Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29488 del 23/12/2020

Cassazione civile sez. I, 23/12/2020, (ud. 12/11/2020, dep. 23/12/2020), n.29488

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17072/2019 proposto da:

S.S., elettivamente domiciliato in Roma Via Antonio Stoppani

34, presso lo studio dell’avvocato Silvagni Luca, e rappresentato e

difeso dall’avvocato Colavincenzo Danilo, in forza di procura

speciale in atti;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 2701/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 27/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/11/2020 da Dott. IOFRIDA GIULIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Ancona, con sentenza n. 2701/2018, depositata in data 27/11/2018, ha respinto l’impugnazione di S.S., cittadino del (OMISSIS), avverso la decisione di primo grado, che, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, aveva respinto la richiesta dello straniero di riconoscimento dello status di,,ugiato e della protezione sussidiaria ed umanitaria.

In particolare, i giudici d’appello hanno sostenuto che il racconto del richiedente (essere fuggito dal Paese d’origine perchè accusato di avere, lavorando presso un carcere, fatto evadere alcuni prigionieri, un gruppo di ribelli) non era credibile, per genericità; non ricorrevano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e per la concessione della protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b); quanto poi ala protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), neanche la zona di provenienza del richiedente ((OMISSIS)) era interessata da conflitti armati interni o da violenza indiscriminata (come da report COI EASO 2017, Amnesty International 2016, USDOS 2016); in difetto di una situazione di vulnerabilità, oggettiva o soggettiva, del richiedente, non ricorrevano i presupposti per la concessione della protezione umanitaria, non essendo da solo sufficiente il percorso di integrazione in Italia.

Avverso la suddetta pronuncia, S.S. propone ricorso per cassazione, notificato il 27/5/2019, affidato a cinque motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che si costituisce al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 6, 7, 8 e art. 14, lett. b), D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, art. 27, comma 1 bis e art. 35 bis, comma 13, in ordine al diniego del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. b) sulla base di fonti non aggiornate ed in assenza di verifica officiosa della capacità effettiva delle autorità statali di fornire protezione dalle persecuzioni per ragioni politiche; 2) con il secondo motivo, l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dalle fonti ufficiali sulla situazione nel (OMISSIS) offerte in giudizio, anche ai fini della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 4, lett. c); 3) con il terzo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione al diniego di protezione umanitaria, malgrado la zona del (OMISSIS) sia disseminata da mine antiuomo e la vicenda del richiedente fosse legata al conflitto in atto nella zona; 4) con il quarto motivo, l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo oggetto di discussione, rappresentato dal percorso di integrazione avviato in Italia dal richiedente; 5) con il quinto motivo, la violazione o falsa applicazione, art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e dell’art. 6 del Patto Internazionale dei diritti economici e sociali e culturali adottato dall’Assemblea Generale dell’ONU il 16/12/1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con L. n. 881 del 1977, in relazione al diniego di protezione umanitaria, malgrado, sempre, il serio percorso lavorativo avviato in Italia dal richiedente.

2. La prima censura è inammissibile, non confrontandosi con il decisum, avendo la Corte di merito ritenuto il racconto del richiedente anzitutto non credibile, con conseguente insussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b).

3. Il secondo motivo è inammissibile.

Il ricorrente non allega altre fonti idonee a privare di rilievo quanto in esse riferito se non report di Amnesty International ed il sito (OMISSIS) del Ministero degli esteri, allegati con il ricorso introduttivo del giudizio, che vengono letti come rivelatori di una situazione di violenza indiscriminata, per criticità del livello di sicurezza e possibili minacce terroristiche, nè infine richiama circostanze fattuali decisive che avrebbe dovuto essere sottoposte al contraddittorio.

Più in generale, occorre osservare che è proprio il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ad imporre l’acquisizione di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, non potendo perciò ipotizzarsi la violazione dell’art. 115 c.p.c., ravvisabile solo qualora il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (Cass. 5422/2019, 7580/2019).

Di conseguenza, se la parte ha offerto in visione le COI al momento in cui introduce la domanda, e tra essa e il momento della decisione trascorre del tempo o accadono eventi rilevanti, il giudice deve integrarle con COI più aggiornate (Cass. 28990/2018). Le COI devono infatti essere pertinenti e dirette a far luce sui fatti già dedotti dal ricorrente, ed il concetto stesso di pertinenza va necessariamente coniugato con quello della loro attualità (Cass. 2125/2020).

Pertanto, qualora la parte non abbia offerto alcuna informazione precisa, pertinente e aggiornata sulle condizioni del paese di origine, e cioè informazioni idonee a supportare la valutazione della credibilità e del rischio, l’acquisizione d’ufficio delle COI costituisce attività integrativa che sana la sua inerzia, e quindi non diminuisce le garanzie processuali del soggetto, anzi le amplia, nè lede in alcun modo i suoi diritti. Di conseguenza, nessun vulnus concreto al diritto di difesa si può in questo caso prospettare se il giudice non sottopone preventivamente le COI assunte d’ufficio al contraddittorio, purchè renda palese nella motivazione a quali COI ha fatto riferimento, onde consentire, eventualmente, la critica in fase di impugnazione (Cass. 29056/2019, Cass. 2125/2020).

Nella specie, la Corte d’appello, nel 2018, ha indicato le fonti consultate al fine di escludere che nel (OMISSIS) vi sia una situazione attuale di violenza indiscriminata. Il ricorrente non indica nel motivo di ricorso quali erano le fonti allegate, in appello, e non esaminate dalla Corte, per essersi questa basata su altre fonti non previamente sottoposte al contraddittorio delle parti.

La doglianza è altresì inammissibile perchè mira a sostituire le proprie valutazioni con quella, svolta, sulla base di informazioni tratte da fonti attuali, insindacabilmente (al di fuori dei limiti dell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5).

4. Il terzo, quarto e quinto motivo, attinenti alla richiesta di protezione umanitaria, da trattare unitariamente in quanto connessi, sono infondati.

La Corte d’appello ha ritenuto che non sussistevano i presupposti della richiesta di protezione per ragioni umanitaria, in difetto di condizioni di vulnerabilità, soggettive ed oggettive, non essendo sufficiente comunque il solo percorso di integrazione in Italia.

Orbene, è stato e chiarito che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Il diritto alla protezione umanitaria è in ogni caso collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della Novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicchè essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio; non può essere in nessun caso elusa la verifica della sussistenza di una condizione personale di vulnerabilità, occorrendo dunque una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio: i seri motivi di carattere umanitario possono allora positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 cit., art. 5, comma 6” (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

In conclusione, la sproporzione tra i due contesti di vita non possiede di per sè alcun rilievo, salvo emerga che essa ha determinato specifiche ricadute individuali, distinte da quelle destinate a prodursi sulla generalità delle persone provenienti dal medesimo ambito territoriale.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nelle recenti sentenze nn. 29459 e 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

In definitiva, il carattere “aperto” dei motivi di accoglienza tutelati con la protezione umanitaria non fa venir meno la necessità dell’effettivo riscontro di una situazione di vulnerabilità che non può non partire dalla situazione del Paese di origine del richiedente, correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza.

Nella specie, la Corte di merito ha compiuto una esaustiva valutazione della situazione del richiedente, rilevando la mancanza di situazioni di vulnerabilità, sia oggettiva sia soggettiva, del richiedente, nè vengono dedotte situazioni di vulnerabilità, già allegate nel merito, e non prese in esame dalla Corte distrettuale.

5. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

PQM

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2020

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