Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29470 del 23/12/2020

Cassazione civile sez. I, 23/12/2020, (ud. 29/09/2020, dep. 23/12/2020), n.29470

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8375/2019 proposto da:

D.I., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la

Cancelleria civile della Corte di Cassazione e rappresentato e

difeso dall’avvocato Massimo Ferrante, in forza di procura speciale

a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CATANIA, depositata il

04/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/09/2020 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis depositato il 21/12/2017 D.I., cittadino della (OMISSIS), ha adito il Tribunale di Catania – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE, impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il ricorrente aveva riferito di essere nato a (OMISSIS), in (OMISSIS); di essere di religione (OMISSIS) e di etnia (OMISSIS); di essere sposato e padre di una bambina; che i suoi parenti e quelli della moglie avevano deciso di infibulare la bambina; di essersi opposto insieme a sua moglie e di essere stati sostenuti in ciò da sua madre; che le rispettive famiglie li avevano cacciati; di essere quindi partiti con la bambina; che a un certo punto si erano separati, poichè aveva lasciato moglie e figlia in un posto sicuro a (OMISSIS) e non aveva più avuto loro notizie; che se non si fosse separato dalla famiglia sarebbe stato ucciso; di essere quindi partito per l’Italia.

Con decreto del 4/2/2019 il Tribunale ha respinto il ricorso, ritenendo che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento di ogni forma di protezione internazionale e umanitaria.

2. Avverso il predetto decreto del 4/2/2019, notificato il 18/2/2019, ha proposto ricorso D.I., con atto notificato il 28/2/2019, svolgendo quattro motivi.

L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita solo con memoria al fine di partecipare ad eventuale discussione orale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3,5,6, e 14 e al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 alla L. 4 agosto 1955, n. 848 e all’art. 3 CEDU.

1.1. Secondo il ricorrente il Tribunale aveva condiviso la valutazione di inverosimiglianza, contraddizione e mancanza di riscontri della Commissione territoriale circa il racconto del richiedente asilo omettendo di adempiere al dovere officioso di approfondimento e intervento istruttorio in ordine alla situazione persecutoria esistente nel Paese di origine.

Inoltre il Tribunale non aveva affrontato in maniera precisa e puntuale la questione dell’infibulazione al quale il ricorrente e la moglie avevano tentato di sottrarre la loro figlia di sei anni, non aveva applicato i parametri di valutazione delle dichiarazioni e aveva omesso il dovere officioso di approfondimento e intervento istruttorio e informativo in ordine alla situazione persecutori.

Infine, il Tribunale aveva violato la disciplina della protezione sussidiaria e il principio del non refoulement, non potendosi respingere nessuno verso un Paese ove la sua vita sarebbe in pericolo o egli fosse esposto a trattamenti inumani o degradanti.

1.2. Le censure così promiscuamente articolate, sono del tutto infondate.

In primo luogo, certamente la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez.6, 25/07/2018, n. 19716).

Il giudice deve tuttavia prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine; le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso (Sez.6, 27/06/2018, n. 16925; Sez.6, 10/4/2015 n. 7333; Sez.6, 1/3/2013 n. 5224).

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.

Il contenuto dei parametri i c) ed e), sopra indicati, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, quando il complessivo quadro assertkvo e probatorio fornito non sia esauriente, purchè il giudizio di veridicità alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca) sia positivo (Sez.6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez.6, 10/5/2011, n. 10202).

Beninteso, il principio che le dichiarazioni del richiedente che siano inattendibili non richiedono approfondimento istruttorio officioso va opportunamente precisato e circoscritto: nel senso che ciò vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente, che può rilevare ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Invece il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) (Sez.1, 31/1/2019 n. 3016).

Inoltre questa Corte ha di recente ribadito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, o come motivazione apparente, o come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Sez. 1, n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549 01; Sez. 6 – 1, n. 33096 del 20/12/2018, Rv. 652571 – 01).

Nella fattispecie il Tribunale ha spiegato la propria valutazione sia richiamando i condivisi rilievi operati dalla Commissione Territoriale circa le contraddizioni che inficiavano il racconto, sia ravvisando l’incongruenza del rischio discriminatorio paventato sulla base della ricostruzione socio culturale della prassi della infibulazione delle bambine in (OMISSIS) (non praticata nell’etnia del richiedente, fortemente stigmatizzata a livello sociale e culturale, osteggiata dal Governo e punita penalmente, discriminatoria solo nei confronti delle donne che non vi si vogliono sottoporre), sia reputando del tutto implausibile la giustificazione di non aver chiesto tutela alle Autorità solo per non averci pensato, sia infine cogliendo la radicale contraddittorietà della narrazione rappresentata dall’aver abbandonato sole nel suo Paese la figlia e la moglie, ossia i soggetti deboli sottoposti a pressioni sociali e familiari che in teoria avrebbe voluto proteggere.

1.3. Nè si può sostenere che il Tribunale abbia omesso di approfondire il contesto sociale, culturale e giuridico della vicenda, invece puntualmente inquadrata sulla base dell’assunzione di informazioni internazionali citate a pagina 4, primo paragrafo.

1.4. In punto rischio di esposizione a violenza indiscriminata il ricorrente si limita a una generica contestazione, completamente riversata nel merito, delle valutazioni espresse dal Tribunale e prospetta comunque una serie di circostanze in tema di violazione dei diritti umani nella nota 3 di pagina 5, non sussumibile nel concetto di conflitto armato interno D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), e priva in ogni caso di pertinenti riferimenti individualizzanti alla persona del ricorrente.

1.5. Altrettanto non pertinente appare l’invocazione del principio del non refoulement, e del divieto di respingimento verso un Paese ove la vita del richiedente sarebbe in pericolo o egli fosse esposto a trattamenti inumani o degradanti, dal momento che a monte il narrato non è stato ritenuto attendibile con motivazione non sindacabile in sede di legittimità.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 3 CEDU e L. 4 agosto 1955, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

2.1. Secondo il ricorrente, il Tribunale aveva negato la protezione umanitaria sul presupposto della mancata dimostrazione da parte del richiedente di una sua condizione di vulnerabilità senza procedere alla necessaria valutazione comparativa in ordine al grado di integrazione raggiunto nel nostro paese.

2.2. Giova ricordare che secondo la sentenza delle Sezioni Unite del 13/11/2019 n. 29460, che ha avallato l’interpretazione maggioritaria inaugurata da Sez. 1, n. 4890 del 19/02/2019, Rv. 652684 – 01, in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali previsto dall’art. 1, comma 9 suddetto D.L..

Inoltre la stessa sentenza n. 24960/2019 delle Sezioni Unite, che in proposito ha aderito al filone giurisprudenziale promosso dalla sentenza della Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01, in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.

Secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale, i seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali cui il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, sono accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.

La condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

Nè il livello di integrazione dello straniero in Italia nè il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del medesimo integrano, se assunti isolatamente, i seri motivi umanitari alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Da un lato, infatti, il diritto al rispetto della vita privata, sancito dall’art. 8 CEDU, può subire ingerenze da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, in modo particolare nel caso in cui lo straniero non goda di un titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale. Dall’altro, il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del richiedente deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente stesso, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la sua situazione particolare, ma quella del suo Paese di origine in termini generali e astratti, in contrasto con il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Il riconoscimento della protezione umanitaria al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale in Italia, non può pertanto escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine. Tale riconoscimento deve infatti essere fondato su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Sez.1, 23/02/2018, n. 4455).

2.3. Il provvedimento impugnato ha escluso in radice la deduzione di una situazione di vulnerabilità particolare e soggettiva del richiedente asilo, così adeguatamente motivando la decisione negativa per difetto di un presupposto essenziale.

Infatti, a prescindere dal livello di integrazione nel nostro Paese, è necessaria e ineludibile una significativa esposizione alla violazione dei diritti umani del richiedente asilo, ove fosse costretto a tornare al proprio Paese, sotto la soglia della tollerabilità: infatti pur sempre si discute di una misura integrativa, di diritto nazionale, di protezione di uno straniero che richiede asilo sulla base dei pericoli corsi nel Paese di origine e non già dei benefici auspicati dal suo inserimento in Italia.

Il ricorrente lamenta la mancata valutazione del suo grado di integrazione sociale in Italia, in modo del tutto generico e senza indicarne il benchè minimo contenuto, tanto più necessario per un soggetto che ha lasciato in patria moglie e figlia.

E’ quindi superfluo ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia (Sez. 6 – 1, n. 17072 del 28/06/2018, Rv. 649648 – 01; Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01).

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 132 c.p.c. per omissione della motivazione tale da impedire di comprendere le ragioni della mancata concessione della protezione umanitaria.

La censura è palesemente infondata. Il Tribunale ha indicato con precisione la ragione del diniego ovvero la mancata deduzione di “una condizione di particolare vulnerabilità riferibile direttamente alla situazione personale del ricorrente”.

4. Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, il ricorrente denuncia omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. con riferimento alla mancata concessione della protezione sussidiaria, oggetto di puntuale illustrazione con apposita memoria.

Il motivo è palesemente infondato: il Tribunale ha pronunciato, rigettandola, anche sulla domanda di protezione sussidiaria, sicchè non vi è stata alcuna omessa pronuncia su di un capo della domanda; per giunta la relativa motivazione è stata anche criticata dall’odierno ricorrente con il secondo motivo.

5. Il ricorso deve quindi essere rigettato.

Nulla sulle spese in difetto di rituale costituzione dell’Amministrazione.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 29 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2020

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