Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29537 del 24/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 24/12/2020, (ud. 06/10/2020, dep. 24/12/2020), n.29537

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. MELE Maria Elena – rel. Consigliere –

Dott. TADDEI Margherita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16437-2016 proposto da:

M.P., con domicilio eletto in ROMA PIAZZA CAVOUR presso

la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’Avvocato GIANLUCA MARTINO NARGISO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, AMMINISTRAZIONE CENTRALE, in persona del

Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

E contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, MILANO UFFICIO (OMISSIS) MILANO, EQUITALIA SUD

SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 49/2016 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 12/01/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/10/2020 dal Consigliere Dott. MARIA ELENA MELE.

 

Fatto

RITENUTO

Che:

M.P. impugnava avanti alla Commissione tributaria provinciale di Milano la cartella di pagamento notificatagli a mezzo posta deducendo, tra l’altro, la mancanza della preventiva tempestiva notifica dell’avviso di liquidazione presupposto. Contestava, altresì, la nullità della cartella per violazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, difettando di adeguata motivazione e mancando la sottoscrizione del ruolo da parte del titolare dell’Ufficio o di un suo delegato; contestava infine la legittima costituzionale del D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17, comma 1 e la violazione dell’art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.

La CTP rigettava il ricorso.

La Commissione tributaria regionale di Milano, con sentenza n. 49/2016, pronunciata il 12.11.2015 e depositata in data 12.1.2016, confermava la decisione di prime cure rigettando l’impugnazione proposta dal contribuente.

Avverso tale sentenza il M. propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

Con il primo motivo, si denuncia la nullità della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 22 e 32, violazione dell’art. 24 Cost. in quanto, nonostante che il contribuente avesse contestato l’effettiva conoscenza dell’avviso di liquidazione, disconoscendo la firma apposta sull’avviso di ricevimento della raccomandata con cui l’Agenzia delle entrate aveva notificato tale atto, e benchè l’Ufficio avesse prodotto l’originale di detto avviso solo in appello, avrebbe trattenuto la causa in decisione senza dare la possibilità di proporre querela di falso avverso detto avviso.

Con il secondo motivo, si denuncia la nullità della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa un atto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Il giudice d’appello non avrebbe valutato la certificazione del datore di lavoro del M. che attestava la sua presenza sul posto di lavoro sito in (OMISSIS) proprio nel giorno in cui la raccomandata contenente l’avviso di liquidazione era stata consegnata a Castrovillari (CS) e sottoscritta a suo nome.

Con il terzo motivo, si denuncia la nullità della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione/falsa applicazione di norme di diritto in riferimento al D.M. n. 321 del 1999 previsto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, nonchè in riferimento alla L. n. 241 del 1990, art. 3, e all’art. 24 Cost., non recando la cartella di pagamento impugnata alcun riferimento alle norme di legge asseritamente violate, alle modalità di calcolo della maggior imposta dovuto, degli interessi e dell’aggio.

Con il quarto motivo, si denuncia la nullità della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione/falsa applicazione del D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17, in relazione al D.Lgs. n. 159 del 2015, art. 9, nonchè in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. e all’art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, avendo la sentenza impugnata erroneamente ritenuto irrilevante e manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17, per essere la commisurazione degli interessi lesiva del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e del principio di buon andamento della Pubblica amministrazione, nonchè insussistente la violazione dell’art. 107 del Trattato.

Con il quinto motivo, il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 3 in riferimento alla L. n. 247 del 2012 e al D.M. n. 55 del 2014 in quanto la misura delle spese liquidate in favore dell’Amministrazione finanziaria sarebbe stata determinata in maniera illogica ed immotivata tenuto conto sia della circostanza che l’Ufficio si è difeso mediante un proprio funzionario, sia della limitata attività difensiva svolta.

Il primo e il secondo motivo possono essere trattati congiuntamente. Essi sono infondati.

Secondo il costante orientamento di questa Corte, in tema di notifica a mezzo posta, l’avviso di ricevimento, il quale è parte integrante della relazione di notifica, ha natura di atto pubblico che essendo munito della fede privilegiata di cui all’art. 2700 c.c. in ordine alle dichiarazioni delle parti e agli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza – costituisce, ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3, il solo documento idoneo a provare sia l’intervenuta consegna del plico con la relativa data, sia l’identità della persona alla quale è stata eseguita e che ha sottoscritto l’atto (salvo che, ai sensi del successivo comma 4, la data di consegna non risulti apposta o sia comunque incerta). “Ne consegue che la parte, qualora intenda dimostrare la non veridicità delle risultanze dell’avviso di ricevimento, deve proporre querela di falso – anche se l’immutazione del vero non sia ascrivibile a dolo ma soltanto ad imperizia, leggerezza o a negligenza del pubblico ufficiale – a meno che dallo stesso contesto dell’atto non risulti in modo evidente l’esistenza di un mero errore materiale compiuto da questi nella redazione del documento il quale ricorre nel caso di apposizione di data inesistente (come 30 febbraio) o anteriore a quella della formazione dell’atto notificato o non ancora maturata. Solo in tali casi il giudice può disattendere le risultanze apparenti dell’atto di notifica mentre, in ogni altro caso, ove occorra un giudizio di compatibilità tra le date apposte, tale valutazione deve avvenire nell’ambito dell’apposito giudizio per querela di falso” (Cass., Sez. 6-2, n. 8082 del 2019; Rv. 653384-01; Sez. 2, n. 8500 del 2005; Sez. 2, n. 8032 del 2004; conf. Sez. 1, n. 24852 del 2006; Sez. 6-5, n. 29022 del 2017, Rv. 646433-01).

Nella specie, il contribuente ha contestato che la firma apposta in calce all’avviso di ricevimento della raccomandata con cui è stato notificato l’atto di liquidazione fosse stata da lui vergata. Egli non ha invece disconosciuto la conformità della fotocopia prodotta dall’Ufficio rispetto all’originale dell’avviso di ricevimento con la conseguenza che trova applicazione l’art. 2719 c.c. a norma del quale le copie fotografiche delle scritture che non siano espressamente disconosciute hanno la stessa efficacia delle autentiche.

Dovendo riconoscersi alla copia efficacia probatoria pari a quella dell’originale, la mancata produzione dell’originale del documento non impediva nè esonerava il ricorrente dall’onere di proporre la querela, atteso che questa avrebbe ben potuto essere proposta avverso la fotocopia non disconosciuta, salvo “il grado di probatorietà che gli accertamenti in tal caso possono raggiungere” (Cass., Sez. 1, n. 5350 del 1996, Rv. 498033-01) e salva la possibilità di acquisire nel relativo giudizio l’originale, ove ritenuto necessario in relazione alla natura del falso dedotto (Cass., Sez. 3, n. 32219 del 2018, Rv. 651950-01).

Correttamente, dunque, la CTR che ha affermato che il M. non poteva limitarsi alla mera contestazione della autografia della firma apposta sull’avviso, ma avrebbe dovuto fin dalla prima udienza del giudizio di primo grado proporre querela di falso avanti al giudice competente il quale, ove necessario, avrebbe potuto ordinare la produzione dell’originale dell’atto.

In tale ottica, era altresì irrilevante per il giudice di appello valutare la documentazione prodotta dal contribuente in tale giudizio. Infatti, dovendo la verifica di autenticità della sottoscrizione costituire oggetto del giudizio di querela falso, al giudice tributario non competeva alcuna valutazione in proposito, trattandosi di accertamento pregiudiziale riservato ad altra giurisdizione, e di cui egli non poteva conoscere neppure incidenter tantum, dovendo soltanto verificare la pertinenza della eventuale presentazione della querela in relazione al documento impugnato e la sua rilevanza ai fini della decisione, al fine di sospendere il giudizio ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 39, fino al passaggio in giudicato della decisione in ordine alla querela stessa (o fino a quando non si sia altrimenti definito il relativo giudizio) (Cass., Sez. 5-6, n. 28671 del 2017, Rv. 646429 – 01).

Il terzo motivo è preliminarmente inammissibile per difetto di autosufficienza mancando la trascrizione dell’impugnata cartella nel corpo del ricorso (che non è stata neppure prodotta in questa sede), sicchè non è possibile per questa Corte verificare la corrispondenza del contenuto dell’atto rispetto a quanto asserito dal contribuente. Ciò comporta il radicale impedimento di ogni attività nomofilattica, la quale presuppone, appunto, la certa conoscenza del tenore della cartella in discorso (Cass., Sez. 5, n. 28570 del 2019, Rv. 655730-01; n. 16010 del 2015, Rv. 636268-01; v. anche Cass., Sez. 3, 09/04/2013, n. 8569, Rv. 625839-01, sull’adempimento dell’onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e Cass., Sez. 5, n. 14784 del 2015, Rv. 636120-01).

Tale principio, al quale il Collegio intende dare continuità, è stato affermato anche con specifico riferimento all’ipotesi in cui il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione tanto di un avviso di accertamento, quanto della cartella di pagamento, trattandosi di atti aventi natura sostanziale e non processuale (Cass., Sez. 5, n. 15234 del 2001, Rv. 550767-01; n. 28570 del 2019, cit.): in questi casi è, infatti, necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione dell’atto impugnato, al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio in proposito esclusivamente in base al ricorso medesimo (Cass., Sez. 5, n. 16147 del 2017, Rv. 644703-01; Cass., Sez. 5, n. 2928 del 2015, Rv. 634343-01).

Il quarto motivo è infondato.

Questa Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17, comma 3, come modificato dal D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 3, lett. a), convertito dalla L. n. 286 del 2006, per violazione degli artt. 3,25,53 e 97 Cost. (Cass. n. 3524 del 2018, Rv. 647033-01).

Deve, infatti, escludersi la natura tributaria e tantomeno sanzionatoria dell’aggio, avendo questo, piuttosto, natura retributiva dal momento che costituisce il compenso spettante al concessionario esattore per l’attività svolta su incarico e mandato dell’ente impositore (Cass. n. 714 del 2020, Rv. 657652-01; n. 24588 del 2019, Rv. 655558-01). Proprio tale natura consente ritenere non pertinenti i parametri invocati dal ricorrente, spettando alla discrezionalità del legislatore la fissazione dei criteri di quantificazione del compenso e non essendo irragionevole che una parte del compenso dell’organizzazione esattoriale sia comunque posta a carico del contribuente il quale pure abbia osservato il termine di pagamento della cartella (Cass. n. 1311 del 2018, Rv. 646917-03; n. 5154 del 2017).

Insussistente è, altresì, la dedotta violazione dell’art. 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, non integrando l’aggio un’ipotesi di aiuto di Stato dal momento che l’attività di riscossione delle imposte per conto dello Stato posta in essere dal concessionario non può essere ritenuta attività d’impresa nel senso tecnico del termine, e considerato che egli agisce nel rispetto di regole dettate a monte dal legislatore la cui applicazione non può mai trascendere in condotte anticoncorrenziali ad opera di chi al rispetto di tali regole è chiamato ad adeguarsi (Cass. n. 11138 del 2019, Rv. 653684-01).

Il quinto motivo è inammissibile.

Si osserva preliminarmente che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, comma 2 bis, nella formulazione ratione temporis applicabile, prevede la liquidazione delle spese a favore dell’ufficio tributario, se assistito da funzionari dell’amministrazione, e a favore dell’Ente locale, se assistito da propri dipendenti, a cui si applica la tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, con la riduzione del venti per cento degli onorari di avvocato. Lo specifico riferimento alle spese processuali ed alla riduzione percentuale dei soli onorari di avvocato conferma il diritto dell’Ufficio alla rifusione sia dei costi affrontati, sia dei compensi spettanti per l’assistenza tecnica fornita in giudizio dai propri dipendenti, che sono legittimati a svolgere attività difensiva nel processo, ai sensi dell’art. 15 cit. (Cass., n. 23055 del 2019; n. 24675 del 2011, Rv. 620612-01).

Inoltre, a seguito delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 156 del 2015, art. 9, comma 1, lett. f), n. 2), che ha sostituito gli originari commi 2 e 2-bis con gli attuali commi da 2 a 2-octies, a decorrere dal 1 gennaio 2016, ai sensi di quanto disposto dal medesimo decreto, art. 12, comma 1, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, comma 2-sexies, stabilisce che “Nella liquidazione delle spese a favore dell’ente impositore, dell’agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell’albo di cui al D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 53, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell’importo complessivo ivi previsto”.

Ciò premesso in ordine alla spettanza delle spese all’Agenzia delle entrate che sia assistita da propri dipendenti, si osserva che il Collegio intende dare continuità all’orientamento espresso da questa Corte secondo il quale, in tema di liquidazione delle spese giudiziali ai sensi del D.M. n. 140 del 2012, “la disciplina secondo cui i parametri specifici per la determinazione del compenso sono, “di regola”, quelli di cui alla allegata tabella A, la quale contiene tre importi pari, rispettivamente, ai valori minimi, medi e massimi liquidabili, con possibilità per il giudice di diminuire o aumentare “ulteriormente” il compenso in considerazione delle circostanze concrete, va intesa nel senso che l’esercizio del potere discrezionale del giudice contenuto tra i valori minimi e massimi non è soggetto a sindacato in sede di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice medesimo decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili sia le ragioni dello scostamento dalla “forcella” di tariffa, sia le ragioni che ne giustifichino la misura” (Cass. Sez. L. n. 12537 del 2019, Rv. 65376001)

Nella specie il ricorrente non ha dedotto che il giudice d’appello si sia discostato dai valori minimi e massimi di cui alla tabella suddetta, limitandosi genericamente a dedurre la “illogicità” della quantificazione delle spese rispetto all’attività difensiva svolta dall’Agenzia delle entrate, sicchè la valutazione effettuata dalla CTR non è soggetta al sindacato di legittimità.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del doppio grado del giudizio di merito possono essere compensate, mentre le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida, in complessivi Euro 2.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello ove dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera, il 6 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 dicembre 2020

 

 

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