Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29526 del 24/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 24/12/2020, (ud. 30/09/2020, dep. 24/12/2020), n.29526

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – rel. Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29,037-2015 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

D.A.G., elettivamente domiciliato in ROMA VI- FRANCESCO

DE SANCTIS 4, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE TENCHINI, che

lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati FABIO FRANCO,

GIUSEPPE FERRARA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2013/2014 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE,

depositata il 20/10/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/09/2020 dal Consigliere Dott. ANNA MARIA FASANO.

 

Fatto

RITENUTO

che:

D.A.G., prima di procedere nel 2006 alla cessione di alcuni terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria siti nel Comune di (OMISSIS), rivalutava tre volte il valore di acquisto degli stessi ai fini della determinazione della plusvalenza, ai sensi e per gli effetti della L. n. 448 del 2001, art. 7, e successive modificazioni. Un prima volta, previa redazione di perizia asseverata in data (OMISSIS), dalla quale risultava rideterminato in Euro 2.774.312,28 il costo di acquisto degli immobili, provvedendo al versamento di Euro 36.991.00 in data 16.12.2002 e di Euro 38.100,00 in data 16.12.2003.

Una seconda volta, in data (OMISSIS), ai sensi del D.L. n. 355 del 2003, art. 6 bis, con nuova perizia asseverata, con cui l’immobile veniva valutato al (OMISSIS) in Euro 7.551.000,00 previo versamento (in data 30.9.2004) di Euro 100.600,00 a titolo di imposta sostitutiva. Ed infine, in data (OMISSIS), ai sensi del D.L. n. 203 del 2005, art. 11 quaterdecies, con rivalutazione pari ad Euro 8.500.000,00, provvedendo a versare la prima rata dell’imposta di Euro 113,333,34.

In data 19.10.2004, il contribuente chiedeva il rimborso dei versamenti di Euro 36.991,00 del 16.12.2002 e di Euro 30.100,00 del 16.12.2003, riguardanti la prima rivalutazione; mentre in data 25.7.2006 (dopo la cessione) presentava istanza di rimborso relativamente alla somma di Euro 100.600,00 versata nel 2004. Quest’ultima somma veniva rimborsata. L’Ufficio, con provvedimento del 3.9.2009, rigettava la domanda di rimborso delle due rate dell’imposta sostitutiva, versate a seguito della prima rivalutazione, motivando testualmente che: “L’importo dovuto a titolo di imposta sostitutiva per perfezionare la perizia è pari, nel caso di versamento rateale (come nel suo caso) a Euro 100.680,00. Invece, il pagamento da lei effettuato risulta di Euro 100.600,00. In sostanza, non si è realizzata la previsione normativa indicata dal D.L. 24 dicembre 2003, n. 355, art. 6 bis, convertito con modifiche dalla L. n. 47 del 2004. Lo scrivente è al corrente della presenza di una terza rivalutazione (perfezionata il (OMISSIS)) che correttamente sostituisce la prima perizia asseverata il (OMISSIS). Ma solo a partire dalla citata data, aveva maturato il diritto a richiedere il rimborso dei pagamenti precedentemente effettuati, nel rispetto, però, dei limiti temporali previsti dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38. E nella istanza di rimborso presentata il 25.7.2006 si è limitato a chiedere la restituzione del pagamento del 30.9.2004. Ciò premesso, l’istanza in argomento è respinta perchè la perizia del (OMISSIS) non è stata correttamente sostituita da quella asseverata il (OMISSIS).” La Commissione Tributaria Provinciale di Massa Carrara, con sentenza n. 339/01/11, accoglieva il ricorso. L’Ufficio proponeva appello, che veniva respinto dalla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con sentenza n. 2013/9/2014, in quanto si riconosceva l’avveramento delle prescrizioni contenute nella L. n. 448 del 2002, art. 7, nei termini riaperti dal D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, art. 2, condividendo le argomentazioni espresse dal giudice di primo grado, il quale aveva evidenziato come il fatto che il pagamento di tale rata fosse avvenuto per un importo di poco inferiore a quello dovuto (in particolare Euro 100.60,00 anzichè 100.640,00) non potesse assumere alcun rilievo ai fini del perfezionamento della rivalutazione, atteso che “a fronte di tale pagamento, un volta rilevato il mancato versamento a titolo di soli Euro 40,00, l’A.F. avrebbe dovuto attivarsi per il recupero di detta somma, unitamente a interessi e sanzioni, e non disconoscere un pagamento avvenuto (per la quasi totalità del dovuto) nei termini di legge”. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, affidandolo a due motivi. Il contribuente si è costituito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

l. Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione, predicata da parte controricorrente, in ragione della mancata sottoscrizione, in violazione del disposto dell’art. 365 c.p.c., del D.Lgs. n. 82 del 2005, artt. 21 e 24. Si riferisce che l’Avvocatura di Stato ha provveduto alla notificazione del ricorso per cassazione, a mezzo posta elettronica certificata, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 3 bis, e della L. n. 69 del 2009, art. 55, ma si contesta che la copia del file in formato pdf recante il ricorso per cassazione con l’acclusa relata non consentirebbe di trame che il predetto file sia stato sottoscritto con firma digitale. Il ricorso per cassazione, notificato per p.e.c. al contribuente, non recherebbe l’apposizione di alcuna firma digitale da parte dell’Avv. Maria Pia Camassa, pur indicato come soggetto cui il predetto ricorso è attribuibile.

1.1. L’eccezione è infondata in ragione dell’indirizzo espresso dalle SS.UU. di questa Corte, con sentenza n. 22438 del 2018, secondo cui: “In tema di giudizio per cassazione, in caso di ricorso predisposto in originale in forma di documento informatico e notificato in via telematica, l’atto nativo digitale notificato deve essere ritualmente sottoscritto con firma digitale, potendo la mancata sottoscrizione determinare la nullità dell’atto stesso, fatta salva la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa. In applicazione del principio del raggiungimento dello scopo”. Nella fattispecie non vi è dubbio che il principio del raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c.) possa essere richiamato al fine di sanare l’eccepita nullità, tenuto conto della costituzione rituale del controricorrente e dell’articolate argomentazioni difensive dallo stesso rappresentate in atti (che presuppongono la paternità certa dell’impugnazione).

2. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 2, lett. e), e art. 24, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto la sentenza apparirebbe viziata nella parte in cui la Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto che la memoria, depositata dal contribuente nel giudizio di primo grado, in data 8.4.2011, non conteneva motivi aggiunti di ricorso. In proposito, nel proprio atto di appello, l’Ufficio aveva eccepito la nullità della sentenza di primo grado per la parte in cui l’Agenzia risultava soccombente, per violazione dell’art. 112 c.p.c., in combinato disposto con il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24, in quanto fondata sull’accoglimento di motivi aggiunti inammissibilmente proposti. Secondo l’Ufficio sarebbe, inoltre, evidente anche la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 2, lett. e), che, nel prescrivere l’indicazione dei motivi del ricorso, pone a carico della parte un onere di contestazione specifica dell’operato dell’Amministrazione, che non può risolversi in un critica generica di eventuali cause di illegittimità. La sentenza gravata apparirebbe avere reiterato error in procedendo già compiuto dalla Commissione Tributaria Provinciale, determinando un indebito ampliamento della materia del contendere, in violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 18 e 24.

2.1. Il motivo è infondato.

a) Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, recita testualmente: “Il ricorso deve contenere l’indicazione: …d) dell’atto impugnato e dell’oggetto della domanda; e) dei motivi…”. L’oggetto del giudizio è il “contesto che attiene al giudizio”, che deve essere predeterminato. La delimitazione dell’oggetto della domanda, nel giudizio tributarlo, dipende dal contenuto degli atti impositivi emessi dai competenti uffici dell’amministrazione finanziaria, ciò in quanto il giudizio tributario, secondo l’interpretazione offerta dalla Corte costituzionale, con la nota sentenza n. 63 del 1982, e da questa Corte con sentenza SS.UU. n. 8 del 1993, è un giudizio sul rapporto e non di impugnazione annullamento: correlativamente la pronuncia del giudice, che provvede sulla medesima, consiste fondamentalmente nell’accertamento della sussistenza dell’obbligazione tributaria e, in via consequenziale, nella pronuncia sulla legittimità degli atti posti in essere dall’Amministrazione finanziaria, per provvedere alla riscossione coattiva dell’imposta.

Tale precisazione rileva in quanto, nell’ipotesi in cui si proponga un’istanza di rimborso, l’oggetto della domanda è rappresentato dall’accertamento giudiziale circa l’esistenza del credito vantato dal contribuente e, quindi, circa la sussistenza dei presupposti per la condanna dell’Amministrazione finanziaria al pagamento dello stesso. Pertanto, l’oggetto del processo non può considerarsi l’atto, bensì il rapporto d’imposta correlato. Orbene, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24, comma 2, l’integrazione dei motivi di ricorso è consentita soltanto in relazione alla contestazione di documenti depositati dalla controparte e fino ad allora non conosciuti. Non è consentito, pertanto, al contribuente di prospettare con l’atto di appello, o come nella fattispecie, nel giudizio di primo grado con memorie D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 32, motivi non proposti nell’atto introduttivo, ovvero nuove ragioni impilanti vantazioni di fatti e situazioni precedentemente non dedotti (Cass. n. 11265 del 2003, con riferimento al giudizio di secondo grado).

Tuttavia, secondo l’indirizzo, più volte espresso da questa Corte: “si ha mutatio libelli quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio, oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente sa un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga un nuovo tema di indagine; si ha invece emendatio quando si incida su causa petendi, sicchè risulti modificata soltanto l’interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere” (Cass. n. 7524 del 2005).

Si configura, in sostanza, una domanda nuova allorchè il contribuente, nell’atto di appello, introduce una causa petendi diversa fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado (Cass. n. 4335 del 2002).

Questa Corte, in più occasioni, ha precisato che il principio generale dell’esclusione dello ius novorum nel giudizio di appello comporta la preclusione del mutamento in secondo grado degli elementi materiali del fatto costitutivo della pretesa e non della diversa qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio in relazione a quelli già acquisiti al processo (Cass., n. 06347 del 2002; Cass. n. 14863 del 2003). Si ha domanda nuova quando in appello si muta il fatto costitutivo del diritto controverso, mentre una diversa qualificazione della domanda o un diverso argomento a sostegno non conferiscono il carattere di novità alla domanda stessa.

Il principio sopra enunciato può essere esteso anche alla questione, su cui oggi si controverte, circa l’ammissibilità dei motivi aggiunti proposti con memorie D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 32. A tate riguardo, infatti, è stato chiarito che: “Nel processo tributario, caratterizzato da una domanda impugnatone dell’atto del fisco per vizi formali o sostanziali, l’oggetto del giudizio è circoscritto dai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione che il contribuente deve dedurre specificamente nel ricorso introduttivo di primo grado che può modificare o integrare solo con motivi aggiunti, consentiti, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ex art. 24, nella limitata e peculiare ipotesi di “deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione”, mentre la possibilità di depositare documenti, fino a venti giorni prima della data di trattazione, e memorie illustrative sino a dieci giorni prima, ha lo scopo di illustrale ed argomentare i motivi di ricorso, senza modificare il thema decidendum” (Cass. n. 23326 del 2013; Cass. n. 15051 del 2014; Cass. n. 9637 del 2017).

b) Nella fattispecie non è contestato che il contribuente abbia proposto ricorso avverso il diniego dell’istanza di rimborso assumendone l’illegittimità e, quindi, concludendo con la richiesta della restituzione delle somme versate e che, con memorie D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 32, abbia precisato, a fronte delle ragioni del diniego espresse dall’Amministrazione finanziaria, che il carente versamento (di Euro 40,00 come indicato nella sentenza impugnata, o di Euro 80,00 come precisato in ricorso) sarebbe stato frutto solo di un errore materiale, non producendo l’inefficacia della rivalutazione.

Ne consegue che tali deduzioni difensive non configurano una domanda nuova, con indebito ampliamento del thema decidendum, atteso che, con tali memorie, non sono stati introdotti motivi ulteriori e diversi rispetto a quelli illustrati con il ricorso proposto in primo grado. Le prospettazioni del contribuente sono state semplici argomentazioni difensive dirette a contestare la fondatezza delle eccezioni proposte dall’Agenzia delle entrate. Le eventuali preclusioni non riguardano, infatti, i fatti e le argomentazioni, posti a fondamento della domanda, che possono costituire oggetto di accertamento, di esame e di valutazione da parte del giudice di primo grado (v. con riferimento all’appello: Cass. n. 5895 del 2002).

3. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 448 del 2001, art. 7, e successive modificazioni ed integrazioni, nonchè del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. L’Ufficio ricorrente deduce che al momento della richiesta di rimborso, ossia alla data del 19.10.2004, mancava un nuovo valore dei terreni, regolarmente affrancato, in sostituzione di quello perfezionato nel dicembre 2002, e pertanto correttamente veniva negato il rimborso. Tale presupposto mancava in quanto il tentativo di rideterminare in Euro 7.551,000,00 il valore di acquisto dei terreni non era andato a buon fine, poichè il versamento della prima rata risultava inferiore rispetto a quanto previsto per legge.

La L. n. 448 del 2001, art. 7, in combinato disposto con il D.L. n. 282 del 2002, art. 2, così come modificato dal D.L. n. 335 del 2003, art. 6 bis, consentiva di assumere, per i terreni edificabili e con destinazione agricola posseduti ad una certa data, in luogo del costo o valore di acquisto, il valore determinato a tale data sulla base di perizia giurata di stima “a condizione che il predetto valore sia assoggettato ad imposta sostitutiva della imposte sui redditi, secondo quanto disposto nei commi da 2 a 6”.

Secondo l’Ufficio, appare pacifico e non contestato che nella fattispecie, alla data di presentazione dell’istanza rimborso (19.10.2004) mancava un nuovo valore dei terreni, regolarmente affrancato, in sostituzione di quello perfezionato nel dicembre 2002, e pertanto correttamente era stato negato il rimborso. Tale presupposto mancava in quanto il tentativo di rideterminare in Euro 7.551.000,00 il valore di acquisto dei terreni non era andato a buon fine, poichè il versamento della prima rata risultava inferiore rispetto a quanto previsto dalla legge, non essendosi perfezionata la fattispecie che consentiva di assumere il valore stimato quale valore di acquisto e, conseguentemente, le somme versate sulla base della precedente rivalutazione del 2002 non potevano neppure considerarsi quale duplicazione di versamento. In conclusione, alla data del 19.10.2004, i versamenti, eseguiti dal contribuente sulla base della rivalutazione effettuata con perizia asseverata in data 14.12.2002 non potevano essere restituiti, poichè veicolati all’unico valore periziato a quel tempo regolarmente affrancato.

3.1. Il motivo va rigettato, per i principi di eseguito enunciati.

a) Non è contestato, ma è desumibile anche dalla lettura del provvedimento di rigetto dell’istanza di rimborso (il cui contenuto è riportato in ricorso, in ossequio al principio di autosufficienza), che il contribuente, con istanza del 19.10.2004, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, ha chiesto la restituzione dell’imposta sostitutiva versata per la rivalutazione dei terreni effettuata con perizia del 14.12.2002 (valore stimato Euro 2.774.312,28) anno di imposta 2002, per Euro 36.911,00 (versata in data 16.12.2002) e per Euro 38.100,73 (versata in data 16.12.2003).

L’Ufficio ha rigettato la richiesta di rimborso assumendo che l’importo versato per la rivalutazione del 24.9.2004 (la seconda rivalutazione) non era congruo, in quanto il contribuente anzicchè versare la somma di Euro 100.680,00, come determinata sul valore periziato di Euro 7.551.000,00, aveva versato la somma di Euro 100.600,00, sicchè la rivalutazione effettuata il 14.12.2002 non era stata sostituita dalla seconda rivalutazione del 24.9.2004 – che non si era realizzata secondo la previsione normativa indicata dal D.L. n. 355 del 2003, art. 6 bis – ma dalla terza rivalutazione perfezionata il 27.6.2006. Il contribuente, come si è detto, prima di procedere alla cessione nel 2006 aveva rivalutato più volte il loro valore di acquisto, da utilizzare ai fini della determinazione della plusvalenza, ai sensi della L. n. 448 del 2001, art. 7.

In base a tale norma, il nuovo valore del terreno veniva determinato attraverso una perizia giurata di stima ed era riconosciuto, ai fini fiscali, mediante il pagamento di una imposta sostitutiva dell’IRPEF pari al 4% del valore dell’area oggetto di rivalutazione.

b) La L. n. 448 del 2001, art. 7, è stato oggetto di numerose proroghe e riapertura di termini, sicchè la rivalutazione del valore dei terreni ha potuto interessare anche aree già oggetto di precedente rivalutazione, mediante la predisposizione di una nuova perizia giurata di stima del terreno soggetto alla seconda rideterminazione del suo costo, e mediante il calcolo ed il versamento dell’imposta sostitutiva sull’intero valore del terreno periziato, secondo le indicazioni espresse dall’Agenzia delle entrate con Circolare n. 27 del 2003.

Il contribuente interessato dalle due rivalutazioni non poteva compensare la nuova imposta sostitutiva con quella versata con la prima rivalutazione (oggi nella vigenza del D.L. 13 maggio 2011, n. 70, art. 7, si può effettuare la compensazione tra la nuova e la precedente imposta), sicchè avendo effettuato per lo stesso terreno e per la stessa imposta sostitutiva un versamento doppio, poteva chiedere il rimborso delle somme versate, D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38 dell’imposta sostitutiva versata attraverso apposita istanza.

E’ noto a questo Collegio l’indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di imposta sostitutiva da plusvalenza derivante dalla compravendita di terreni, ai sensi della L. n. 448 del 2001, art. 7, occorre l’integrale versamento di un importo corrispondente al valore di perizia fatta redigere dal contribuente (Cass., n. 10695 del 2018).

Tuttavia, nella fattispecie, è evidente l’esiguità della differenza tra l’importo dovuto e quello effettivamente pagato dal contribuente (Euro 80,00 come precisato in ricorso o Euro 40,00 secondo quando indicato nella sentenza impugnata): differenza che l’Amministrazione era comunque tenuta a segnalare, in base ai principi di buona fede e affidamento che sottendono al dialogo tra Fisco e contribuente, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 10. Si legge nella parte in fatto della sentenza impugnata che il contribuente aveva giustificato il differente versamento, assumendo che l’errore di computo era riconducibile alla diversa base di calcolo dell’imposta sostitutiva non essendo stato considerato oltre al valore di perizia anche il costo della perizia stessa (Euro 7.548.000 più Euro 3000 per 4%).

Va rilevato, invero, che il contribuente, in ragione del decorso del tempo (due anni) e del comportamento meramente passivo dell’Amministrazione finanziaria ha, in buona fede, ritenuto che la rivalutazione del 2004 fosse idonea a sostituire la precedente asseverata con perizia del 2002. Questa Corte, con sentenza n. 17576 del 2002, pronunciandosi relativamente alla portata applicativa del principio della “tutela dell’affidamento” e della “buona fede”, pur omettendo qualsiasi considerazione circa l’efficacia delle disposizioni dello Statuto dei diritti del contribuente sotto il profilo costituzionale delle fonti del diritto, ne afferma, sostanzialmente, una “valenza superiore” nella legislazione tributaria, riconoscendo ai principi suddetti una “funzione di orientamento ermeneutico e applicativo vincolante nell’interpretazione del diritto”.

Si è chiarito che: “In tema di legittimo affidamento del contribuente di fronte all’azione dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi dello Statuto del contribuente, art. 10, commi 1 e 2, costituisce situazione tutelabile quella caratterizzata: a) da un’apparente legittimità e coerenza dell’attività dell’Amministrazione finanziaria, in senso favorevole al contribuente; b) dalla buona fede del contribuente, rilevabile dalla sua condotta, in quanto connotata dall’assenza di qualsivoglia violazione del dovere di correttezza gravante sul medesimo; e) dall’eventuale esistenza di circostanze specifiche e rilevanti, idonee a indicare la sussistenza dei due presupposti che precedono.”(Cass. n. 537 del 2015).

In applicazione dei principi di leale collaborazione e buona fede, tutelati dalla L. n. 212 del 2000, art. 10, nella fattispecie, l’esigua differenza di importo e il comportamento omissivo dell’Ufficio ha ingenerato l’affidamento incolpevole del contribuente sulla correttezza del proprio operato.

c) Pertanto, nessuna censura può essere espressa nei confronti della sentenza impugnata, tenuto conto che il giudice di appello ha condiviso le motivazioni della sentenza di primo grado, riconoscendo l’avveramento delle prescrizioni contenuto nella L. n. 448 del 2001, art. 7, nei termini riaperti dal D.L. n. 282 del 2002, art. 2, in quanto l’Amministrazione, finanziaria avrebbe dovuto attivarsi, una volta verificato il mancato integrale versamento, per il recupero della somma di Euro 40,00 unitamente ad interessi e sanzioni (v. parte in fatto della sentenza impugnata).

4. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte soccombente al rimborso delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 7.000,00 per compensi, oltre spese forfettarie e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 30 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 dicembre 2020

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