarato l’infondatezza della censura di parte appellante in merito alla mancata eccezione di prescrizione del diritto al pagamento delle provvigioni nel giudizio di primo grado, dal momento che la società aveva sin dal momento della sua costituzione in giudizio sollevato tale eccezione.

6.6. Ha ritenuto inammissibile la domanda dell’appellante di condanna al risarcimento del maggior danno subito ai sensi dell’art. 1224 c.c., in quanto domanda nuova, proposta per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni nel giudizio di prime cure.

6.7. Ha ritenuto infine che il tribunale avesse fatto corretta applicazione del disposto dell’art. 116 c.p.c., avendo rilevato l’assenza di contestazioni da parte dell’agente in merito alla somma spettante alla preponente.

7. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso L.R. sulla base di otto motivi illustrati da memoria. La società Nute Partecipazioni S.p.A. ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115,116,167 e 189 c.p.c., nonchè la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per aver la corte d’appello – trattando dello star del credere – errato nel ritenere applicabile il principio di non contestazione, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., sulla base del comportamento dell’odierno ricorrente nel giudizio di primo grado, laddove quest’ultimo avrebbe invece eccepito l’inesistenza del credito, contestando la mancata prova da parte della società circa i fatti costitutivi a fondamento della pretesa creditoria.

Si denuncia inoltre la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) per non aver la corte d’appello riformato la statuizione resa in primo grado inerente alla rivalutazione monetaria del 40%, concessa alla società in assenza di specifica domanda, nonchè la nullità della sentenza per mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., n. 4), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) (sic), per aver la corte locale argomentato in modo contraddittorio le ragioni di rigetto della censura dell’appellante in relazione alla somma riconosciuta in favore della società preponente.

Il motivo, che in effetti propone due separate tematiche, una delle quali anche argomentata in riferimento a mancanza di motivazione, è nel suo complesso inammissibile.

Quanto al primo aspetto, deve rilevarsi che – nel respingere il motivo d’appello – il collegio bolognese ha correttamente richiamato l’orientamento espresso da questa corte di legittimità secondo cui l’art. 167 c.p.c., già prima della formale introduzione del principio di non contestazione nel codice di rito con la novellazione dell’art. 115, imponeva al convenuto di prendere posizione sui fatti costitutivi del diritto preteso dalla controparte, non essendo sufficiente una generica contestazione della domanda e tenuto conto che il signor L. – anche il relazione all’art. 116 c.p.c. non aveva contestato le “decurtazioni attuate”.

Tale pronuncia è in linea con la giurisprudenza che ha affermato che il convenuto, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., fosse tenuto, anche anteriormente alla formale introduzione del principio di “non contestazione” a seguito della modifica dell’art. 115 cit. codice, a prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti o dall’attore a fondamento della propria domanda, i quali debbono ritenersi ammessi, senza necessità di prova, ove la parte, nella comparsa di costituzione e risposta, si sia limitata a negare genericamente la “sussistenza dei presupposti di legge” per l’accoglimento della domanda attorea, senza elevare alcuna contestazione chiara e specifica (così ad es. Cass. n. 19896 del 2015).

Nel caso di specie, risulta dalle indicazioni contenute in ricorso (p. 16 e p. 20) come parte ricorrente abbia lamentato in primo grado la mera “inesistenza” del credito. Rettamente dunque, in relazione alla mancanza di specificità di tale deduzione, sia il tribunale sia la corte d’appello hanno ritenuto sussistere la non contestazione, in particolare notando il tribunale la non contestazione della “relativa espressa pattuizione inserita nel contratto individuale” e notando la corte d’appello che le “decurtazioni attuate” non fossero state oggetto di contestazione specifica da parte dell’agente. Del resto, l’accertamento della sussistenza di una (pur generica) contestazione ovvero d’una non contestazione, quale contenuto della posizione processuale, rientrando nel quadro dell’interpretazione degli atti della parte, è funzione del giudice di merito (Cass. n. 10182 del 03/05/2007); ciò da cui discende l’inammissibilità della censura, siccome tesa, appunto, a sottoporre alla corte di legittimità la rivalutazione di un apprezzamento di merito. E’ appena il caso di rilevare, in tale contesto, che – essendo stata la contestazione desunta dall’aspecificità della posizione dell’odierno ricorrente – non era impedito alla corte d’appello modificare il quantum accertato.

In merito poi alle doglianze circa la rivalutazione monetaria, asseritamente riconosciuta – e in tesi senza motivazione – benchè non richiesta, si evidenzia come anche le stesse siano prive di specificità, con inammissibilità della doglianza sotto tale ulteriore angolo visuale. Il ricorrente (che sostiene a p. 26 del ricorso di aver “censurato” in appello la statuizione di primo grado) avrebbe dovuto in primo luogo trascrivere in ricorso la formula contenuta nell’atto di appello (a fronte, peraltro, della posizione della controricorrente – p. 7 del controricorso – secondo cui non vi sarebbe stata impugnazione). In secondo luogo, poi, avrebbero dovuto essere quantomeno svolte le deduzioni in tema di omessa pronuncia di cui alla nota pronuncia di Cass. sez. U n. 17931 del 24/07/2013.

Infine, non sussiste alcuna mancanza assoluta di motivazione della sentenza impugnata.

2. Con il secondo motivo si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oltrechè l’omessa valutazione della condotta processuale della società preponente nel giudizio di primo grado ai sensi dell’art. 116 c.p.c., determinante secondo il ricorrente una disparità di trattamento con conseguente violazione dell’art. 1748 c.p.c.; ciò ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) lamentandosi il non aver la corte d’appello valutato ai fini della decisione il comportamento processuale e sostanziale delle parti.

Il ricorrente evidenzia come nel corso del giudizio di primo grado la società avesse esercitato un ostruzionismo nei suoi confronti, non effettuando la produzione documentale utile e rallentando così il normale andamento del processo. Tale comportamento non sarebbe stato tuttavia utilizzato come fonte di prova nè dal tribunale, nè dalla corte d’appello, la quale non avrebbe considerato che era onere del preponente, e non dell’agente, depositare i documenti necessari ai fini della verifica dei crediti provvigionali. Si lamenta inoltre la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4) per aver la corte omesso di motivare sul comportamento processuale e sostanziale delle parti.

Anche tale motivo, in tutte le censure di cui si compone, è inammissibile.

Si rileva, in primo luogo, come la valutazione del comportamento processuale delle parti ai fini probatori rientri nell’ambito del principio del libero convincimento, ai sensi degli artt. 115 e 116 c.p.c., operando interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità (si richiamano, sul punto, Cass. n. 23940 del 2017, n. 20673 del 2012, n. 26088 del 2011, n. 18128 del 2006), ciò da cui discende l’inammissibilità del mezzo.

Inoltre, in materia di ripartizione dell’onere della prova dei fatti costitutivi posti a fondamento del diritto dell’agente alle provvigioni, ai sensi dell’art. 1748 c.c., è pacifico l’orientamento di questa corte di legittimità secondo cui è onere di quest’ultimo provare che gli affari da lui promossi sono andati a buon fine o che il mancato pagamento sia dovuto a fatto imputabile al preponente (v., ex multis, Cass. 25023 del 2013). In relazione a ciò, la doglianza – in quanto incentrata su un presunto comportamento ostruzionistico – non è pertinente rispetto alla fattispecie, nella quale la parte ricorrente avrebbe dovuto fornire i fatti costitutivi a fondamento della propria pretesa creditoria.

Sul punto la decisione impugnata è dunque corretta (oltre che priva di lacune motivazionali), laddove il collegio d’appello ha considerato come dirimente la circostanza che non fossero prodotti in giudizio gli ordini inviati dall’agente alla società preponente e rimasti inevasi, argomento questo rispetto al quale pure il mezzo non è correlato.

3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 1188 c.c., comma 2, artt. 1742,1744,1748,1749,2041,2225,2702,2727,2729,2733 c.c., dell’art. 4 AEC 09.06.1988, dell’art. 5 AEC 25.07.1989, nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (sic), avendo la corte d’appello anche omesso l’esame di fatti decisivi per il giudizio. Si lamentano inoltre la violazione e falsa applicazione degli artt. 2041,1188,1742,1744,1748,1749,2225,2702,2727,2729 e 2733 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c. per non aver la corte d’appello riconosciuto al signor L. quanto domandato a titolo di indebito arricchimento, nonchè la violazione degli artt. 2041,1188,1742,1744,1748,1749,2225,2702,2727,2729 e 2733 c.c., nonchè degli artt. 62,195,115 e 116 c.p.c. per non aver la corte locale considerato, ai fini del riconoscimento delle attività di incasso di somme, il costante riproporsi degli eventi di “insolvenza” riguardanti la quasi totalità della clientela della zona, ritenendo invece di assimilare a essi il concetto di “insoluto”.

Anche tale complesso motivo è inammissibile. Esso, infatti, in tutte le sue componenti, sotto la veste di censure per violazione di legge e omesso esame, è volto a reintrodurre nel presente giudizio di legittimità argomentazioni di merito, insindacabili in questa sede.

Trattasi, in particolare, di censure mosse dal ricorrente su tematiche di merito già prese in considerazione con ampia motivazione dal giudice di secondo grado:

– circa l’interpretazione del termine contrattuale “insoluto”, la corte d’appello ha ampiamente motivato le ragioni per le quali, nonostante la prassi caratterizzata dalla tolleranza del ritardo nel pagamento dei corrispettivi, sarebbe da ritenersi forzata l’identificazione di detto termine con il concetto di “insolvenza”;

– circa la presunta errata valutazione del materiale probatorio, avendo particolare riguardo alle dichiarazioni dei testi e alle risultanze di c.t.u., si tratta di apprezzamenti sovrani del giudice di merito, non rivedibili in questa sede, in particolare non essendo emerso – sul punto in questione, come negli altri – alcun effettivo “omesso esame” di fatti storici;

– circa, poi, l’attività di recupero crediti da parte dell’agente, il giudice del gravame ha considerato la stessa come prestazione accessoria del rapporto contrattuale di agenzia, in linea con l’orientamento di questa corte di legittimità secondo cui la facoltà dell’agente di riscuotere crediti per conto della preponente deve risultare da espressa previsione scritta, in caso contrario nulla essendo dovuto al medesimo a titolo di incasso (v. Cass. n. 6024 del 2011); in tal senso, non risultando dal contratto di agenzia un esplicito richiamo in merito, il ricorso inammissibilmente non si fa carico di un’adeguata critica alla sentenza impugnata in parte qua;

– circa, ancora, il mancato riconoscimento dell’indennizzo per indebito arricchimento, anche in questo caso il ricorso non si fa carico di fornire argomenti idonei a superare l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità – cui si è adeguata la corte d’appello – secondo cui, ai fini dell’esperibilità dell’azione di indebito arricchimento in materia di contratto di agenzia, occorre che l’agente fornisca la prova dell’arricchimento effettivo del preponente (cfr. Cass. n. 2356 del 1994); inoltre, se parte ricorrente lamenta che la maggiorazione del prezzo di listino abbia determinato in capo alla società preponente un ingiustificato arricchimento, dal quale deriverebbe la fondatezza della domanda ex art. 2041 c.c., le valutazioni svolte dal collegio d’appello (laddove quest’ultimo ha evidenziato come la suddetta maggiorazione – peraltro del 5% – fosse giustificata proprio dal ritardo dei pagamenti da parte dei clienti, operando come criterio compensativo del pregiudizio subito dalla preponente) sono incensurabili in cassazione, attenendo all’apprezzamento di merito; il ricorrente, comunque, non si onera di dimostrare – come non ha dimostrato in appello – in che modo la maggiorazione del prezzo avesse determinato un effettivo arricchimento in capo alla società.

4. Con il quarto motivo si lamenta la violazione degli artt. 1748,1749,1175,1375,1341,1355,2697,2909 c.c., degli artt. 115,210,62 e 195c.p.c., dell’art. 6 AEC del 25.07.1989 nonchè l’omessa motivazione della sentenza su un punto essenziale ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 4, per aver la corte d’appello rigettato la richiesta di indennità per “resi” e per “mancato consegnato”, non considerando che la mancata comunicazione del rifiuto, entro sessanta giorni dal ricevimento dell’ordine, equivarrebbe ad accettazione della proposta dell’agente, a norma dell’art. 6 dell’AEC del 1989 per cui, in mancanza del rispetto del suddetto termine, il contratto dovrebbe ritenersi concluso. Si lamenta altresì il vizio di motivazione della sentenza in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per aver la corte d’appello omesso l’esame di fatti decisivi per il giudizio, circa la mancata produzione da parte dell’agente degli ordini inviati alla società mandante e rimasti inevasi. Anche tale motivo è inammissibile, in quanto esso pure ripropone al giudice di legittimità, sotto la veste di censure di violazione di legge e omesso esame, la rivalutazione di accertamenti in fatto di spettanza esclusiva del giudice del merito.

L’inammissibilità si correla altresì al difetto di pertinenza del mezzo, che non si fa carico di criticare idoneamente l’argomento evidenziato correttamente dal collegio d’appello, secondo il quale l’art. 6 dell’AEC allora vigente stabiliva l’operatività della presunzione solo nella circostanza in cui non fosse stabilito un termine per l’accettazione o il rifiuto nei singoli contratti stipulati; nel caso di specie il termine, secondo l’apprezzamento dei giudici di merito, era espressamente previsto dall’art. 1 del contratto di agenzia.

Nè peraltro può trovare considerazione in sede di legittimità quanto asserito in materia di presunta violazione del dovere di correttezza e di buona fede da parte della società, dal momento che la valutazione del comportamento contrattuale delle parti – al pari di altri profili fattuali sollevati nell’ambito del motivo di ricorso – integra un aspetto di merito, insuscettibile di riesame in sede di legittimità.

5. Con il quinto motivo si lamenta la nullità della sentenza per vizio in procedendo, oltrechè la violazione dell’art. 112 c.p.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4), per aver la corte d’appello omesso di pronunciarsi in ordine alla domanda subordinata di condanna della società preponente al pagamento di somme, a titolo di indennizzo, per concorso spese per i contratti stornati dalla stessa.

Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, in quanto il ricorrente avrebbe dovuto dapprima dimostrare di aver proposto la domanda in primo grado, in caso contrario non potendo la stessa essere proposta nel giudizio di gravame, e non sussistendo l’obbligo di pronuncia da parte della corte d’appello (sul punto, v. Cass. n. 24445 del 2010, n. 5435 del 2010 e n. 12412 del 2006).

6. Con il sesto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2934,2935,2938,2948 e 2697 c.c. nonchè degli artt. 112,167 e 189 c.p.c. per aver la corte d’appello accolto, al pari del tribunale, l’eccezione di prescrizione breve in merito alle provvigioni dovute all’agente per i “resi”.

Il motivo è inammissibile in quanto generico e non autosufficiente.

Si richiama che il ricorrente, riportando nel motivo di ricorso le conclusioni rassegnate dalla controparte non contenenti eccezioni delle specie, asserisce che la comparsa di risposta nulla esprimesse in argomento, e che comunque l’eccezione si dovrebbe reputare abbandonata in quanto non riproposta nelle conclusioni; contraddittoriamente in altre parti del ricorso il ricorrente discorre di genericità dell’eccezione quanto al tipo di prescrizione dedotta e, infine, di mancata sua coltivazione (ciò che fa pensare al sussistere di una originaria eccezione). Al contrario, la controricorrente afferma essere stata l’eccezione ritualmente formulata in fase introduttiva in primo grado. Il collegio d’appello, da parte sua, ha rilevato che l’eccezione di prescrizione del diritto al pagamento delle provvigioni dell’agente era stata sollevata dalla società preponente sin dal momento della sua costituzione in giudizio in primo grado.

In tale situazione, questa corte non è in condizione di valutare, sulla base del motivo, la questione e, se sussistenti, gli eventuali limiti dell’eccezione.

Stanti i dubbi di genericità dell’eccezione, il ricorrente avrebbe dovuto trascrivere la comparsa di costituzione nella parte narrativa relativa alla questione. Quanto al rilievo delle conclusioni, l’eccezione – come emerge dalla stessa giurisprudenza richiamata dal ricorrente – non poteva certamente dirsi abbandonata, dal momento che, ai fini della presunzione dell’abbandono, è necessario che esso possa desumersi inequivocabilmente, alla luce della valutazione della condotta processuale della parte.

Solo per completezza, dunque, può notarsi che, sin dal primo grado di giudizio, la società aveva eccepito l’intervenuta prescrizione quinquennale per tutte le pretese anteriori al quinquennio dalla notifica del ricorso innanzi al giudice del lavoro di Salerno (v. comparsa di costituzione e risposta in primo grado).

7. Con il settimo motivo si lamenta la violazione degli artt. 287,339 e 342 c.p.c. per aver la corte d’appello erroneamente attivato un procedimento per correzione di errore materiale, realizzando invece una modifica sostanziale della decisione di primo grado.

In particolare, i due errori corretti sono relativi a un’indicazione inesatta del numero del libretto di deposito (n. 410729 rispetto al n. 4107029) e in un’inversione numerica del dato economico conclusivo contenuto in sentenza relativo all’importo liquidato (pari ad Euro 26.500,00 e non a Euro 62.500,00).

Il motivo è infondato.

Appare evidente nel caso di specie che gli errori la cui correzione è, censurata dal ricorrente integrassero meri refusi, come dimostra la lettura della motivazione, che non offre dati in contrario.

8. Con l’ottavo motivo si lamenta la violazione dell’art. 1751 c.c., nonchè la violazione dell’AEC 25/07/1989, per aver la corte d’appello riconosciuto l’indennità di scioglimento del rapporto, ma non l’indennità di clientela dovuta all’agente.

In particolare, la parte ricorrente sottolinea quest’ultima indennità sia dovuta non solamente nell’ipotesi in cui la cessazione del rapporto avvenga su iniziativa della casa mandante, ma altresì in ipotesi di scioglimento consensuale del vincolo contrattuale, come avvenuto nel caso di specie.

Il motivo è fondato.

Si rileva che, alla luce dell’art. 11 dell’AEC del 25/07/1989, l’indennità suppletiva di clientela non è dovuta solo se “il contratto si scioglie per un fatto imputabile all’agente o rappresentante”. Tale ipotesi non ricorre nel caso di specie dal momento che mai risulta addotto in causa che la cessazione del contratto sia derivata da iniziativa della società preponente per fatto imputabile all’agente, sostenendosi al contrario che il contratto si fosse risolto consensualmente tra le parti.

Per i ai fini dell’esclusione dell’indennità suppletiva, la società preponente avrebbe dovuto fornire la prova della sussistenza del fatto imputabile all’agente (di cui, secondo l’art. 11, avrebbe dovuto dare motivazione all’agente nella lettera di revoca), dovendo in caso contrario il giudice procedere al riconoscimento dell’indennità.

9. Ne deriva che, dovendosi cassare la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, disattesi gli altri, non potendosi pronunciare nel merito in quanto gli accertamenti ai fini della spettanza concreta dell’indennità suppletiva di clientela presuppongono l’espletamento di attività estranee alla sede di legittimità, deve disporsi il rinvio innanzi alla corte d’appello di Bologna in diversa sezione, che si designa altresì per il governo delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la corte accoglie l’ottavo motivo di ricorso, disattesi gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla corte d’appello di Bologna, in diversa sezione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 29 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2019

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