Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29492 del 14/11/2019

Cassazione civile sez. III, 14/11/2019, (ud. 03/07/2019, dep. 14/11/2019), n.29492

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27489-2016 proposto da:

C.M., congiuntamente ai figli M.S. e

MA.ST., in proprio e quali eredi del citato de cuius,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI QUINZI, 5, presso lo

studio dell’avvocato EMANUELE TOMASSI, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE, (OMISSIS) in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2541/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 21/04/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/07/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato EMANUELE TOMASSI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Roma, con sentenza in data 21.4.2016 n. 2541, ha parzialmente accolto l’appello principale proposto dal Ministero della Salute avverso la decisione del Tribunale di Roma, in data 13.12.2010, con la quale l’Amministrazione statale era stata condannata a risarcire i danni patiti da C.M. (coniuge) e da M.S. e St. (figli), per la morte di M.F. (marito e padre dei superstiti) conseguita alla evoluzione della patologia di epatite cronica HCV, dallo stesso contratta a seguito di emotrasfusione di sangue infetto: danni “jure successionis” liquidati in Euro 410.489,35 e danni “jure proprio” liquidati in Euro 239.736,00 a favore di ciascun familiare.

Il Giudice di appello ha ritenuto fondata la eccezione di prescrizione del diritto relativo ai danni “jure successionis”, in quanto la condotta causativa del danno alla salute procurato al soggetto “durante la vita” era sussumibile nella fattispecie normativa del reato di lesioni colpose – soggetto a prescrizione quinquennale – e, pertanto, il relativo diritto al risarcimento del danno si era estinto nell’anno (OMISSIS), atteso che la conoscenza della patologia e della sua correlazione causale alla emotrasfusione di sangue, risaliva al ricovero del M. presso la clinica odontoiatrica dell’Università di (OMISSIS), emergendo dalla cartella clinica relativa a tale ricovero, ritualmente prodotta in giudizio, che il paziente risultava affetto da “epatite virale di tipo trasfusionale due anni fa”.

La Corte d’appello ha parzialmente accolto anche l’appello incidentale proposto dai danneggiati, da un lato, riconoscendo dovuti gli “interessi corrispettivi” sull’importo di Euro 619.748,28 corrisposto dalla Amministrazione statale a “titolo di indennizzo” D.L. n. 250 del 2005, ex art. 4 decorrenti dalla data (OMISSIS) di emissione dell’atto amministrativo di liquidazione, in quanto trattavasi di debito di valuta; dall’altro, ricalcolando gli “interessi compensativi” spettanti ai danneggiati sull’importo capitale liquidato a titolo di danno non patrimoniale “jure proprio”.

Ha invece rigettato i motivi del gravame incidentale volti ad ottenere il ristoro:

del “danno patrimoniale emergente” (spese funerarie, spese di trasporto e viaggio per visite e degenze, spese di registrazione dei provvedimenti giudiziari di condanna – ordinanza ex art. 186 ter c.p.c. e sentenza di condanna -), per mancanza di prove non surrogabili dal criterio di liquidazione equitativa del danno, e non configurandosi come autonomo danno la imposta di registro, da richiedere ai soggetti obbligati con le spese accessorie da liquidarsi nei medesimi titoli esecutivi del “danno patrimoniale da lucro cessante” (individuato nella perdita reddituale da invalidità lavorativa specifica e perdita di emolumenti pensionistici che il “de cuius” avrebbe percepito dalla data della morte fino alla età media di anni 75; nella rinuncia della C., costretta alla assistenza del coniuge a possibili impieghi remunerativi; nella rinuncia dei figli alle prospettive consentite dalla prosecuzione degli studi), da un lato, non essendo configurabile alcuna perdita inerente il patrimonio del “de cuius” dopo il decesso, e dunque non essendo liquidabile alcun importo a titolo risarcitorio chiesto “jure successionis” – anzichè “jure proprio” – dai superstiti; dall’altro, essendo del tutto generiche le allegazioni in ordine agli altri pregiudizi lamentati in proprio del “danno non patrimoniale” – cd. danno tanatologico o catastrofale – subito dal “de cuius” e richiesto “jure hereditatis” dai familiari: non essendo stato consapevole il M. dell’approssimarsi del decesso, in quanto era entrato in coma il giorno stesso ((OMISSIS)) del ricovero presso l’ospedale di Cassino ove poi venne constatato l’exitus; mentre nel periodo antecedente, in occasione del ricovero presso l’ospedale di (OMISSIS) ((OMISSIS)), la consapevolezza del paziente, in merito alla grave invalidità accertata dal CTU nella misura del 100%, non poteva assimilarsi in alcun modo alla diversa consapevolezza dell’approssimarsi della morte – del “danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale”, nella maggiore misura richiesta rispetto a quanto riconosciuto, in primo grado, ai superstiti “jure proprio”, in quanto i motivi di gravame incidentale, volti ad ottenere un maggiore importo risarcitorio, risultavano aspecifici ex art. 342 c.p.c., non essendo stata formulata una critica ai criteri di liquidazione adottati dal primo Giudice in base alle “tabelle” del Tribunale di Roma, e non essendo neppure indicato l’errore che avrebbe commesso il primo Giudice nell’applicazione di tali criteri.

La sentenza di appello è stata impugnata per cassazione, con tre motivi, dai danneggiati.

Resiste con controricorso il Ministero della Salute.

I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il primo motivo censura la sentenza impugnata per vizio di “error in judicando” denunciando la violazione degli artt. 2059,2043,2056 e 1223 c.c. e dell’art. 113 c.p.c. (relativamente al mancato risarcimento del “danno biologico terminale”), nonchè per “incoerenza, illogicità ed irrazionalità motivazionale” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (relativamente al mancato riconoscimento del “danno cd. catastrofale”)

I ricorrenti contestano l’affermazione del Giudice di appello secondo cui il “danno biologico terminale” patito dal “de cuius” richieda la “lucida e consapevole attesa della morte” da parte del soggetto leso, quale elemento indefettibile della stessa struttura del danno. Secondo i ricorrenti occorrerebbe distinguere tra danno (biologico) “terminale” e danno “catastrofale”, solo per quest’ultimo essendo richiesta la consapevolezza da parte del soggetto leso dell’approssimarsi della morte, mentre nel primo caso si sarebbe in presenza di un “danno biologico da invalidità temporanea totale” (nella specie riconosciuto dal CTU nel grado di invalidità pari al 100%, dall'(OMISSIS) – ricovero presso l’Ospedale di (OMISSIS) – fino all'”exitus” il (OMISSIS): gg. 23), per la sussistenza del quale sarebbe richiesto solo l’elemento cronologico della durata della vita del soggetto.

Aggiungono ancora che, in ogni caso, doveva ritenersi errata in fatto la valutazione della Corte territoriale circa l’assenza di consapevolezza da parte del paziente dell’approssimarsi della morte, in quanto, prima che cadesse in stato comatoso, nei precedenti 23 giorni di ricovero presso l’Ospedale tale consapevolezza era invece certamente desumibile in considerazione dei sintomi di aggravamento della malattia.

Il motivo si palesa inammissibile, in quanto i ricorrenti fondano la critica su un asserito equivoco terminologico – tra la nozione di danno catastrofale e quella di danno terminale – in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello, nella specie invece insussistente, omettendo in conseguenza di investire con idonea censura l’altra autonoma ragione della decisione fondata sulla estinzione del diritto risarcitorio per intervenuta prescrizione.

Occorre premettere che la questione della risarcibilità agli eredi del danno (“biologico”, “morale-catastrofale”, “tanatologico”) patito dalla vittima deceduta in conseguenza della condotta illecita, è stata definita da questa Corte secondo le seguenti linee guida:

– alla vittima può essere risarcita la perdita di un bene avente natura non patrimoniale, nella misura in cui la persona fisica sia ancora in vita: la vicenda “acquisitiva del diritto” alla reintegrazione della perdita subita presuppone, infatti, la capacità giuridica, riconoscibile soltanto ad un soggetto esistente (art. 2 c.c., comma 1).

– i danni non patrimoniali risarcibili alla vittima (soggetto deceduto a causa delle lesioni subite alla propria integrità psicofisica) e trasmissibili “jure hereditatis”, possono pertanto consistere:

a) nel “danno biologico” (cd. “danno terminale”) determinato dalla lesione al bene salute quale danno-conseguenza consistente nella invalidità psicofisica – intesa come stato di incapacità determinato dall’inevitabile decorso della patologia con esito letale contratta a causa della lesione alla salute – perdurata nel periodo che va dal momento della lesione (che si caratterizza appunto per non essere emendabile e dunque non consente guarigione, ed in quanto letale conduce) fino all’exitus. Dalla lesione del bene-salute possono derivare, infatti: a1) conseguenze invalidanti della capacità psicofisica del soggetto, che residuano dopo la guarigione ed assumono carattere permanente – in quanto inemendabili – in relazione alla residua durata della vita; a2) conseguenze anch’esse inemendabili ma “letali”, tali da condurre inevitabilmente la persona alla morte che sopravviene, di regola, a breve distanza di tempo. In quest’ultimo caso, laddove il soggetto permanga in vita per un tempo comunque apprezzabile, viene in rilievo la nozione di “danno biologico terminale”, categoria meramente descrittiva, in quanto priva di una sua specificità giuridica e di una dimensione ontologica differente rispetto alla nozione di “danno biologico”. L’elemento distintivo del danno cd. terminale, è da individuare, infatti, esclusivamente in relazione all’aspetto fenomenologico della natura mortale o non mortale della lesione, dovendo aversi riguardo, ai fini dell’accertamento del danno-conseguenza, in ogni caso alla durata della vita che intercorre tra l’evento lesivo ed il decesso: anche la liquidazione del danno (biologico) “terminale” viene effettuata valutando la incidenza negativa sulla capacità dinamico-relazionale del soggetto (sostanzialmente annichilita), prodotta da una lesione personale (mortale), durante il tempo necessario – di regola breve – alla evoluzione dell’iniziale stato patologico fino al suo ineluttabile esito. Non trovano, quindi, applicazione criteri di accertamento diversi da quelli propri del danno biologico fondati sui “baremes” medico-legali, attraverso i quali, come è noto, la lesione della integrità psicofisica del soggetto – dopo che lo stato patologico acuto sia portato a guarigione con postumi invalidanti di natura permanente – viene ad essere considerata e valutata in termini percentuali del grado di invalidità permanente che residua al soggetto per il resto della presumibile durata della vita (o per la durata effettiva della vita, se in ipotesi più breve, qualora il decesso sia intervenuto per cause diverse dalla lesione che aveva determinato la situazione invalidante presa in esame) parametrata al dato statistico della speranza di vita di uomini e donne elaborato dall’ISTAT.

Analogamente all’accertamento del danno biologico, anche il danno cd. terminale, in quanto danno-conseguenza, è oggetto di accertamento in fatto, e presuppone che le conseguenze pregiudizievoli sulla capacità psicofisica del soggetto si siano effettivamente prodotte, atteso che oggetto della “perdita” non è la morte, ma è pur sempre il tempo biologico commisurato alle perdute attività quotidiane che il soggetto avrebbe potuto altrimenti compiere, a tal fine necessitando – con riguardo alle lesioni mortali – che tra l’evento lesivo e il momento del decesso sia intercorso un “apprezzabile lasso temporale”, cioè una durata idonea a correlare la diminuita validità alle capacità umane che si esplicano nel vivere quotidiano. Non vi è, pertanto, accertamento di danno biologico-terminale laddove la morte sia stata immediata, tale essendo considerata – per convenzione medico legale – anche la morte intervenuta prima dello spirare delle 24 ore di durata del giorno, non essendo ritenuto valutabile in medicina legale – in termini di danno biologico, un grado percentuale di invalidità commisurato soltanto ad ore, minuti o secondi (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1877 del 30/01/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 15491 del 08/07/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 22228 del 20/10/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 23183 del 31/10/2014; da ultimo: Corte cass. Sez. 3, Ordinanza n. 18056 del 05/07/2019);

b) nel “danno morale cd. soggettivo” (cd. “danno catastrofale”), consistente nello stato di sofferenza spirituale per intima paura o paterna d’animo sopportato dalla vittima nell’assistere alla progressiva distruzione della propria condizione esistenziale verso l’ineluttabile fine-vita: in questo caso l’accertamento in fatto dell'”an”, ossia della esistenza del danno-conseguenza, presuppone la prova della “cosciente e lucida percezione”, da parte del soggetto leso, dell’ineluttabilità della propria fine. Tale prova rimane, pertanto, esclusa laddove la morte sia sopraggiunta nella immediatezza delle lesioni inferte alla vittima, o sia pervenuta dopo un apprezzabile lasso di tempo ma con soggetto leso inconsapevole o che versava in stato di incoscienza (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 6754 del 24/03/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 7126 del 21/03/2013; id. Sez. 3, Sentenza n. 13537 del 13/06/2014);

c) rimane, invece, esclusa la risarcibilità del danno consistente nella “perdita del bene-vita” (cd. “danno tanatologico”), quale bene autonomo e diverso rispetto al bene-salute (oggetto di distinti diritti: artt. 2 e 32 Cost.), fruibile solo in natura ed esclusivamente dal titolare ed insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicchè, tanto se il decesso si verifichi immediatamente, quanto nel caso in cui si verifichi dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità “iure hereditatis” di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – della simultanea assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, e – nel secondo caso – della mancanza di utilità fruibili dal soggetto e delle quali possa configurarsi la perdita in uno spazio di vita brevissimo inidoneo a tradurre l’evento-morte in una mera estensione del pregiudizio alla salute nel quale sono implicate le nozioni di malattia, guarigione e postumi invalidanti, le quali tutte sono inconfigurabili e, se preesistenti, scompaiono con la morte stessa (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015 che, dando seguito alle indicazioni della sentenza della Corte costituzionale 27 ottobre 1994 n. 372, compone in tal modo il contrasto giurisprudenziale insorto dopo il precedente contrario di Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1361 del 23/01/2014).

Tanto premesso i ricorrenti assumono:

che il Tribunale aveva liquidato, in applicazione dei diversi gradi percentuali di invalidità riscontrati dal CTU, il danno biologico subito dal de cuius;

– che con il motivo di appello incidentale anche tale statuizione era stata impugnata (in punto di errata liquidazione del predetto danno, per omessa considerazione dei gradi percentuali di invalidità accertati dal CTU);

– che la Corte d’appello aveva erroneamente confuso il danno “terminale” con quello “catastrofale”, avendolo disconosciuto sul presupposto irrilevante – del difetto della apprezzabile consapevolezza, da parte della vittima, dell’approssimarsi dell'”exitus”.

Osserva il Collegio che occorre fare chiarezza su vieti narcisismi classificatori, che spesso hanno indotto in equivoci lessicali ed in sterili discussioni nomenclatorie, tanto la dottrina giuridica, quanto la giurisprudenza.

Il “danno biologico” – inteso come lesione della salute, qualificabile dalla medicina legale come patologia determinante un pregiudizio areddituale che incide negativamente sulle condizioni di vita del soggetto – non può essere confuso con la “sofferenza spirituale o interiore” (danno morale) che il soggetto ha subito e che può continuare a nutrire per la consapevolezza della propria minorata condizione.

Tale distinzione non viene meno nel caso in cui la lesione sia inferta con o senza esito mortale, occorrendo in entrambi i casi, per la insorgenza del danno morale, lo stato di coscienza della persona fisica per avvertire il “dolore o la sofferenza interiore”, variando soltanto la intensità del pregiudizio (dalla commiserazione per la propria condizione esistenziale commiserevole fino alla insopprimibile angoscia dell’attesa della morte), che si trasforma in disperazione qualora il soggetto abbia contezza di “stare per morire”, in quanto consapevole di non avere alcuna possibilità di salvezza.

Non può, peraltro, escludersi che tale sofferenza interiore possa essere suscettibile, in taluni casi, di trasmodare in una vera e propria patologia psichica, venendo allora ad integrare un “danno biologico psichico” (sindromi depressive croniche: accertabili secondo i criteri propri della medicina-legale – e le classificazioni delle diverse patologie riportate nel “Manuale diagnostico e statistico sui disturbi mentali” giunto alla quinta edizione -). Al di fuori di tale ipotesi, e dunque salvo che sia dato riscontare un vero e proprio disturbo psichico, la percezione della situazione disperata (attesa della morte) o disperante (per la menomata condizione di vita), non può confondersi difettando l’elemento caratterizzante della patologia clinica – con la lesione del diritto alla salute, nè integrare una componente del danno biologico, come ormai, peraltro, normativamente recepito ed evidenziato dall’art. 138, comma 2, lett. e), e dall’art. 139, comma 3 Codice Assicurazioni Private.

La Corte d’appello, richiamando espressamente la pronuncia di Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015, ha evidenziato come, in quel caso, le Sezioni Unite fossero state chiamate a risolvere la questione della risarcibilità, al soggetto deceduto, del “bene-vita” in sè e della conseguente trasmissibilità del diritto agli eredi, esulando pertanto dalla composizione del contrasto giurisprudenziale la diversa questione relativa al “risarcimento dei danni derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo alle lesioni”. Nella medesima sentenza le Sezioni Unite hanno, al riguardo, rilevato che “con riferimento a tale (ultima) situazione, infatti, non c’è alcun contrasto nella giurisprudenza di questa Corte (che prende le mosse dalla sentenza delle sezioni unite del 22 dicembre 1925, alla quale di seguito si farà più ampio riferimento) sul diritto iure hereditatis al risarcimento dei danni che si verificano nel periodo che va dal momento in cui sono provocate le lesioni a quello della morte conseguente alle lesioni stesse, diritto che si acquisisce al patrimonio del danneggiato e quindi è suscettibile di trasmissione agli eredi”, precisando poi che alla mancanza di contrasto sulla trasmissibilità del diritto agli eredi corrispondono, invece, soluzioni diverse in ordine alla applicazione del criterio di liquidazione di tale danno.

Hanno osservato, al proposito, le Sezioni Unite che “L’unica distinzione che si registra negli orientamenti giurisprudenziali riguarda la qualificazione, ai fini della liquidazione, del danno da risarcire che, da un orientamento, con “mera sintesi descrittiva” (Cass. n. 26972 del 2008), è indicato come “danno biologico terminale” (Cass. n. 11169 del 1994, n. 12299 del 1995, n. 4991 del 1996, n. 1704 del 1997, n. 24 del 2002, n. 3728 del 2002, n. 7632 del 2003, n 9620 del 2003, n. 11003 del 2003, n. 18305 del 2003, n. 4754 del 2004, n. 3549 del 2004, n. 1877 del 2006, n. 9959 del 2006, n. 18163 del 2007, n. 21976 del 2007, n. 1072 del 2011) – liquidabile come invalidità assoluta temporanea, sia utilizzando il criterio equitativo puro che le apposite tabelle (in applicazione dei principi di cui alla sentenza n. 12408 del 2011) ma con il massimo di personalizzazione in considerazione della entità e intensità del danno – e, da altro orientamento, è classificato come danno “catastrofale” (con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni). Il danno “catastrofale”, inoltre, per alcune decisioni, ha natura di danno morale soggettivo (Cass. n. 28423 del 2008, n. 3357 del 2010, n. 8630 del 2010, n. 13672 del 2010, n. 6754 del 2011, n. 19133 del 2011, n. 7126 del 2013, n. 13537 del 2014) e per altre, di danno biologico psichico (Cass. n. 4783 del 2001, n. 3260 del 2007, n. 26972 del 2008, n. 1072 del 2011). Ma da tali incertezze non sembrano derivare differenze rilevanti sul piano concreto della liquidazione dei danni perchè, come già osservato, anche in caso di utilizzazione delle tabelle di liquidazione del danno biologico psichico dovrà procedersi alla massima personalizzazione per adeguare il risarcimento alle peculiarità del caso concreto, con risultati sostanzialmente non lontani da quelli raggiungibili con l’utilizzazione del criterio equitativo puro utilizzato per la liquidazione del danno morale.”.

Occorre, tuttavia, chiarire che le Sezioni Unite non hanno inteso saggiare esulando tale indagine dalla questione oggetto della ordinanza di rimessione – la tenuta dogmatica delle diverse catalogazioni del peculiare danno-conseguenza della “condizione di attesa della morte”, rispetto al danno determinato dal “decesso” seguito – immediatamente o senza apprezzabile lasso di tempo – alle lesioni, ma si sono, invece, limitate ad evidenziare come i diversi orientamenti giurisprudenziali in materia fossero da ritenere soltanto apparentemente differenti, in quanto le molteplici classificazioni della “natura” del danno in questione, erano soltanto il mero riflesso della differente scelta della tecnica di “aestimatio”, ritenuta più appropriata, nell’ambito del medesimo criterio di liquidazione equitativa (art. 2056 c.c.), pervenendo quindi a riconoscere che tali diverse modalità di liquidazione del danno producevano risultati sostanzialmente equivalenti: pertanto, secondo le Sezioni Unite, anche il ricorso alle “tabelle di liquidazione del danno biologico”, doveva intendersi come una soltanto delle diverse e possibili “tecniche” rispondenti ai principi di pertinenza, congruità e logicità ex art. 2056 c.c., che debbono presiedere alla liquidazione cd. equitativa del danno non patrimoniale (al riguardo appare significativo il precedente di Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 1072 del 18/01/2011, che per liquidare il danno da attesa fine vita, durato quattro giorni, ritenendo insufficiente l’importo tabellare del danno biologico da inabilità temporanea assoluta, viene ad utilizzare il valore monetario equivalente al grado percentuale di invalidità psichica, ricavato dalla tabella di liquidazione del danno biologico ed incrementato dell’aumento consentito dalla “personalizzazione”: la ricerca di individuazione di un criterio di liquidazione del “quantum” adeguato alla percezione da parte della vittima della propria gravissima condizione, in questo caso ha indotto a ricorrere all’utilizzo – in senso pratico – del valore tabellare del danno biologico-psichico, pure in difetto di accertamento medico-legale di una patologia psichica).

Richiamandosi alla sentenza delle Sezioni Unite, la Corte distrettuale ha evidenziato come, indipendentemente dalla differente nomenclatura riscontrabile nei precedenti giurisprudenziali, nella specie doveva ritenersi escluso un danno “terminale” ulteriore – ed ontologicamente diverso – rispetto al “danno biologico” (oggetto di liquidazione nella sentenza di primo grado), specificando altresì che non sussistevano neppure i presupposti per ravvisare il danno non patrimoniale cd. “catastrofale”, quest’ultimo tenuto distinto dal danno biologico “stricto sensu”, definito nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139 Cod. Ass. Priv. come “la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito” (sentenza appello, in motivazione).

L’argomento svolto dal Giudice di appello, deve ritenersi corretto sul piano giuridico, atteso che solo il danno (catastrofale) da disperata attesa dell’approssimarsi ineluttabile della morte può “aggiungersi” – ove sussistano gli elementi dello stato di coscienza e dell’apprezzabile intervallo di tempo tra lesioni e decesso – al “danno biologico” fisico o psichico che presuppone, invece, l’accertamento medico-legale del grado di invalidità temporanea e/o permanente, rispettivamente, “per il periodo corrispondente alla guarigione dalla malattia” e per il successivo periodo correlato alla residua aspettativa di vita del soggetto.

Occorre a questo punto chiarire se il “danno terminale” presenti delle peculiari specificità all’interno della categoria -alla quale appartiene- del “danno biologico”.

Occorre prendere le mosse dalla lesione inferta alla integrità psicofisica che determina “una alterazione in pejus” delle pregresse condizioni psicofisiche del soggetto, definibile come “malattia”: questo nuovo stato in cui viene a versare il soggetto dopo la lesione è destinato a cessare.

A) all’esito del periodo di convalescenza, con alla guarigione, ossia il ripristino delle condizioni di salute anteriori o comunque senza reliquati invalidanti, ovvero con:

a2- la stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute (invalidità permanente), oppure;

a3- con la perdita totale capacità biologica del soggetto conseguente al decesso.

Risulta evidente, dunque, come il danno biologico da postumi invalidanti di natura permanente si discosti concettualmente dal danno alla persona determinato dalla “lesione letale”, che esclude per antonomasia una guarigione e prelude al prossimo decesso (il termine finale della condizione patologica transeunte, infatti, anzichè nella intervenuta stabilizzazione delle minorate condizioni di capacità psicofisica, si identifica nell’evento-morte) e prescinde, ovviamente, da qualsiasi futura aspettativa di vita del soggetto danneggiato: il danno cd. “terminale”, in quanto fenomenologicamente riconducibile ad uno stato di “malattia” correlato ad una apprezzabile durata della inabilità biologica -tendenzialmente assoluta – del soggetto leso, viene pertanto a replicare la nozione di danno biologico da “inabilità temporanea”, al riguardo non assumendo rilevanza, sul piano giuridico, la peculiare natura della lesione e l’esito della malattia in quanto “ab origine” irrimediabilmente destinati ad estinguere lo stesso soggetto.

Ferma, pertanto, la risarcibilità del “danno biologico” nelle sue componenti della invalidità “temporanea” e “permanente”, parametrate rispettivamente al periodo della malattia ed alla residua durata della vita del soggetto pregiudicato nelle sue capacità relazionali e nella realizzazione degli interessi facenti capo alla persona (risarcibilità che include anche il danno biologico terminale), osserva il Collegio che deve, invece, da esso essere tenuto distinto il danno non patrimoniale cd. “catastrofale” (da attesa consapevole della morte) che, pertanto, può “aggiungersi”, alla (presupposta) invalidità biologica, collocandosi su un piano distinto dalle conseguenze valutabili secondo criteri medico-legali della lesione della salute, dovendo ricondursi nella nozione di “danno morale” il senso della disperazione per la inevitabilità di un “exitus” ormai prossimo, sentimento di tragica ineluttabilità del fine-vita che richiede – a differenza del danno biologico- il presupposto della consapevole condizione soggettiva, dovendo tale sentimento essere necessariamente avvertito dalla persona fisica per potersi configurare come ulteriore danno-conseguenza risarcibile.

Orbene, la Corte distrettuale, sul presupposto della distinzione tra “morte seguita senza apprezzabile lasso di tempo alle lesioni che ne sono causa” – ipotesi che rende inconfigurabile la insorgenza in capo alla vittima di un diritto al risarcimento del danno biologico, trasmissibile agli eredi – ed invece “morte seguita dopo un apprezzabile lasso di tempo” – che invece può dare luogo alla insorgenza di diritti risarcitori trasmissibili “jure hereditatis” – (in tal senso trova, infatti, esplicitazione l’espresso richiamo, nella motivazione della sentenza di appello, al precedente di questa Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 19133 del 20/09/2011), non ha ritenuto di ravvisare, nella fattispecie concreta, i presupposti del “danno biologico terminale” (inteso come danno da “incapacità biologica temporanea” ulteriore e diverso dal danno biologico da invalidità permanente che era stato liquidato dal primo Giudice), come è dato evincere dal riferimento, operato dalla sentenza impugnata, alle indicazioni fornite “dall’orientamento tuttora maggioritario di questa Corte, secondo il quale, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, quando all’estrema gravità delle lesioni, segua, dopo un intervallo temporale brevissimo, la morte, non può essere risarcito agli eredi il danno biologico “terminale” connesso alla perdita della vita della vittima, come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale, dal primo ontologicamente distinto, fondato sull’intensa sofferenza d’animo conseguente alla consapevolezza delle condizioni cliniche seguite al sinistro – Cass., 28 novembre 2008, n. 28423; Cass., 7 giugno 2008, n. 13672; Cass., 20 settembre 2011, n. 19133-” (cfr. Corte cass. Sez. 3, sentenza 5/12/2014 n. 25731, in motivazione: espressamente richiamata nella motivazione della sentenza di appello), ed ha inoltre ritenuto sfornito di prova nel caso concreto anche il danno da “lucida attesa dell’approssimarsi della morte” (danno cd. catastrofale) per insussistenza dei presupposti, individuati, correttamente e cumulativamente, nell’apprezzabile lasso di tempo tra le “lesioni letali” ed il momento del decesso, e nell’effettivo avvertimento cosciente della sensazione di perdita della vita da parte della vittima: e ciò, tanto in relazione al ricovero eseguito presso il nosocomio di Cassino, ove il M. era deceduto qualche ora dopo essere stato colà trasportato in condizioni precarie di coscienza (tanto che i medici avevano dovuto acquisire il consenso informato dai parenti), quanto in relazione ai precedenti 23 giorni di ricovero presso il nosocomio di (OMISSIS), durante i quali non era invece emerso il rischio di un prossimo decesso e, dunque, non poteva neppure in astratto ipotizzarsi una consapevolezza da parte dell’infermo di un prossimo fine vita.

I ricorrenti hanno criticato la sentenza impugnata, in quanto – a loro dire – la Corte d’appello sarebbe incorsa in equivoco, non avendo correttamente inteso che, nel richiedere “jure hereditatis” il risarcimento del “danno biologico terminale”, i danneggiati si erano riferiti, non alla sofferenza morale patita dal congiunto in attesa della morte (che viene definito dagli stessi come “danno catastrofale”), ma al “danno biologico” relativo agli ultimi 23 giorni di vita relativi al ricovero presso l’ospedale di (OMISSIS), danno maturato in vita dalla vittima e dunque trasmissibile “jure hereditatis”, e che avrebbe dovuto essere liquidato secondo i comuni criteri tabellari del danno biologico, in base al grado di invalidità pari al 100%, accertato dal CTU, non potendosi dunque ritenere dirimente il riferimento al precedente n. 25731/2014 sul quale era basata la decisione di rigetto.

Dal ricorso per cassazione emerge che i ricorrenti, in primo grado, avevano domandato – anche – il risarcimento “jure hereditatis” del “….danno biologico terminale – detto anche danno biologico da invalidità temporale…”, e che il Tribunale aveva accolto tale domanda, “…tenendo a riferimento solo una parte (60% ed 80%) della più analitica parametrazione rappresentata dal CTU il quale aveva fatto riferimento ad una invalidità totale (100%) che aveva colpito il de cuius in relazione agli ultimi 23 giorni antecedenti il decesso…” (ricorso pag. 3). Si evince dalla sentenza di appello che il Tribunale aveva liquidato a titolo di risarcimento del danno da invalidità biologica permanente, subito dal de cuius, l’importo di Euro 410.489,35 (calcolato tabellarmente in base al grado di I.P. del 60%, per sei anni, ed al grado di I.P. dell’80%, per i residui pochi mesi fino all’exitus).

Tanto premesso, la censura per violazione di norme di diritto, intesa a contestare la asserita confusione tra le nozioni di danno biologico terminale e danno catastrofale in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello, pur apparendo in parte giustificata dalla contratta e non compiutamente esplicata esposizione delle ragioni poste a fondamento del “decisum”, deve essere, tuttavia, ritenuta infondata.

Come sopra rilevato, la sentenza di appello, dopo aver premesso che la risarcibilità del danno non patrimoniale, derivato da lesione letale, deve ritenersi condizionata dall’elemento cronologico della durata della esistenza in vita – secondo che l’exitus sia seguito solo dopo o invece senza un apprezzabile lasso di tempo dalla lesione -, e dopo aver richiamato l’orientamento giurisprudenziale che non ravvisa la configurabilità di un danno biologico nel caso di lesione mortale in cui la incapacità biologica-relazionale della persona non si traduce in postumi valutabili in termini medico-legali, ha, da un lato, ritenuto insussistente un “danno biologico ulteriore”, subito dal “de cuius”, diverso rispetto a quello che era stato oggetto di liquidazione dal primo Giudice, con riferimento alle diverse fasi temporali di aggravamento della malattia (avendo il Giudice di appello con ciò ritenuto, quindi, di escludere proprio la esistenza di un ulteriore “nuovo” danno – il danno “terminale” richiesto jure successionis dai danneggiati – del tutto autonomo da quello biologico); dall’altro ha verificato, “ad abundantiam”, anche gli eventuali presupposti per la risarcibilità del danno cd. “catastrofale” (non ricompresi peraltro nel “thema decidendum”, non avendo gli eredi formulato specifica richiesta risarcitoria relativa a tale voce di danno), ritenendoli insussistenti in considerazione, sia dello stato di incoscienza del M. quando venne trasferito al nosocomio di (OMISSIS); sia della mancanza di elementi circostanziali dai quali desumere che il paziente avesse avuto percezione dell’approssimarsi della morte durante gli accertamenti svolti presso l’ospedale di (OMISSIS).

Pertanto la Corte territoriale ha ritenuto inesistente un autonomo evento lesivo “letale” rispetto a quello lesivo della “salute” (contrazione del virus) che aveva determinato il danno biologico con postumi invalidanti, coerentemente dichiarando estinto per prescrizione il relativo diritto risarcitorio azionato “jure successionis”, richiamandosi al precedente di questa Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 7553 del 15/05/2012 secondo cui, “in caso di decesso del danneggiato a causa del contagio, la prescrizione rimane quinquennale per il danno subito da quel soggetto in vita, del quale il congiunto chieda il risarcimento “iure hereditatis”, trattandosi pur sempre di un danno da lesione colposa” (conf. Corte cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 20882 del 22/08/2018).

Consegue che alcun errore di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) ha commesso la Corte distrettuale in relazione alla applicazione delle norme indicate in rubrica, dovendo intendersi riferita la motivazione della sentenza al rigetto tanto della domanda di risarcimento del danno (biologico) terminale, quanto di quella relativa al risarcimento del danno (morale) catastrofale.

Inammissibile è, inoltre, la censura volta a dedurre l’errore di fatto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in ordine alla statuizione che nega il risarcimento “jure hereditatis” del danno (morale) “catastrofale”, in base all’accertamento di merito della assenza di elementi circostanziali che deponessero per la insorgenza di un pericolo di vita, in occasione del primo ricovero, e della incoscienza del soggetto in occasione del secondo ricovero ospedaliero, in quanto viene del tutto omessa la indicazione del “fatto storico”, primario o secondario, “decisivo” richiesta per veicolare il sindacato di legittimità, attesa la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) c.p.c. introdotta dal D.L. n. 83 del 2012 conv. in L. n. 134 del 2012 ed applicabile alle sentenze depositate dopo il 9.11.2012, tentando i ricorrenti di ottenere una nuova inammissibile rivalutazione delle risultanze probatorie già esaminate dalla Corte territoriale, danno peraltro che, come già evidenziato, non risulta sia stato specificamente richiesto nei precedenti gradi di merito.

La contestazione mossa alla sentenza impugnata, in relazione rispettivamente al vizio di violazione di norme di diritto ed al vizio di errore di fatto, si palesa – per le considerazioni sopra svolte – infondata ed inammissibile, in quanto basata su di un supposto equivoco terminologico che deve, invece, ritenersi assente nella sentenza impugnata.

Occorre ancora rilevare che il motivo in esame andrebbe incontro, ancor prima, alla declaratoria di inammissibilità per difetto di interesse, qualora si ritenesse che, con il secondo motivo di ricorso, i ricorrenti abbiano rinunciato ad investire anche l’altra autonoma “ratio decidendi” della sentenza di appello che ha dichiarato estinto per prescrizione il diritto al risarcimento dell'”ulteriore danno non patrimoniale” e del “danno biologico da invalidità temporanea” spettante alla vittima, azionato “jure hereditatis” dai familiari superstiti (cfr. sentenza appello, in motivazione, pag. 10-11).

Il secondo motivo (ricorso pag. 13) è preceduto dalla “premessa” secondo cui la impugnazione veniva rivolta alla statuizione della sentenza relativa alla prescrizione del danno biologico jure hereditatis, prescindendo dal danno terminale e catastrofale “in quanto evidentemente non prescritti”, insorgendo il relativo diritto risarcitorio soltanto nel momento in cui si erano aggravate le condizioni di salute. Tale precisazione non può tuttavia essere considerata come una rinuncia – neppure parziale – alla censura della statuizione di rigetto della richiesta risarcitoria del danno terminale, sia in quanto difetta il requisito della chiarezza ed in equivocità della volontà remissiva dei ricorrenti, sia in quanto -come si è visto – la nozione di danno biologico è onnicomprensiva anche del danno “terminale”, rifluendo pertanto la contestazione rivolta alla pronuncia di prescrizione del diritto al risarcimento del danno biologico anche sul risarcimento del danno terminale inteso dai ricorrenti quale nuovo ed ulteriore danno.

Tanto premesso, osserva il Collegio che il diritto “jure hereditatis” al risarcimento del danno biologico subito dalla vittima a causa del contagio del virus HCV, è stato dichiarato estinto per prescrizione, in applicazione del principio enunciato da questa Corte – cui si è conformato il Giudice territoriale – secondo cui, la responsabilità del Ministero della Salute per i danni da trasfusione di sangue infetto ha natura extracontrattuale, sicchè il diritto al risarcimento è soggetto alla prescrizione quinquennale ex art. 2947 c.c., comma 1, non essendo ipotizzabili figure di reato (epidemia colposa o lesioni colpose plurime) tali da innalzare il termine ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 3. In caso di decesso del danneggiato a causa del contagio, la prescrizione rimane quinquennale per il danno subito da quel soggetto in vita, del quale il congiunto chieda il risarcimento “iure hereditatis”, trattandosi pur sempre di un danno da lesione colposa, reato a prescrizione quinquennale (alla data del fatto), mentre la prescrizione è decennale per il danno subito dai congiunti della vittima “iure proprio”, in quanto, per tale aspetto, il decesso del congiunto emotrasfuso integra omicidio colposo, reato a prescrizione decennale – alla data del fatto – (Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 7553 del 15/05/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 28464 del 19/12/2013; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 20882 del 22/08/2018).

Il “maggior grado” di invalidità biologica accertato dal CTU (100% IP per 23 giorni), così come quello che era stato riconosciuto dal Giudice di primo grado nel precedente periodo di vita della vittima (60% per sei anni; 80% per pochi mesi fino all’exitus), costituiscono, infatti, un “aggravamento” della patologia preesistente, dovendo ricomprendersi in tale nozione tutte quelle conseguenze che costituiscono un mero sviluppo ed – appunto un – aggravamento del danno già insorto, e non integrano “nuove ed autonome” lesioni (cfr. si veda in proposito: Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 580 del 11/01/2008): nella specie l’incremento del grado percentuale di invalidità non deriva da un nuovo e diverso “evento lesivo”, nè tanto meno il fenomeno dell’aggravamento della preesistente patologia costituisce esso stesso un “fatto lesivo nuovo”, venendo piuttosto ad esprimere soltanto una diversa dimensione della entità dei postumi derivati dalla medesima etiopatologia, ossia dall’originario “evento lesivo” della salute (contrazione virus epatite HCV).

Non vale in contrario l’argomento, addotto dai ricorrenti (ricorso pag. 13) per contrastare la estensione della prescrizione anche al diritto al risarcimento “jure successionis” del danno terminale e catastrofale, secondo cui la morte non costituirebbe un mero aggravamento ma la (nuova) lesione di un diverso bene, qual è il bene-vita rispetto al bene-salute (sul punto viene richiamata, sia nella sentenza che nel ricorso, Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1133 del 22.01.2015, che statuisce tuttavia in modo assertivo, richiamando peraltro alcuni precedenti – Cass. n. 7257/2001 e Cass. 1368/2014 – che concernono fattispecie non in termini). Indipendentemente, infatti, dalla inconfigurabilità alla stregua dell’arresto delle Sezioni Unite n. 15350/2015 – della insorgenza e dell’acquisto al patrimonio della vittima di un diritto al risarcimento avente ad oggetto la lesione del “bene-vita”, ulteriore rispetto alla lesione del “bene-salute”, occorre osservare che la distinzione in questione è stata introdotta dalla Corte d’appello esclusivamente al fine di individuare il differente “dies a quo” della prescrizione del diritto “iure proprio” al risarcimento del danno da “perdita del rapporto familiare” (diritto autonomo, che sorge direttamente in capo ai superstiti, rispetto ai diritti risarcitori di pertinenza del de cuius ed acquisiti dai superstiti jure successionis), atteso che tale “perdita” si è determinata per i familiari soltanto con la morte del congiunto, mentre, con riguardo alla vittima, l'”exitus” non vale a modificare il termine iniziale della prescrizione (individuato con riferimento alla conoscibilità di tutti gli elementi della fattispecie illecita, inclusa la eziologia del danno-conseguenza), in quanto il progressivo incremento del grado di invalidità permanente costituisce “aggravamento” della originaria patologia infettiva, rispetto alla quale il danno biologico “terminale” non riveste carattere di autonomia, nè sotto il profilo dell’evento lesivo generatore del danno (da ricondurre alla contrazione del virus, e dunque alla lesione del diritto alla salute), nè sotto il profilo del danno-conseguenza lungolatente non prevedibile (non è contestato che la infezione HCV possa comportare quale complicanza la cirrosi epatica, la quale può evolvere nella perdita progressiva della funzionalità del fegato che, nelle fasi avanzate, determina comparsa di ittero dando luogo a sindrome nota come “epato-renale” e quindi al decesso). La morte, quale esito astrattamente possibile, ma del tutto incerto nel suo accadimento al momento del perfezionamento della fattispecie illecita, è infatti il terminale della evoluzione peggiorativa della patologia virale, contratta dalla vittima, intervenuta – nel caso di specie – a distanza di circa ventiquattro anni dalla lesione alla salute (contrazione del virus).

Orbene la menomazione, prevedibile ma incerta nella sua verificazione futura, è fenomeno ricorrente nella medicina-legale ed è specificamente considerato nei “baremes” che determinano il grado di invalidità biologica del soggetto anche in relazione a tali possibilità evolutive della patologia ed alla maggiore o minore prevedibilità delle complicanze in relazione alla peculiare condizione di salute riscontrata nel soggetto al momento delle indagini diagnostiche: la medicina legale ha ben presente casi di menomazioni e patologie “in potenza” od “ingravescenti” (si veda, a titolo di esempio, in relazione all’accertamento della invalidità civile, la L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 97, comma 2, come sostituito dal D.L. n. 4 del 2006, art. 6 conv. in L. 9 marzo 2006, n. 80 e succ. mod., ed il D.M. 2 agosto 2007, di attuazione, che individua tra le altre “patologie suscettibili di evoluzione peggiorativa”, anche le epatopatie con compromissione del sistema nervoso, non emendabili con terapie farmacologiche o chirurgiche, e le patologie oncologiche con compromissione secondaria di organi o apparati) che possono anche avere latenza sintomatica prolungata o dare luogo ad alterazioni psicofisiche ad andamento episodico od intervallate nel tempo, con possibilità di ripresa della malattia. Orbene tali patologie – in ordine alle quali la scienza medica ha acquisito una affidabile conoscenza in base agli studi scientifici ed alla esperienza maturata in relazione alla statistica sanitaria ed ai risultati conseguiti con le terapie praticate – comportano per il paziente, in futuro, certamente un maggior rischio di peggioramento del suo stato di salute, rispetto a quelle patologie che, invece, determinano menomazioni “stabilizzate”: ma tale maggior rischio di aggravamento evolutivo della stessa patologia (finanche alla morte), od anche del maggiore rischio che questa comporta di esposizione alla contrazione di altre malattie (si pensi appunto ai rischi determinati dalla isoimmunizzazione), non costituisce una conseguenza-dannosa “altra” rispetto a quelle pregiudizievoli per la salute riconducibili a quella medesima patologia, ma contribuisce ad integrare il “complessivo stato invalidante” che caratterizza la condizione biologica di quel soggetto, e che si atteggia per il suo carattere ingravescente che “può” portare in futuro (secondo il giudizio di prevedibilità espresso dalle conoscenze medico-scientifiche del tempo) ad ulteriori complicanze od alla prematura morte. Il fatto che tale rischio si avveri o meno nel futuro, non fa venire meno la maggiore gravità della invalidità biologica accertata al tempo dell’evento lesivo della salute, e non consente del pari una successiva modifica di tale accertamento medico-legale, espresso in termini di grado percentuale di invalidità biologica già “comprensivo” del potenziale peggioramento delle condizioni di salute determinato dal maggior rischio indicato.

Nella responsabilità civile, a differenza che nel sistema delle assicurazioni sociali delle malattie professionali che risponde prevalentemente ad esigenze solidaristiche e previdenziali (nella infortunistica del lavoro, infatti, è prevista espressamente la possibilità, in caso di aggravamento di una “revisione” della indennità erogabile in rendita, che può anche essere soppressa “nel caso di recupero della integrità psicofisica”: D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13, comma 4 e 7), alla progressiva ingravescenza della “menomazione” della salute non corrisponde analogo modo di essere e di modificazione incrementativa del “danno biologico risarcibile”: se così fosse nessun accertamento giudiziale del danno sarebbe suscettibile di acquistare efficacia di giudicato, ed il danno liquidato in sentenza, anche nel caso di adempimento spontaneo od eseguito coattivamente mediante corresponsione della somma di denaro equivalente, non potrebbe produrre la estinzione della obbligazione risarcitoria che continuerebbe a gravare “sine die” sul debitore rendendo attualizzabile all’infinito la prestazione risarcitoria, ipotesi queste entrambe configgenti con i principi della certezza del diritto e della tendenziale stabilità delle situazioni giuridiche ai quali è informato l’ordinamento giuridico e che trova diretta espressione nell’istituto della prescrizione dei diritti.

Deve essere dato seguito, pertanto, al consolidato principio -confermato anche dalle Sezioni Unite di questa Corte – secondo cui “In materia di diritto al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, qualora si tratti di un illecito che, dopo un primo evento lesivo, determina ulteriori conseguenze pregiudizievoli, il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria per il danno inerente a tali ulteriori conseguenze decorre dal verificarsi delle medesime solo se queste ultime non costituiscono un mero sviluppo ed un aggravamento del danno già insorto, bensì la manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi con l’esaurimento dell’azione del responsabile.” (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 6360 del 28/11/1981; id. Sez. 3, Sentenza n. 6259 del 24/10/1983; id. Sez. U, Sentenza n. 3993 del 02/05/1996; id. Sez. 1, Sentenza n. 17940 del 25/11/2003; id. Sez. U, Sentenza n. 580 del 11/01/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 8156 del 03/04/2009; id. Sez. 3, Sentenza n. 9711 del 22/04/2013; id. Sez. 3, Ordinanza n. 18056 del 05/07/2019, in motivazione).

Il danno liquidato nel suo equivalente monetario, una volta che è stato interamente risarcito (capitale ed accessori), estingue dunque il debito, che non può successivamente risorgere come la fenice, e legittimare una “ulteriore” richiesta di adeguamento del risarcimento già interamente corrisposto, occorrendo – tuttavia – precisare che una nuova domanda risarcitoria potrà, invece, ammettersi:

– nel caso in cui intervenga un nuovo evento lesivo della salute (distinto da quello che aveva determinato i postumi invalidanti) che venga ad incidere sullo stesso distretto anatomo-funzionale o sulla funzionalità dello stesso organo di senso, determinando quindi una menomazione concorrente (e non soltanto coesistente) con quella preesistente: in tal caso, tuttavia, non risorge la precedente obbligazione risarcitoria estinta, ma sussiste una nuova obbligazione risarcitoria avente ad oggetto le “ulteriori” consegue pregiudizievoli arrecate al soggetto, che dovranno essere valutate come “danno biologico incrementale” – secondo i criteri propri della medicina legale -, trattandosi di menomazioni che “ab externo” vengono a peggiorare una precedente menomazione, comportando una complessiva maggiore invalidità biologica del soggetto, non riducibile alla mera somma dei gradi di invalidità corrispondenti a ciascuna menomazione;

– nel caso in cui, al momento dell’accertamento del danno biologico, la scienza medica fosse stata del tutto ignara delle possibilità evolutive della patologia o dei rischi cui la stessa esponeva il soggetto leso, sicchè a distanza di tempo può venire a manifestarsi una menomazione – eziologicamente riconducibile al primigenio fatto lesivo della salute – che era del tutto sconosciuta ed imprevedibile al momento della lesione, e che si configura, pertanto, allo stesso modo di un danno-conseguenza ontologicamente nuovo, che non era stato considerato dai baremes medico-legali e non era stato quindi ricompreso nel precedente accertamento del grado di invalidità biologica e nella liquidazione risarcitoria (si veda, al proposito, il precedente di questa Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 6360 del 28/11/1981 che, in relazione alla lesione determinata da infezione trasfusionale con postumi individuati nella isoimmunizzazione del soggetto, ha considerato danni assolutamente imprevedibili “ab origine” la perdita del feto e della capacità di procreare; ed ancora il precedente di questa Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 7139 del 21/03/2013 che, in relazione al fatto lesivo costituito dalla perforazione di un occhio, accertata guaribile con postumi limitati ad una mera riduzione del “visus” con strabismo, ha ritenuto eccezionale il verificarsi a distanza di tempo di una degenerazione imprevista ed imprevedibile – risultato solo successivamente riconducibile alla originaria lesione – comportante la totale perdita dell’organo di senso).

Pertanto l’assunto difensivo secondo cui la prescrizione del diritto al risarcimento del danno jure hereditatis non potrebbe neppure porsi per il danno terminale e catastrofale (cfr. ricorso pag. 13), non può essere condivisa, dovendo ritenersi in conseguenza conforme a diritto – per le ragioni già indicate e per quelle che verranno ulteriormente precisate nell’esame del secondo motivo di ricorso – la pronuncia della Corte d’appello che ha dichiarato estinto per prescrizione il diritto al risarcimento del danno biologico e morale, non potendo venire in rilievo gli “aggravamenti” della situazione patologica.

Secondo motivo: violazione degli artt. 2935,2947 c.c., della L. n. 210 del 1992, dell’art. 113 c.p.c.; travisamento della prova, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Viene impugnata la statuizione che ha dichiarato la prescrizione del diritto “jure hereditatis” al risarcimento del danno biologico per invalidità permanente, ma – come è stato già evidenziato nell’esame del precedente motivo – la censura deve intendersi rivolta a censurare la prescrizione del diritto al risarcimento di tutti i danni biologici e morali patiti dal de cuius e fatti valere “jure successionis” dagli eredi.

La Corte territoriale ha fatto applicazione del principio secondo cui la prescrizione del diritto inizia a decorrere da quando il diritto può essere esercitato e dunque solo quando tutti gli elementi costitutivi del diritto vengono ad essere noti al danneggiato, ed ha in conseguenza individuato il “dies a quo” di decorrenza del termine prescrizionale alla data del (OMISSIS) – relativa al ricovero di M.F. presso la clinica odontoiatrica della Università (OMISSIS) – in quanto, dai dati anamnestici della cartella clinica, emergeva che il paziente risultava affetto da “epatite virale di tipo trasfusionale due anni fa”, e dunque era già nota a quel tempo anche la derivazione causale della infezione dall’atto trasfusionale.

Secondo i ricorrenti vi sarebbe stato un “travisamento della prova”, atteso che nella cartella clinica, acquisita dal CTU, relativa al ricovero del paziente dal (OMISSIS) presso l’Ospedale Generale (OMISSIS), era stata posta diagnosi di ingresso “epatite acuta iatrogena, sindrome emofilia, esito miglioramento”, e dunque la consapevolezza del danno doveva ritenersi esclusa proprio dalla indicazione “esito miglioramento” non potendosi imputare alla vittima la inerzia nell’esercizio del diritto.

Il motivo è infondato.

Costituisce principio consolidato quello per cui “la responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus HBV, HIV e HCV contratte da soggetti emotrasfusi è di natura extracontrattuale, nè sono ipotizzabili, al riguardo, figure di reato tali da innalzare i termini di prescrizione (epidemia colposa o lesioni colpose plurime): ne consegue che il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto tali patologie per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al termine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma dell’art. 2935 c.c. e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008).

La Corte distrettuale si è conformata a tale principio, laddove, con accertamento di merito, insindacabile in questa sede di legittimità, salvo l’errore di fatto denunciabile nei soli limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ha ritenuto che la etiopatogenesi della malattia conclamata già da tempo, fosse stata resa nota al paziente nel (OMISSIS), avendo riferito egli stesso l'”origine trasfusionale” della contrazione del virus, circostanza che, lungi dall’essere contrastata dalla diagnosi di ingresso presso il (OMISSIS), ne trova invece piena conferma, essendo evidenziata nella diagnosi la “causa iatrogena” della epatite acuta (cfr. documento trascritto a pag. 14 ricorso), e dovendo ritenersi, quindi, del tutto infondata la censura di “travisamento” del fatto rappresentato dal documento clinico in questione. Del tutto priva di rilevanza è l’annotazione “esito miglioramento” apposta nella diagnosi di ingresso, in quanto non incide sul nesso di causalità tra atto medico-trasfusionale ed infezione epatica, ma soltanto sul diverso stadio di evoluzione o regressione della malattia: ciò che non esclude, pertanto, la conoscenza da parte del danneggiato della imputabilità della patologia epatica alla trasfusione.

Ne segue che la pronuncia di prescrizione del diritto al risarcimento del danno biologico “jure hereditatis” deve ritenersi esente dalle censure prospettate.

Debbono in conseguenza formularsi i seguenti principi di diritto:

“Le nozioni di “danno terminale” e di “danno catastrofale” rivestono carattere meramente descrittivo e non hanno rilevanza giuridica, in quanto non identificano alcuna peculiare entità ontologica distinta dal “danno biologico” – come normativamente definito – e dal “danno morale” – inteso quest’ultimo quale componente del danno non patrimoniale risarcibile a seguito della lesione della integrità psicofisica del soggetto -.

Le predette nozioni esprimono soltanto una diversa dimensione del danno – rispettivamente, biologico e morale- della quale il Giudice deve tenere conto nell’esercizio del potere di liquidazione equitativa, indicando gli specifici elementi circostanziali considerati ai fini della aestimatio ed i parametri di stima applicati”.

“Il danno “catastrofale” è una forma lessicale descrittiva di un “danno morale” di estrema intensità, in quanto riflette il senso di disperazione vissuto dal soggetto in attesa consapevole della morte, evento avvertito come ineluttabile: presupposti indefettibili per il riconoscimento di tale voce di danno sono 1 – lo stato di coscienza e la comprensione, da parte della vittima, della propria irrimediabile condizione clinica e 2 – la non immediatezza del decesso seguito alle lesioni, dovendo la vittima permanere in vita per un intervallo di tempo anche minimo, ma oggettivamente apprezzabile”.

“Il danno “terminale” è una forma lessicale descrittiva di un “danno biologico temporaneo” che consiste nella incapacità del soggetto di attendere alle comuni attività quotidiane ed allo svolgimento delle relazioni sociali per un tempo limitato, in quanto destinato a cessare, in considerazione della natura letale della lesione, con l’exitus, ossia con la definitiva estinzione della persona fisica.

La incapacità biologica temporanea perdura in relazione alla durata della malattia e viene a cessare con la guarigione -con pieno recupero delle capacità anatomo-funzionali dell’organismo-, o invece con l’adattamento dell’organismo alle mutate e degradate condizioni di salute, o ancora con la morte.

Nel caso di patologie cd. ingravescenti, in cui non può escludersi anche un possibile futuro esito letale, ma che – a seguito della lesione – determinano uno stato di invalidità del soggetto che trova espressione nei gradi percentuali definiti per ciascuna patologia dai “baremes” elaborati dalla comunità scientifica ed utilizzati in medicina legale, non viene in questione un “danno terminale” (danno biologico da inabilità temporanea), ma un danno “biologico da invalidità permanente”, atteso che i “baremes” considerano nella scala dei gradi di invalidità il maggiore rischio, cui è esposto il paziente, di subire anche a distanza di tempo – una ripresa e sviluppo del fattore patogeno, che potrebbe condurre al decesso, ovvero di incorrere in ulteriori complicanze incidenti peggiorativamente sullo stato di salute, eziologicamente riconducibili all’originaria patologia.

Tali ipotesi definiscono la nozione di “aggravamento” che, nel sistema della responsabilità civile, non determina la insorgenza di un “nuovo” diritto risarcitorio – volto ad adeguare l’eventuale liquidazione dell’equivalente monetario corrispondente al valore del danno biologico, come già stimato al tempo della originaria lesione della salute ed interamente risarcito mediante adempimento spontaneo o mediante realizzazione coattiva del diritto -, non potendo perdurare in una sorta di quiescenza e poi risorgere ex novo un debito ormai definitivamente estinto.

L'”aggravamento”, infatti, costituisce la mera concretizzazione di un rischio connesso alla patologia, la cui possibilità di accadimento era stata già considerata nella stima della ridotta validità biologica del soggetto residuata dopo la lesione. Diverso essendo il caso in cui, al tempo della lesione, l’ulteriore evento dannoso, manifestatosi a distanza di tempo, pur riconducibile eziologicamente alla originaria lesione, fosse stato invece – al tempo dell’accertamento del danno – del tutto imprevedibile e sconosciuto alla scienza medica, e quindi non considerato dai “baremes”: in quest’ultima ipotesi, infatti, l’evento dannoso successivamente verificatosi vien ad incidere sul perfezionamento di tutti gli elementi della fattispecie illecita, e rendendo solo successivamente conoscibile la relazione di derivazione causale del “nuovo” danno dalla originaria lesione della salute, legittima la proposizione di una distinta domanda risarcitoria”.

“Nel caso in cui sia stato liquidato o debba liquidarsi il danno biologico derivato dalla contrazione del virus HCV per fatto colposo imputabile alla struttura sanitaria, alla produzione del quale ha concorso causalmente anche la condotta omissiva della Amministrazione pubblica – per avere trascurato la dovuta vigilanza ed i controlli sull’applicazione delle misure di prevenzione e precauzionali -, la sopravvenuta morte del soggetto in conseguenza della evoluzione o della ripresa della patologia epatica non determina un “nuovo” danno alla salute autonomo e diverso che si aggiunge al danno biologico da invalidità temporanea e permanente, in precedenza già accertato e liquidato, atteso che l’exitus deve essere considerato come prevedibile estremo rischio di aggravamento della possibile evoluzione della patologia contratta con l’infezione HCV”.

Terzo motivo: violazione degli artt. 2043,2056,1223 e 1226 c.c.; D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 137, art. 113 c.p.c.

Vengono impugnate le statuizioni della sentenza di appello che rigettano la domanda risarcitoria relativa al danno patrimoniale “emergente” (spese funerarie, di locomozione per visite e degenza): in quanto non supportata dal alcun riscontro probatorio

al danno patrimoniale da “lucro cessante” – richiesto “jure successionis” – per mancata percezione da parte del de cuius degli emolumenti futuri che avrebbe continuato a percepire, a titolo di pensione, se non fosse deceduto anticipatamente: trattandosi di diritto prescritto ex art. 2947 c.c. e non avendo richiesto i ricorrenti il danno “jure proprio” – al danno patrimoniale per mancata percezione, da parte del cuius, di somme spettanti a titolo di “arretrati” pensionistici.

Il motivo è inammissibile in quanto i ricorrenti si limitano a reiterare le medesime richieste formulate nei gradi di merito senza investire le “rationes decidendi” della sentenza impugnata:

a) correttamente la Corte territoriale, quanto alla mancanza di prova delle voci di spesa integranti il danno emergente, ha escluso che l’onere della prova gravante sul danneggiato potesse essere surrogato dal potere di liquidazione equitativa ex art. 2056 c.c. che presuppone, sia l’esistenza del danno (ed alcun allegazione è contenuta nel ricorso circa eventuali viaggi compiuti dai familiari o periodi di degenza in strutture di cura non coperte dalla assistenza sanitaria pubblica), sia la impossibilità od estrema difficoltà di fornire la prova, elementi entrambi privi di riscontro probatorio;

b) correttamente è stata esclusa dall’ambito del danno risarcibile la pretesa relativa ad eventuali somme “arretrate” spettanti al de cuius a titolo di pensione, palesandosi la censura altresì inammissibile per difetto di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, non essendo stati neppure indicati nel ricorso quali fossero gli importi arretrati, nè le ragioni per le quali somme dovute dall’ente previdenziale, ed al quale gli eredi ben possono richiederle, dovessero essere invece imputate a danno risarcibile;

c) esente da vizi è anche la pronuncia che esclude il danno da “lucro cessante” derivante dalla invalidità lavorativa specifica del de cuius, e per mancata percezione degli emolumenti pensionistici spettanti – dopo la morte – fino alla ipotetica età di anni settantacinque (danni richiesti “jure successionis”), sia per intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno patrimoniale – alla stregua della pregressa conoscenza acquisita dal de cuius dei fatti generatori del danno e del mancato tempestivo esercizio del diritto nel quinquennio -, sia perchè alcun ulteriore diritto agli emolumenti pensionistici il danneggiato avrebbe potuto acquisire al proprio patrimonio, dopo la morte, sicchè nulla avrebbe potuto trasmettere agli eredi.

Quanto alla allegazione dei ricorrenti secondo cui il danno da lucro cessante era stato richiesto anche “jure proprio” (dovendo intendersi in relazione alla quota di emolumenti che il de cuius, in vita, avrebbe elargito alla famiglia per provvedere ai bisogni del coniuge e dei figli), osserva il Collegio che la censura difetta del tutto di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, non essendo stato indicato neppure in quale atto processuale del giudizio di merito tale richiesta sarebbe stata formulata.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato. L’andamento altalenante della lite, e la obiettiva incertezza determinata da una materia che ha ancora ricevuto una definitiva sistemazione nei diversi formanti del diritto, induce a compensare interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

PQM

rigetta il ricorso principale.

Dichiara compensate le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa la indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di M.F. riportati nella sentenza.

Così deciso in Roma, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2019

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