Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29523 del 24/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 24/12/2020, (ud. 24/09/2020, dep. 24/12/2020), n.29523

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1187/2014 R.G. proposto da:

la società Teatro e Musica s.r.l., in persona del legale

rappresentante pro tempore, corrente in (OMISSIS), con gli avv.i

Renzo Pinos, e Daniele Ciuti, con domicilio eletto presso lo studio

del secondo in Roma, via Giuseppe Pisanelli n. 2;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, ed ivi domiciliata in via dei Portoghesi, n.

12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per la

Lombardia – Milano n. 100/14/2013, pronunciata il 10 ottobre 2013 e

depositata il 18 ottobre 2013, non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 settembre

2020 dal Cons. Marcello M. Fracanzani.

 

Fatto

RILEVATO

1. La società ricorrente era attinta, in data 27 ottobre 2011, da un avviso di accertamento di maggiori imposte a titolo di IRES, IRAP e IVA, oltre ad interessi e sanzioni. Segnatamente, l’avviso trovava il suo fondamento su due tipologie di presunzioni: a) da un lato l’interposizione fittizia della società Primula immobiliare s.r.l. ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, giacchè i veri proprietari erano ritenuti i soci – persone fisiche sigg.i M.U., M.G. ed M.E., così da rendere la società solo “formalmente” unipersonale, ma di fatto una società “familiare”; b) dall’altro l’avviso di accertamento trovava il suo fondamento su una rotazione di magazzino talmente bassa (0,12) da essere ritenuta inverosimile per un’attività avente ad oggetto la somministrazione di bevande ai clienti nonchè su un rincaro sul costo del venduto pari al 3763% e, quindi, inverosimile. L’ufficio procedeva pertanto ad un accertamento induttivo, con cui veniva determinato il reddito in Euro 351.447, pari alla differenza tra ricavi e costi.

La società impugnava pertanto l’avviso di accertamento lamentandone la nullità per violazione del citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, sotto molteplici profili, quali la sua inapplicabilità in ipotesi di interposizione reale ovvero per assenza di presunzioni gravi, precise e concordanti. Veniva poi censurato il mancato assolvimento dell’onere della prova da parte dell’Ufficio, oltre all’errore di determinazione e di calcolo. Si costituiva l’Ufficio, contestando la fondatezza delle censure svolte. La CTP respingeva il ricorso evidenziando come fosse onere del contribuente fornire la prova contraria rispetto agli elementi addotti dall’Ufficio, e ciò anche con riguardo ai contestati errori di calcolo che, per vero, concretavano proprio le presunzioni poste alla base dell’accertamento.

La società interponeva così appello rinnovando i motivi di ricorso svolti in primo grado, cui replicava l’Amministrazione finanziaria richiamando parimenti le difese già svolte avanti la CTP. Il Giudice d’appello respingeva il gravame per quattro ordini di motivi. In primo luogo i primi tre motivi di ricorso erano ritenuti inconferenti rispetto all’atto impugnato, avente ad oggetto la ricostruzione induttiva del reddito della società e non dei soci a fronte dell’omessa dichiarazione nell’anno d’imposta contestato. In secondo luogo, non sussisterebbe alcuna violazione della disciplina dettata in tema di onere della prova: difettando a monte la dichiarazione dei redditi, l’Ufficio può fare ricorso a qualunque tipo di presunzione, anche supersemplice, che comporta l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente. In terzo luogo non sussisterebbe nemmeno il dedotto errore di calcolo, mancando a monte la dichiarazione dei redditi ed avendo, per contro, i verificatori accertato sia una rotazione di magazzino eccessivamente bassa e con un indice pari a 0,12 a fronte di un’attività avente ad oggetto la somministrazione di bevande ai clienti, sia un rincaro sul costo del venduto pari al 3763% e come tale inverosimile. Con il quarto motivo respingeva poi la censura svolta in ordine alle applicate sanzioni.

Ricorre per cassazione il contribuente con cinque motivi di doglianza, cui replica l’Avvocatura con tempestivo controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

2. Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente invoca la nullità della sentenza impugnata per non avere i Giudici sospeso il presente giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c., nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 35, in attesa della definizione di quello relativo agli avvisi di accertamento nei confronti dei soci in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

In buona sostanza la società lamenta che la CTR avrebbe dovuto sospendere il giudizio avente ad oggetto l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società. Quest’ultima, invero, sarebbe stata qualificata come società a ristretta base azionaria: donde la necessità di una trattazione congiunta in ragione del litisconsorzio necessario. Tuttavia, non essendo possibile la trattazione congiunta ammessa per le sole società di persone, la CTR avrebbe dovuto sospendere il giudizio secondo il paradigma della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c.: la determinazione del reddito della società non poteva invero prescindere nè dall’accertamento della sussistenza della ristretta base azionaria, nè dall’accertamento dell’interposizione fittizia dei soci. Di contro, l’Ufficio aveva rettificato anche le dichiarazioni dei redditi dei soci (in luogo della società Primula Immobiliare s.r.l.) e proprio detta rettifica avrebbe concretato la base per la determinazione dei redditi della società. Era dunque essenziale la definizione del giudizio promosso dai soci perchè l’annullamento degli avvisi emessi nei loro confronti avrebbe comportato l’annullamento dell’avviso qui avversato, quanto meno nella parte relativa alla presunzione sulla distribuzione sugli utili ai soci.

Il motivo è infondato.

Premesso che il riconoscimento sulla natura “familiare” della società è stato formulato direttamente dall’Ufficio, giova richiamare l’orientamento di questa Corte secondo cui in caso di pendenza separata di procedimenti relativi all’accertamento del maggior reddito contestato ad una società di capitali e di quello di partecipazione conseguentemente contestato al singolo socio, è quest’ultimo giudizio a dover essere sospeso, ai sensi del combinato disposto del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 1, e dell’art. 295 c.p.c., in attesa del passaggio in giudicato della sentenza emessa nei confronti della società. Infatti, l’accertamento tributario nei confronti della società costituisce un indispensabile antecedente logico – giuridico di quello nei confronti dei soci, in virtù dell’unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano, e non ricorrendo, com’è per le società di persone, un’ipotesi di litisconsorzio necessario (v., Cass., V., n. 1867/2012; n. 23323/2014). Nel caso in commento, invece, la ricorrente formula il motivo di ricorso a parti invertite, pretendendo che sia il giudizio relativo alla società ad essere sospeso in attesa della definizione dei giudizi promossi dai soci. Il motivo è quindi infondato.

3. Con il secondo motivo la società ricorrente deduce l’inesistenza o la nullità della sentenza per inidoneità al raggiungimento dello scopo, dovuta al difetto del requisito essenziale di forma – contenuto della motivazione, con riferimento all’assunto per cui “la sussistenza di presunzioni è idonea ad invertire in ogni caso l’onere della prova anche a prescindere dal giudizio sull’idoneità delle stesse a provare il fatto controverso” per violazione dell’art. 156 c.p.c., comma 2, dell’art. 132c.p.c., comma 2, n. 4, dell’art. 118 disp. att. c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

La ricorrente, in particolare, censura la sentenza nella parte motiva perchè non avrebbe illustrato nè le ragioni per le quali dovrebbe dirsi raggiunta la prova presuntiva nè quelle per le quali non sarebbe stata raggiunta la prova contraria da parte del contribuente. Donde la censura di inesistenza e nullità della sentenza, posto che la motivazione, per dirsi tale, dovrebbe essere anche comprensibile.

Il motivo è infondato.

Deve premettersi che è ormai principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo la quale (v. Cass., VI, n. 9105/2017) ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento. In tali casi la sentenza resta sprovvista in concreto del c.d. “minimo costituzionale” di cui alla nota pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U, n. 8053/2014).

Contrariamente a quanto sopra, invece, la CTR ha respinto l’appello richiamando il principio di diritto più volte espresso secondo cui, in caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, il potere – dovere dell’Amministrazione (che è disciplinato non già dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, bensì dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41) consente all’Ufficio, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, di determinare il reddito complessivo del contribuente medesimo, potendo utilizzare a tal fine qualsiasi elemento probatorio e potendo fare ricorso anche al metodo induttivo, avvalendosi delle presunzioni cd. supersemplici. Queste ultime invero, notoriamente prive dei requisiti di gravità, determinano un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (v. Cass., V, n. 15027/2014).

Non condivisibile è anche l’ulteriore profilo di censura svolto dalla società ricorrente, secondo cui le presunzioni tratte dall’Ufficio non sarebbero fondate su fatti, in ragione principio dell’inferenza probatoria dei fatti costitutivi della pretesa tributaria ignoti da quelli noti. Come argomentato nell’impugnata sentenza, l’Amministrazione finanziaria ha fondato l’accertamento e le sue presunzioni su alcuni fatti ben precisi, quali la rotazione di magazzino eccessivamente bassa (indice 0,12) a fronte di un’attività avente ad oggetto la somministrazione di bevande ai clienti, nonchè un rincaro sul costo del venduto pari al 3763% e, quindi, inverosimile per qualunque tipo di attività. A fronte di detti fatti, l’Ufficio ha offerto la propria prova presunta, di talchè incombeva sulla società l’onere di dedurre provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della predetta pretesa. Così non ha invece operato la ricorrente giacchè, anzichè fornire la prova contraria, si è limitata a contestare la meritevolezza pretesa erariale (v. Cass., V, n. 19191/2019).

Ne consegue l’infondatezza del motivo di ricorso, avendo la CTR fatto buon governo della norma in commento.

4. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente contesta l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i giudici hanno affermato che le presunzioni “supersemplici”, laddove sussistenti, siano idonee in quanto tali a determinare l’inversione dell’onere della prova per violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, oltre che del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Richiamando le argomentazioni svolte nel motivo precedente, la ricorrente lamenta che non ogni presunzione potrebbe far parte del novero delle presunzioni supersemplici, ma solo quelle inerenti l’ammontare dei ricavi e la determinazione della ricchezza.

Il motivo è infondato.

Dallo scrutinio delle argomentazioni addotte nel ricorso introduttivo si può apprezzare il fatto che la CTR abbia valorizzato l’indice di rotazione del magazzino per 0,12 quanto l’inventario dei beni e il loro costo di acquisto. Parimenti ha valorizzato il raffronto tra i corrispettivi e i pagamenti tracciabili eseguiti, il calcolo della percentuale di rincaro dei prodotti venduti, la rilevazione dei prodotti (bevande) acquistate e vendute, nonchè la presenza di un lavoratore irregolare. La CTR ha dunque certamente tratto le proprie presunzioni supersemplici da fatti e indici certamente rivelatori di ricchezza, quali sono quelli sopra menzionati. A ciò aggiungasi che la CTR ha altresì determinato, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, come a più riprese ribadito da questa Corte (v. Cass., V, n. 19191/2019).

Anche sotto questo profilo, dunque, la CTR ha fatto buon governo delle norme, con conseguente infondatezza del motivo di ricorso.

5. Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente denuncia l’omessa motivazione in relazione ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ovvero omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti costituito dall’idoneità ex sè delle presunzioni addotte ad invertire l’onere della prova in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

In buona sostanza la società ricorrente afferma che, accertato che le presunzioni supersemplici fossero di per sè davvero idonee ad invertire l’onere della prova, la CTR avrebbe dovuto indagare se lo fossero anche quelle specificatamente addotte. Un tanto giacchè a fronte della ripetuta affermazione della loro esistenza da parte dell’Ufficio, la contribuente aveva opposto plurime contestazioni in ordine alla loro sussistenza e rilevanza. Ne sarebbe conseguito un fatto controverso – per l’appunto la rilevanza delle presunzioni specificatamente addotte dall’Ufficio – su cui però la Corte di merito non si sarebbe pronunciata, sì inficiando la sua decisione sotto il profilo dell’omessa motivazione in relazione ad un fatto controverso.

Il motivo è infondato.

E’ orientamento ormai costante di questa Corte quello secondo cui, nel vizio di omessa motivazione circa un fatto controverso, l’attività di esame del giudice che si assume omessa non concerne direttamente la domanda o l’eccezione, bensì una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione. Tale vizio va denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. Cass., V, ord. n. 25524/2018). E’ stato inoltre affermata la circostanza che debba trattarsi di un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo) o anche, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso. E di tale fatto deve essere indicata anche la natura “decisiva” ai fini del decidere (Cass., Sez. V, n. 16655/2011).

Nel caso in commento la ricorrente pare aver confuso la contestazione sulla rilevanza delle presunzioni con il fatto storico e controverso richiesto dalla norma, censurando così la sentenza perchè non si sarebbe pronunciata sul punto. Vero è, infatti, che la dedotta contestazione sulla rilevanza delle presunzioni non assurge nè può assurgere, nel paradigma delineato da questa Corte, al fatto storico e controverso richiesto e ciò perchè le contestazioni delle parti avversarie su detta rilevanza non costituiscono un “fatto storico”, quanto delle mere difese o, tutt’al più, delle eccezioni. Difettando così il presupposto indicato dalla disposizione in commento, viene meno anche la fondatezza della censura.

6. Con il quinto e ultimo motivo di censura la contribuente lamenta l’inesistenza o la nullità della sentenza per inidoneità al raggiungimento dello scopo, dovuta al difetto del requisito essenziale di forma – contenuto della motivazione, in relazione al procedimento di ricostruzione del reddito dell’Ufficio e, in via di subordine, al metodo di determinazione del reddito proposto dal contribuente e quindi alla prova contraria offerta per violazione dell’art. 156 c.p.c., comma 2, dell’art. 132c.p.c., comma 2, n. 4, dell’art. 118 disp. att. c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Sostiene la ricorrente di aver offerto, nei due gradi di merito, una ricostruzione del reddito offrendo di tal via, e a suo dire, una prova contraria con un risultato diverso dell’accertamento, tanto da aver portato i ricavi dai Euro 636.629,00 accertati a Euro 202.767,00 ricalcolato. A fronte di tale deduzione, soggiunge la ricorrente, la CTR si sarebbe limitata ad affermare che non vi sarebbero errori di calcolo, stante l’omessa dichiarazione dei redditi e la mancata tenuta del dettaglio delle rimanenze. Di qui l’inesistenza e/o la nullità della sentenza che non consentirebbe di far comprendere il ragionamento logico seguito dal Giudice di merito, con conseguente mancato raggiungimento dello scopo.

Il motivo è infondato.

Richiamando il principio già sopra espresso, secondo cui ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. S.U, n. 8053/2014), se ne deduce che esso non sia ravvisabile nel caso di specie e ciò per due motivi. In primo luogo, infatti, deve darsi atto che la CTR ha ben espresso la sua motivazione, tanto che essa viene contestata proprio nel suo contenuto dalla ricorrente. In secondo luogo è invece doveroso sottolineare che quanto offerto dalla ricorrente non concretava la “prova contraria” richiesta dalla legge e su cui il Giudice sarebbe stato chiamato a pronunciarsi, quanto e solo una diversa lettura e interpretazione delle presunzioni tratte dall’Ufficio. Onde ottenere la pronuncia nei termini ambiti, la ricorrente avrebbe dovuto fornire una prova contraria alle presunzioni oppure avrebbe dovuto indicare delle circostanze modificative o estintive dei fatti stessi. Così non ha fatto, facendo così venire meno i presupposti previsti dalla legge per l’accoglimento della domanda. Il motivo di ricorso è pertanto infondato.

7. In definitiva, per quanto fin qui detto il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

PQM

La corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in Euro settemila/00, oltre a spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 24 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 dicembre 2020

 

 

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