Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29485 del 21/10/2021

Cassazione civile sez. trib., 21/10/2021, (ud. 13/10/2021, dep. 21/10/2021), n.29485

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15550/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

M.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Adriana Romoli,

in virtù procura speciale in calce al ricorso, elettivamente

domiciliato in Roma, presso il suo studio, Via Ildebrando Goiran, n.

23;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Piemonte, n. 1441/31/2014, depositata il 12 dicembre 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 ottobre

2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale del Piemonte rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Cuneo (n. 111/4/2012), che aveva accolto il ricorso presentato da M.G. avverso l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti, per l’anno 2007, dall’Agenzia delle entrate, per un maggior reddito di impresa e per l’omessa fatturazione di prestazioni d’opera rese nell’ambito di un contratto di subappalto, stipulato con l’appaltatore L.M., avente come committente B.E., come emerso nel corso di una deposizione resa quale teste dal M. nel processo civile intercorso dinanzi al tribunale di Saluzzo tra l’appaltatore L. ed il committente B. e, definito con sentenza n. 205/2001 del Tribunale di Saluzzo. In particolare, il giudice d’appello evidenziava che, contrariamente a quanto affermato dall’Ufficio, alla “revoca” dell’appalto comunicata dal committente B. all’appaltatore L. nell’ottobre 2007, non poteva ricondursi l’ultimazione a tale epoca dei lavori subappaltati al M., essendo questi rimasto estraneo al rapporto principale. L’Ufficio non solo non aveva provato, ma neppure aveva dedotto che entro il 31 dicembre 2007 il M. avesse effettivamente ultimato le prestazioni previste nel contratto di subappalto, né che il contribuente fosse stato tempestivamente informato della mancata possibilità di ultimare i lavori, così da poter ritenere definitivamente esaurita la propria attività. L’art. 1665 c.c., applicabile anche al subappalto, prevedeva il diritto al pagamento del corrispettivo da parte del subappaltatore solo dopo la verifica e l’accettazione dell’opera da parte del committente, che ben poteva chiedere ulteriori interventi a seguito di vizi o irregolarità. Pertanto, nel 2007 non era certa, né determinabile l’entità del ricavo da subappalto, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109. Inoltre, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 2, stabiliva che le prestazioni di servizi si consideravano effettuate al momento del pagamento, ma l’Ufficio non aveva però provato che il M. fosse stato pagato nell’esercizio 2007 o successivamente.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

3. Resiste con controricorso il contribuente.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con un unico motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2, in relazione all’art. 1671 c.c.”. Invero, il contratto di subappalto, stipulato tra il contribuente e l’appaltatore Li.Ma. in data 7 ottobre 2006, funzionalmente collegato, in forza di un rapporto di dipendenza genetica con il contratto d’appalto, è stato “risolto per recesso” da parte del committente nel mese di ottobre 2007, come confermato dalla sentenza del giudice d’appello. Pertanto, a tale data deve ricondursi il momento finale di esecuzione del contratto di appalto e, conseguentemente, del contratto di subappalto, ossia il momento coincidente con l’ultimazione delle prestazioni, non essendo configura bile la possibilità per l’appaltatore di proseguire l’esecuzione dell’opera. Erroneamente, dunque, il giudice d’appello ha ritenuto che alla revoca dell’appalto comunicata dal committente B. all’appaltatore L. nell’ottobre 2007, non poteva ricondursi l’ultimazione dei lavori subappaltati al M., essendo questi rimasto estraneo al rapporto principale. L’obbligo di dichiarare il reddito sorge alla data in cui risulta ultimata la prestazione, senza che possa ritenersi in alcun modo rilevante il momento dell’effettivo pagamento. L’estraneità del M. al contratto di appalto principale non esclude che questi debba subire gli effetti che derivano dalle vicende del primo, stante il rapporto di pregiudizialità – dipendenza, in forza del quale le vicende che riguardano l’appalto sono destinate necessariamente riflettersi sul subappalto. Il recesso del committente ha determinato l’automatico venir meno del contratto di subappalto, senza necessità di espressa dichiarazione di volontà delle parti. Non trova, allora, applicazione l’art. 1665 c.c. che prevede il diritto al corrispettivo da parte dell’appaltatore soltanto nel momento di accettazione dell’opera da parte del committente.

2. Il motivo è fondato nei termini di cui in motivazione.

2.1. Invero, i fatti di causa sono pacifici tra le parti. In data 7 ottobre 2006 è stato stipulato il contratto di subappalto tra L.M. (appaltatore-subappaltante) ed il subappaltatore M.G., esercente attività di intonacatura, mentre il committente era B.E.. Sia il giudice di prime cure che il giudice d’appello hanno affermato essersi verificata la “revoca” dell’appalto da parte del committente B. (cfr. motivazione della sentenza di primo grado riportata a pag. 3 del ricorso per cassazione “La Commissione non è convinta dell’osservazione dell’Agenzia alla quale vorrebbe far coincidere l’ultimazione delle prestazioni con la revoca dell’appalto e la chiusura (sospensione) del cantiere”; motivazione della sentenza d’appello “diversamente da quanto sostenuto dall’ufficio, alla revoca dell’appalto comunicata dal committente B. all’appaltatore L. nell’ottobre 2007, non può ricondursi l’ultimazione a tale epoca dei lavori subappaltati al M.”).

Successivamente, l’appaltatore L. ha proposto azione giudiziaria nei confronti del committente B., e, nel corso del giudizio, il contribuente M. è stato sentito come teste ed ha dichiarato di avere svolto l’attività di subappaltatore in favore del subappaltante L.M., quantificandola in circa 1000 ore lavorative, ma di non aver percepito alcun compenso. Il processo civile è stato definito con sentenza pronunciata dal tribunale di Saluzzo 19 maggio 2011, con condanna del committente B. a pagare in favore dell’appaltatore L.M. la somma di Euro 41.840,15, oltre Iva. Nel processo era emerso che il contribuente aveva svolto attività lavorativa senza emettere fattura (questi lo afferma nel ricorso di primo grado, come risulta a pagina 3 del ricorso per cassazione) e senza dichiarare alcun compenso.

L’Agenzia delle entrate ha contestato al M. un maggior reddito di impresa per Euro 35.703,00 (a fronte di un reddito dichiarato pari ad Euro 19.703,00), oltre ad un volume di affari ai fini dell’imponibile Iva pari ad Euro 82.675,00, anziché Euro 66.675,00.

2.2. Il giudice d’appello ha ritenuto applicabile alla fattispecie l’art. 1665 c.c., il quale prevede che il diritto al corrispettivo per l’appaltatore sorge soltanto con l’accettazione dell’opera. L’Agenzia delle entrate, però, non aveva fornito la prova che il L. avesse accettato entro il 31 dicembre 2007 le lavorazioni (o la parte di lavorazioni) eseguite dal subappaltatore. Pertanto, nell’esercizio 2007 non era certa o determinabile l’entità del ricavo da subappalto.

3. La motivazione della sentenza del giudice d’appello è erronea, in quanto resa in aperta violazione dell’art. 1671 c.c.. E’ pacifico, infatti, tra le parti e, soprattutto, è frutto di un accertamento in fatto, da parte di entrambi i giudici di merito, che il committente B. abbia posto in essere una “revoca” del contratto di appalto, prima dell’esecuzione della totalità dei lavori, in assenza di accettazione dell’opera.

Il giudice d’appello, invece, ha completamente omesso di considerare la circostanza dell’avvenuto recesso dal contratto di appalto da parte del committente ed ha, quindi, applicato la pacifica giurisprudenza di legittimità sul tema, in base alla quale il diritto al corrispettivo dell’appalto sorge unicamente al momento dell’accettazione dell’opera da parte del committente, sicché solo in tale momento, ai sensi dell’art. 1655 c.c., è possibile considerare come certa e determinabile la prestazione in favore dell’appaltatore.

3.1. Per questa Corte, infatti, in tema di imposte sui redditi, alla formazione del reddito di impresa in un determinato periodo concorrono, secondo le regole sull’imputazione temporale dei componenti di reddito, i ricavi per corrispettivi (anche se non ancora incassati) degli appalti ultimati nel medesimo periodo, e cioè quelli in cui è intervenuta (o si considera intervenuta) l’accettazione del committente, poiché è in quel momento che si perfeziona il diritto dell’appaltatore al corrispettivo, ai sensi dell’art. 1665 c.c.: pertanto, è onere dell’Amministrazione finanziaria provare se e quando sia intervenuta l’accettazione da parte del committente fattispecie relativa a stati di avanzamento dei lavori emessi dalla contribuente-appaltatrice con le relative fatture, contabilizzate però per l’anno successivo (Cass., sez. 5, 5 maggio 2010,n. 10818; Cass., sez. 5, 16 dicembre 2015, n. 25282). L’accettazione del committente può derivare dalla positiva esecuzione del collaudo oppure anche per facta condudentia, quindi con la manifestazione di una volontà incompatibile con la mancata accettazione (accettazione tacita), ai sensi dell’art. 1665 c.c., commi 2 e 3, (Cass., sez. 5, 18 dicembre 2009, n. 26665; vedi anche Cass., sez. 3, 27 aprile 1968, n. 1331 che ha equiparato alla consegna dell’opera da parte dell’appaltatore l’immissione in possesso avvenuta per iniziativa del committente senza opposizione dell’appaltatore). Inoltre, si è ritenuto che alla formazione del reddito di impresa in un determinato periodo concorrono, in generale, secondo la disciplina prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 53, comma 3, (ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109), i ricavi per corrispettivi (anche non ancora incassati) degli appalti ultimati nel medesimo periodo, e cioè quelli in cui è intervenuta (o si considera intervenuta) l’accettazione del committente, perfezionandosi in quel momento il diritto dell’appaltatore al corrispettivo, ai sensi dell’art. 1665 c.c.. In caso, però, di appalti di lunga (o comunque pluriennale) realizzazione, in cui le parti abbiano convenuto il diritto dell’appaltatore di ricevere corrispettivi in corso d’opera, in relazione ai successivi stati di avanzamento dell’opera stessa, la data in cui è ultimato il servizio, cui fa riferimento il cit. art. 53 (ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109), si identifica con la data di ultimazione della singola partita in cui l’appalto è suddiviso, e, quindi, con il momento dell’approvazione del relativo stato di avanzamento, che determina l’insorgere di un credito, immediatamente esigibile, dell’appaltatore per la relativa parte di compenso (Cass., sez. 1, 29 marzo 1996, n. 2928).

4. In realtà, però, la Commissione regionale non ha tenuto conto in alcun modo della “revoca” nonché della “sospensione dei lavori” esercitata dal committente B. nell’ottobre del 2007. L’espressione generica ed atecnica della “revoca” del contratto di appalto deve essere qualificata come vera e propria manifestazione del diritto potestativo al recesso da parte del committente, di cui all’art. 1671 c.c..

4.1. L’art. 1671 c.c. (recesso unilaterale dal contratto) prevede, infatti, che “il committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno”.

4.2. Per questa Corte, infatti, nel contratto di appalto, il recesso unilaterale del committente previsto dall’art. 1671 c.c. costituisce esercizio di un diritto potestativo e, come tale, non esige che ricorra una giusta causa; ne consegue che la domanda giudiziale con la quale l’appaltatore chieda l’accertamento di tale recesso si fonda su presupposti diversi da quelli posti a base dell’azione con cui il medesimo deduca l’inadempimento del committente, giacché quest’ultima domanda implica un’indagine comparativa delle condotte tenute dalle parti al fine di verificare la colpevolezza e la gravità del comportamento denunciato (Cass., sez. 2, 2 maggio 2011, n. 9645); sicché, in caso di recesso del committente, sia ai sensi dell’art. 1371 c.c. (norma pure derogabile dalle parti come da Cass., sez. 2, 29 gennaio 2003, n. 1295), sia in caso di recesso convenzionale di cui all’art. 1373 c.c. (con patto espresso in tal senso per Cass., sez. 2, 7 marzo 2018, n. 5368), il contratto “si scioglie” senza necessità di indagini sull’importanza e gravità dell’inadempimento (Cass., sez. 2, 27 gennaio 2017, n. 2130), le quali sono rilevanti soltanto quando il committente abbia preteso anche il risarcimento del danno dall’appaltatore per l’inadempimento in cui questi fosse già in corso al momento del recesso (Cass., sez. 2, 22 aprile 2008, n. 10400). Inoltre, si è chiarito che il diritto di recesso esercitabile “ad nutum” dal committente in qualsiasi momento dell’esecuzione del contratto di appalto non presuppone necessariamente uno stato di regolare svolgimento del rapporto, ma, al contrario, stante l’ampiezza di formulazione della norma di cui all’art. 1671 c.c., può essere esercitato per qualsiasi ragione che induca il committente medesimo a porre fine al rapporto, da un canto, non essendo configurabile un diritto dell’appaltatore a proseguire nell’esecuzione dell’opera (avendo egli diritto solo all’indennizzo previsto dalla detta norma), e, da altro canto, rispondendo il compimento dell’opera esclusivamente all’interesse del committente. Ne consegue che il recesso può essere giustificato anche dalla sfiducia verso l’appaltatore per fatti d’inadempimento, e, poiché il contratto si scioglie esclusivamente per effetto dell’unilaterale iniziativa del recedente, non è in tal caso necessaria alcuna indagine sull’importanza dell’inadempimento, viceversa dovuta quando il committente richiede anche il risarcimento del danno per l’inadempimento già verificatosi al momento del recesso (Cass., sez. 2, 29 luglio 2003, n. 11642). In caso di recesso, a differenza della risoluzione di cui all’art. 1453 c.c., l’importanza e la gravità dell’inadempimento non deve essere accertata, dovendosi invece esaminare soltanto se l’atto o la condotta del committente sono incompatibili con la prosecuzione del rapporto (Cass., sez. 2, 13 luglio 1998, n. 6814).

Il recesso può essere esercitato, secondo la dottrina, anche se viene a cessare l’interesse del committente all’esecuzione, rendendo così possibile l’interruzione dell’opera o del servizio.

4.3. Pertanto, non v’e’ dubbio che una volta esercitato da parte del committente il diritto potestativo allo scioglimento dal contratto di appalto (recesso di cui all’art. 1671 c.c.), con la conseguente “sospensione” dei lavori, l’appaltatore, e conseguentemente anche il subappaltatore, non poteva più proseguire nell’esecuzione dell’opera.

Peraltro, il recesso del committente, determinando lo scioglimento del rapporto, preclude al recedente la proposizione della domanda di risoluzione, pur non pregiudicando il suo diritto di chiedere, ai sensi dell’art. 1667 c.c., comma 2, i danni per le inadempienze dell’appaltatore, e, quindi, di far valere i vizi e le difformità dell’opera al fine di ridurre ed eventualmente anche eliminare l’indennizzo a lui dovuto (Cass., sez. 1, 10 giugno 1959, n. 1766).

In caso di recesso unilaterale dal contratto spetta all’appaltatore un indennizzo per le spese sostenute, i lavori eseguiti ed il mancato guadagno. Grava, perciò, sull’appaltatore, che chieda di essere indennizzato, l’onere di dimostrare quale sarebbe stato l’utile netto da lui conseguibile con l’esecuzione delle opere appaltate, costituito dalla differenza tra il pattuito prezzo globale dell’appalto e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere, salva la facoltà, per il committente, di provare che l’interruzione dell’appalto non ha impedito all’appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli ha procurato vantaggi diversi, venendo in rilievo una compensatio lucri cum damno (Cass., sez. 2, 5 aprile 2017, n. 8853).

Il mancato guadagno va calcolato in concreto, valutando il profitto che l’appaltatore avrebbe tratto dall’esecuzione dell’opera o del servizio, non il profitto calcolato o previsto al momento della conclusione del contratto; deve dunque tenersi conto, per la dottrina, del profitto che effettivamente sarebbe stato conseguito al termine dell’esecuzione, da calcolare sulla base di dati obiettivi e nel presupposto che l’appaltatore avrebbe adempiuto esattamente, nel termine stabilito.

5. Deve, a questo punto, valutarsi se il subappalto stipulato tra l’appaltatrice L.M. ed il contribuente M. (subappaltatore), sia venuto meno a seguito del recesso del committente B. ex art. 1671 c.c., stante la natura di subcontratto di questo secondo rapporto, oppure se trovi applicazione lo scioglimento contrattuale di cui all’art. 1672 c.c. (impossibilità di esecuzione dell’opera). La scelta dell’applicazione di una delle due norme potrebbe avere dei rilevanti risvolti di carattere tributario, con riferimento alla individuazione della natura del debito dell’appaltatore nei confronti del subappaltatore, se di valuta o di valore.

5.1. L’art. 1672 c.c. prevede che “se il contratto si scioglie perché l’esecuzione dell’opera è divenuta impossibile in conseguenza di una causa non imputabile ad alcuna delle parti, il committente deve pagare la parte dell’opera già compiuta, nei limiti in cui è per lui utile, in proporzione del prezzo pattuito per l’opera intera”.

Per la dottrina, ci si trova dinanzi ad una ipotesi di impossibilità parziale della prestazione ai sensi dell’art. 1464 c.c.. Vengono, dunque, regolate le conseguenze dell’impossibilità di compimento dell’opera, che sopravvenga dopo l’inizio dell’esecuzione. Se l’impossibilità è soltanto parziale, nel senso che sussiste un interesse del creditore al compimento della prestazione, il contratto non si scioglie, ma la controprestazione riceve una adeguata riduzione nell’appalto; tale ipotesi si configura qualora l’opera, sebbene incompiuta, offra ugualmente un’utilità al committente; in tal caso la riduzione a favore del committente viene determinata fissando l’ammontare del corrispettivo con riferimento alla sola parte compiuta dell’opera o del servizio, che per lui sia utile. L’utilità va stabilita in relazione al contenuto del contratto ed all’interesse del committente. L’art. 1672 c.c. e’, allora, una semplice applicazione della regola generale posta dall’art. 1464 c.c.

Ci si trova, allora, dinanzi al principio generale del “caso fortuito” o “factum principis”, sicché l’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile alle parti deve essere “assoluta” ed “oggettiva” (tanto che non costituisce causa di scioglimento ex art. 1672 c.c. l’intervenuto fallimento dell’appaltatore, ai sensi della L. Fall., art. 81, in quanto in tal caso lo scioglimento origina da un evento di natura personale, come da Cass., sez. 3, 21 ottobre 2010, n. 21599). L’impossibilità sopravvenuta può derivare anche da atti legislativi, amministrativi o giudiziari della pubblica autorità, come in caso di mancata approvazione del progetto di una costruzione edilizia da parte del Comune, oppure quando l’idoneità di un’area edificabile venga esclusa o compromessa a seguito dell’inizio della procedura di espropriazione per pubblica utilità. Rilevano anche eventuali cause naturali che incidano sul suolo, come movimenti di terra, alluvioni ed altro.

Se la parte eseguita è utile per il committente, questi deve pagarla in proporzione del prezzo pattuito per l’opera intera, nei limiti della sua utilità.

6. E’ preferibile la tesi per cui il contratto di subappalto, in caso di recesso del committente ex art. 1671 c.c., subisce inevitabilmente il riflesso dell’esercizio del diritto potestativo del committente sul contratto d’appalto originario. Ovviamente, una volta scioltosi il contratto di appalto, a seguito dell’esercizio del diritto potestativo di recesso da parte del committente, ne consegue in via automatica lo scioglimento anche del contratto di subappalto, che è collegato funzionalmente al contratto di appalto, quale contratto “derivato”. Se, dunque, durante l’esecuzione dell’opera il committente recede dal contratto principale o risolve il negozio, anche il rapporto di subappalto ne subisce le conseguenze. Si è chiarito in dottrina che il contratto “derivato” deve considerarsi un caso di collegamento tra due contratti, i quali, pur conservando autonoma causa ed esistenza, sono coordinati in funzione di unitaria operazione economica, con la possibilità che le vicende di uno si ripercuotano sull’altro. Trattasi di un collegamento unilaterale, in cui il contratto derivato è accessorio al contratto base, del quale presuppone l’esistenza e dal quale è condizionato quanto a validità ed efficacia. Pertanto, determinando il collegamento contrattuale una subordinazione del subappalto all’appalto principale, le vicende di quest’ultimo si ripercuotono sul subcontratto e si trasmettono, quindi, per una sorta di osmosi, le cause di invalidità e di risoluzione. Pertanto, nel caso eccezionale in cui la legge riconosce al committente il diritto potestativo di scioglimento dal contratto di appalto, attraverso lo strumento del recesso di cui all’art. 1671 c.c., si determina automaticamente anche lo scioglimento o l’estinzione del subappalto.

Per questa Corte, invero, dalla natura di contratto derivato o subcontratto del subappalto, deriva che la sorte di detto contratto è condizionata a quella del contratto principale (simul stabunt simul cadent), sicché con riguardo all’opera eseguita dal subappaltatore l’accettazione senza riserve dell’appaltatore, resta condizionata dal fatto che il committente accetti a sua volta l’opera senza riserve (Cass., sez. 2, 11 agosto 1990, n. 8202; Cass., sez. 1, 11 novembre 2009, n. 23903).

7. Peraltro, in giurisprudenza di legittimità, sia che si applichi l’art. 1671 c.c., sia che si applichi l’art. 1672 c.c., il debito dell’appaltatore nei confronti del subappaltatore è comunque un debito di valore e non di valuta (cfr. Cass., sez. 5, 27 maggio 2015, n. 10938; Cass., sez. 5, 30 novembre 2011, n. 25499), con conseguente rivalutazione anche d’ufficio fino alla data della liquidazione (con espresso riferimento al recesso ex art. 1671 c.c., cui corrisponde l’indennità dell’appaltatore sia quale danno emergente che quale lucro cessante, da liquidare, secondo i principi del risarcimento del danno, anche in via equitativa, vedi Cass., sez. 2, 17 novembre 2003, n. 17340; anche Cass., 8 gennaio 2003, n. 77). Si è affermato, infatti, che tali forme di indennizzo comprendono non soltanto i costi sopportati dall’appaltatore ma anche il “mancato guadagno”, essendo l’obbligazione indennitaria una obbligazione di valore, dovendo essere liquidati maggiori oneri alla stregua di un risarcimento danni da “atto legittimo”.

8. Ciò, però, non comporta l’applicazione del principio di cassa in luogo del principio di competenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109. Infatti, come rilevato dalla dottrina, nella maggior parte dei casi, l’attività dell’appaltatore ha natura imprenditoriale e, quindi, la relativa disciplina ai fini delle imposte dirette deve essere ricercata nell’ambito delle disposizioni che attengono alla determinazione del reddito d’impresa, in cui è necessario inquadrare sia i corrispettivi dell’appaltatore sia i costi di realizzazione dell’opera.

Invero, devono essere imputati secondo il criterio di cassa, quindi nel momento in cui il reddito è percepito, i redditi di capitale, di lavoro dipendente, di lavoro autonomo e diversi; vanno imputati secondo il criterio di competenza, in forza del quale costi e proventi hanno rilievo nel periodo di imposta di maturazione, i redditi di impresa ad eccezione di quelli determinati ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 66 (imprese minori), che adottano un regime contabile improntato al criterio di cassa, pur potendo esercitare l’opzione per il regime ordinario. L’opzione per il regime ordinario può esercitarsi anche mediante comportamento concludente, quindi in base alla concreta modalità di tenuta delle scritture contabili (in tal senso cfr. circolare della Agenzia delle entrate n. 109/E/2008).

Inoltre, per questa Corte, in tema di imputazione dei componenti negativi del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 1, (nel testo vigente “ratione temporis”), in assenza di diverse disposizioni specifiche, nel caso di incertezza nellman” o di indeterminabilità nel “quantum” di detti componenti, si applica, in deroga al generale principio di competenza, il principio di cassa, secondo cui gli stessi possono essere imputati all’esercizio in cui ne diviene certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare, qualora di tali qualità fossero privi nel corso dell’esercizio di competenza (Cass., sez. 5, 24 maggio 2017, n. 13048). Nella specie, è innegabile che il valore delle spese sostenute dal subappaltatore, dei lavori da questi eseguiti e del suo “mancato guadagno” fosse, comunque, determinabile già al momento della sospensione dei lavori nell’anno 2007, a seguito dell’esercizio del diritto di recesso da parte del committente ex art. 1671 c.c.. Invero, in dottrina si è affermato che il mancato guadagno va calcolato in concreto, valutando il profitto che l’appaltatore avrebbe tratto dell’esecuzione dell’opera o del servizio, non il profitto calcolato previsto al momento della conclusione del contratto, ma il profitto che effettivamente sarebbe stato conseguito al termine dell’esecuzione, da calcolare sulla base dei dati obiettivi e nel presupposto che l’appaltatore avrebbe adempiuto esattamente, nel termine stabilito. Tra l’altro, nel corso del giudizio civile instaurato dinanzi al Tribunale di Saluzzo è stata espletata una consulenza tecnica d’ufficio che ha quantificato in modo dettagliato le lavorazioni e le opere eseguite dall’ottobre 2006 all’ottobre 2007.

9. Deve, poi, evidenziarsi che la disciplina tributaria dell’appalto è “asimmetrica”, dando luogo a diverse modalità di tassazione, a seconda che si tratti di Iva o di imposte dirette.

Con riferimento alle imposte dirette, come osservato già in precedenza, trattandosi di una prestazione che in genere richiede lunghi tempi di realizzazione, è importante stabilire in quale momento i costi ed i ricavi provocati dall’appalto concorrono alla formazione del reddito. Occorre, dunque, fare riferimento alla data di ultimazione delle prestazioni stesse, come regola generale. Tuttavia, nella specie, essendo intervenuto il recesso del committente ex art. 1671 c.c., il giudice d’appello erroneamente ha fatto riferimento alla data di ultimazione delle opere, mentre avrebbe dovuto tenere conto del fatto che i lavori erano stati sospesi in via definitiva nell’anno 2007.

Con riferimento all’Iva, invece, la natura di prestazione di servizi dell’appalto rileva anche ai fini del momento in cui l’operazione si considera effettuata, trovando applicazione il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, sicché diviene decisivo il momento in cui viene pagato il corrispettivo, purché ovviamente l’appaltante non emetta fattura in un momento anteriore.

10. Pertanto, una volta intervenuto il recesso da parte del committente, si è sciolto il contratto di appalto, con impossibilità per l’appaltatore, come per il subappaltatore, di proseguire nell’esecuzione, venendo conseguentemente meno anche l’accettazione delle opere da parte del committente, ai sensi dell’art. 1665 c.c.. La prestazione, dunque, era certa e determinabile, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2, già al momento del recesso del committente dal contratto di appalto, proprio per l’impossibilità da parte dell’appaltatore e del subappaltatore di proseguire l’esecuzione delle opere.

11. Ne’ coglie nel segno l’obiezione sollevata dal contribuente controricorrente, in base alla quale, il B., committente, ha chiesto all’appaltatore L.M. la risoluzione del contratto per inadempimento, essendo la domanda di risoluzione del tutto incompatibile con una richiesta di recesso.

In realtà, però, questa Corte ha ritenuto che il diritto (del committente) di recedere dal contratto di appalto in ogni momento, ai sensi dell’art. 1671 c.c., tenendo indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno, non può essere più esercitato dal committente che, proponendo domanda di risoluzione per inadempimento, abbia innescato il procedimento di valutazione comparativa dei comportamenti delle parti non più arrestabile “ad libitum” mediante il recesso, soprattutto se nel giudizio l’appaltatore abbia a sua volta proposto domanda riconvenzionale di risoluzione per inadempimento del committente (Cass., sez. 2, 5 settembre 1994, n. 7649; Cass., n. 14781 del 2012; Cass., n. 16404 del 2017).

Tuttavia, nel caso in esame, il recesso del committente, per come emerge dagli atti, avrebbe preceduto e non seguito la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento. Il contratto, insomma, si è sciolto prima della richiesta di risoluzione giudiziale.

12. Va, ancora, osservato che nel caso di risoluzione del contratto di appalto gli effetti retroagiscono al momento dell’inadempimento. Invero, per questa Corte, l’appalto, anche nei casi in cui la sua esecuzione si protragga nel tempo, e fatte salve le ipotesi in cui le prestazioni in esso dedotte attengano a servizi o manutenzioni periodiche, non può considerarsi un contratto ad esecuzione continuata o periodica e, pertanto, non si sottrae alla regola generale, dettata dall’art. 1458 c.c., della piena retroattività di tutti gli effetti della risoluzione, anche in ordine alle prestazioni già eseguite (Cass., sez. 1, 20 febbraio 2015, n. 3455; Cass., sez. 2, 30 ottobre 2018, n. 27640); ne consegue che il prezzo delle opere già eseguite può essere liquidato, a seguito della risoluzione del contratto, a titolo di equivalente pecuniario della dovuta “restitutio in integrum” (Cass., sez. 2, 21 giugno 2013, n. 15705; Cass., sez. 1, 24 maggio 2007, n. 12162).

Pertanto, anche a voler considerare l’eventuale risoluzione del contratto di appalto, in ragione dell’effetto retroattivo della risoluzione, deve tenersi conto delle opere già eseguite all’epoca dell’inadempimento, quindi al momento della “sospensione” dei lavori.

13. Inoltre, la sentenza del giudice d’appello è errata anche nella parte in cui ha ritenuto che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 2, stabilisce che le prestazioni di servizi si considerano effettuate al momento del pagamento; ma l’Ufficio non avrebbe provato e neppure dedotto che il M., subappaltatore, fosse stato pagato nell’esercizio 2007, o successivamente.

13.1. Anzitutto, si evidenzia che per questa Corte l’indennizzo a cui è tenuto il committente, in favore dell’appaltatore, per recesso unilaterale dal contratto ha natura risarcitoria e non di corrispettivo di operazioni di “cessione” o “prestazione”, sicché non è soggetto ad IVA, ma all’imposta di registro con aliquota proporzionale del 3 per cento, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, tariffa allegata, art. 8, lett. b), fatta eccezione per le somme, oggetto della statuizione di condanna, già versate o fatturate nel corso del rapporto, da considerarsi corrispettivi, aventi causa nell’adempimento della prestazione contrattuale, e, quindi, sottoposti ad IVA (Cass., sez. 5, 18 novembre 2015, n. 23577). Nella specie, però, non è stato in alcun modo contestato l’assoggettamento dell’indennizzo all’Iva, sicché sul punto si è formato il giudicato interno. Il giudice di appello ha soltanto messo in discussione il momento della esigibilità dell’imposta, ma ha implicitamente affermato che l’iva era dovuta.

In realtà, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 2, prevede che “le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo”.

In precedenza, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che, in tema di IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, disponendo che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, pone una presunzione assoluta di corrispondenza tra la data della sua percezione e la data di esecuzione della prestazione, cui il corrispettivo si riferisce: ne deriva che, ogni qual volta si debba individuare quando una determinata prestazione di servizi è stata effettuata, non rileva accertare la data nella quale storicamente la medesima sia stata eseguita, bensì (salvo il caso di precedente emissione di fattura) quella di percezione del relativo corrispettivo (Cass., sez. 5, 7 settembre 2018, n. 21870; Cass., sez. 1, 26 ottobre 1995, n. 11150; Cass., sez. 5, 19 febbraio 2009, n. 3976).

Tuttavia, tale lettura del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, secondo questa Corte, a sezioni unite, confligge con la disciplina comunitaria dell’Iva (Cass., sez. un., 21 aprile 2016, n. 8059).

Deve, dunque, operarsi una distinzione in relazione all’iva tra tre diversi momenti, in cui però il secondo ed il terzo coincidono: a) quello del “fatto generatore” dell’imposta e, quindi, l’evento che costituisce l’origine dell’obbligazione tributaria ed l’imponibilità ai fini Iva, cui si ricollegano l’operatività della disciplina del tributo ed i relativi effetti; b) quello delresigibilità” dell’imposta e, quindi, dell’attitudine attuale dell’imposta ad essere pretesa in riscossione da parte dell’Erario; c) quello, infine, del “pagamento”.

Il “fatto generatore” dell’imposta, quale nozione autonoma e distinta, sul piano concettuale, rispetto a quella di “esigibilità” dell’imposta medesima, deve essere ancorato al dato del materiale espletamento dell’operazione (cessione del bene o prestazione del servizio), non a quello del pagamento del corrispettivo (Corte giust.

19 dicembre 2012, in causa C-549/11).

Le direttive unionali puntualizzano che il fatto generatore dell’imposta si identifica con l’effettuazione della cessione di beni oppure con quella della prestazione di servizi, il cui verificarsi determina, “di regola”, anche l’esigibilità dell’imposta. Tuttavia, i due momenti, “fatto generatore dell’imposta” ed “esigibilità” possono anche non coincidere.

Infatti, sia la sesta Dir. Iva 77/388/CEE (art. 10, commi 1 e 2), sia l’attuale Dir. Iva 2006/112/CE (artt. 62, 63 e 66) chiariscono che il fatto generatore dell’imposta si identifica con l’effettuazione della cessione dei beni ovvero con quella della prestazione dei servizi. Deve farsi, allora, riferimento al dato del materiale espletamento dell’operazione, e non a quello del pagamento del corrispettivo (Corte UE, 19 dicembre 2012, in causa c-549/11, proprio in relazione alla prestazione di servizi). Pertanto, tale disciplina unionale osta a che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, sia letto nel senso che, per le prestazioni di servizi, il presupposto impositivo e, con esso, l’insorgenza dell’imponibilità a fini Iva, si verificano, non con l’esecuzione della prestazione, bensì, successivamente, con il pagamento del corrispettivo correlativamente pattuito (Cass., sez. 5, 24 novembre 2020, n. 26650).

Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, allora, non si riferisce al “fatto generatore dell’imposta”, ma esclusivamente alla “esigibilità” dell’Iva. L’ordinamento comunitario, quindi, conferisce agli Stati membri la facoltà di derogare alla disciplina comunitaria con riguardo esclusivamente alle condizioni di “esigibilità” dell’Iva, ma non anche in merito all’identificazione del “fatto generatore dell’imposta”. La Dir. 77/388/CEE, art. 10, paragrafo 2, e la Dir. 2006/112/Ue, art. 65, pur riconoscendo agli Stati margini di discrezionalità nella definizione delle condizioni di “esigibilità” dell’Iva, non contemplano infatti, al riguardo, alcun riferimento al “fatto generatore dell’imposta”. Pertanto, la “ficta” identificazione con il pagamento del corrispettivo, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, attiene al compimento della prestazione con esclusivo riferimento alla sua rilevanza ai fini della mera “esigibilità” dell’imposta; ove ne risultasse coinvolta anche la sua rilevanza ai fini della imponibilità e dell’insorgenza dell’obbligazione tributaria, tale disposizione risulterebbe incompatibile con il diritto unionale.

Si ribadisce, dunque, che vi è una scissione nella nozione di imponibilità ai fini iva, dovendosi distinguere la “genesi” dell’obbligazione tributaria, rispetto alla “esigibilità” dell’imposta, intesa quest’ultima quale attualità della pretesa dell’Erario alla relativa riscossione.

Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, deve riferirsi, conseguentemente, alla sola esigibilità dell’imposta quando fa riferimento al pagamento del corrispettivo, risultando implicita la sua concettuale distinzione ed autonomia dal concetto di “fatto generatore del tributo”.

Il “fatto generatore dell’imposta”, che attiene alla “imponibilità, è ancorato al dato temporale della concreta esecuzione dell’imposta e rileva ai fini della individuazione del periodo di “competenza”, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109. Ciò anche nel rispetto degli artt. 3 e 53 Cost., per l’esigenza imprescindibile di non trattare differentemente situazioni uguali, ancorando l’imponibilità ad un dato oggettivo omogeneo ed insuscettibile di variazioni determinate da scelte casuali e soggettive. La “esigibilità”, invece, attiene alla attualità della pretesa da parte del Fisco e si concretizza all’atto del pagamento del corrispettivo. L’ancoraggio della esigibilità al momento della riscossione del corrispettivo risponde, infatti, ad esigenze di semplificazione funzionali alla riscossione.

14. I due momenti “di regola” coincidono, ma se c’e’ scissione temporale, se ne deve tenere conto, distinguendo rigorosamente i due concetti.

Tuttavia, il passaggio della motivazione del giudice di appello che onera l’Ufficio di dimostrare il momento dell’effettivo pagamento, ai fini dell’Iva, è errato.

Va premesso che l’avviso di accertamento, analitico-induttivo, è stato emesso dalla Agenzia delle entrate sulla base di specifici elementi indiziari, gravi, precisi e concordanti: le dichiarazioni del M., quale teste nel contenzioso civile tra committente e appaltatore, di avere svolto 1000 ore di lavoro nel restauro dell’immobile di (OMISSIS); il corrispettivo pattuito dal committente B. con l’appaltatore L.M. per Euro 20,50 l’ora; il coefficiente di ricarico sul “costo per la produzione di servizi” di 1,2788 come desunto dallo studio di settore; la determinazione del costo della quota oraria per i servizi resi dal subappaltatore pari ad Euro 16,00; l’ammontare complessivo dei ricavi pari ad Euro 16.000,00 (1000 ore X 16,00, al netto Iva); la cessazione definitiva dei lavori a seguito del recesso del committente nell’ottobre 2007; la condanna del committente, in sede di giudizio civile, al pagamento delle opere eseguite per la somma di Euro 41.840,15, oltre Iva (cfr. pag. 2 del ricorso per cassazione).

Invero, poiché il momento del fatto generatore di imposta (Iva) e di esigibilità “di regola” coincidono, sulla scorta del diritto unionale, allora anche l’esigibilità dell’Iva doveva individuarsi nell’anno di imposta 2007, essendo pacifico che i lavori erano stati sospesi nel 2007, a seguito del recesso del committente ex art. 1671 c.c., con il conseguente scioglimento anche del contratto di subappalto, essendo incontroverso anche che i lavori non sono stati più ripresi successivamente. Nel 2007 si è verifica una cesura definitiva del rapporto, che implicava anche il pagamento del compenso al subappaltatore, che aveva svolto 1000 ore di lavoro per conto dell’appaltatore L.M.. In tal caso, non era onere del Fisco dimostrare, ai fini dell’esigibilità dell’Iva, il momento dell’effettivo pagamento del corrispettivo in favore del subappaltatore, se avvenuto nell’esercizio 2007 o successivamente, come affermato dal giudice di appello; ma era onere del contribuente, per il principio di “vicinanza alla prova”, trattandosi di pagamento non contabilizzato (in nero), fornire, non la prova contraria del fatto negativo, ossia dimostrare la mancata ricezione del pagamento, ma la “prova positiva contraria”. Il contribuente, nel corso del giudizio civile dinanzi al Tribunale di Saluzzo, ha dichiarato di non aver ricevuto alcun compenso. Tuttavia, il M. non ha allegato né provato neppure di aver tentato di riscuotere il credito, mediante iniziative stragiudiziali o giudiziali, e di non esservi riuscito. Ne’ ha dedotto o dimostrato l’assoluta inutilità di qualsiasi iniziativa di recupero del credito per l’eventuale decozione o “incapienza” del patrimonio mobiliare e immobiliare del proprio debitore (l’appaltatore L.M.). Neppure ha dichiarato di aver svolto i lavori, senza la richiesta di corrispettivo, per spirito di liberalità. Pertanto, se il contribuente non fornisce la prova di avere ricevuto il pagamento in epoca successiva all’anno 2007, oppure di aver tentato invano il recupero del credito, non può che applicarsi il principio generale per cui il momento del fatto generatore dell’imposta coincide “di regola” con il momento dell’esigibilità della stessa, soprattutto in presenza di un quadro indiziario così imponente (e stante, in particolare, l’inosservanza dell’onere, gravante sul contribuente, di dimostrare la diversa o mancata ricezione del pagamento).

15. La sentenza impugnata deve, allora, essere cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Piemonte che si adeguerà ai seguenti principi di diritto:

A)”In materia di imposte sui redditi, all’esercizio del diritto potestativo legale di recesso dal contratto di appalto da parte del committente ai sensi dell’art. 1671 c.c., consegue, non solo lo scioglimento del contratto di appalto, ma anche lo scioglimento del contratto di subappalto, quale contratto derivato, collegato funzionalmente al contratto principale, con la estensione al subappalto delle cause di invalidità e di inefficacia dell’appalto. Pertanto, alla formazione del reddito di impresa del subappaltatore concorrono, secondo le regole sull’imputazione temporale dei componenti di reddito (principio di competenza), di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2, i ricavi per corrispettivi (anche se non ancora incassati) del subappaltatore, maturati fino all’esercizio del recesso da parte del committente, ormai certi e determinabili, non potendo essere considerata in alcun modo, a tali fini, l’accettazione dell’opera da parte del committente, ai sensi dell’art. 1665 c.c., stante l’impossibilità per l’appaltatore e per il subappaltatore di proseguire nell’esecuzione dell’opera, dopo l’esercizio del diritto potestativo di scioglimento dal contratto”;

B)”in tema di Iva, devono distinguersi, in base alla disciplina unionale, due diversi momenti: a) quello del fatto generatore dell’imposta e cioè dell’evento che origina l’obbligazione tributaria e l’imponibilità ai fini Iva, che rileva ai fini della individuazione del periodo di competenza ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 109; b) quello del pagamento e della esigibilità dell’imposta, e cioè dell’attitudine attuale dell’imposta ad essere pretesa in riscossione dall’Erario e si concretizza all’atto del pagamento del corrispettivo; il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, laddove prevede che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, attiene esclusivamente al momento della esigibilità dell’imposta. Le fasi del fatto generatore dell’imposta e dell’esigibilità, quest’ultima quale attualità della pretesa tributaria da parte del Fisco, “di regola” coincidono, ma se c’e’ scissione temporale, i due momenti devono essere tenuti ben distinti. Nell’ipotesi in cui il committente abbia esercitato il recesso dal contratto di appalto ex art. 1671 c.c., con conseguente scioglimento anche del subappalto, quale contratto derivato, e’, comunque, onere del contribuente, in caso di pagamenti non contabilizzati (in nero), fornire, non la “prova contraria del fatto negativo”, ossia dimostrare la mancata ricezione del pagamento, ma la “prova positiva contraria”, consistente nei vani tentativi di riscuotere il proprio credito o nella allegazione delle ragioni della rinuncia”;

– e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2021

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