Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29466 del 13/11/2019

Cassazione civile sez. un., 13/11/2019, (ud. 22/10/2019, dep. 13/11/2019), n.29466

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Presidente di Sez. –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19122/2018 proposto da:

D.G.G., nella qualità di erede universale di

C.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE PARIOLI 10,

presso lo studio dell’avvocato PAOLO GRIMALDI, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIANCARLO GRECO;

– ricorrente –

contro

E.S.A. – ENTE SVILUPPO AGRICOLO DELLA REGIONE SICILIANA, in persona

del legale rappresentante pro tempore, ASSESSORATO REGIONALE

AGRICOLTURA E FORESTE DELLA REGIONE SICILIANA, in persona

dell’Assessore Regionale pro tempore, elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO;

– controricorrenti –

IMPREPAR – IMPREGILO PARTECIPAZIONI S.P.A., elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA A. DEPRETIS 86, presso lo studio dell’avvocato LEONARDA

SILIATO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

GIUSEPPE SANTILANO;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 70/2018 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE

PUBBLICHE, depositata il 23/04/2018.

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

22/10/2019 dal Consigliere Dott. MARIA GIOVANNA SAMBITO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

SALZANO Francesco, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli avvocati Giancarlo Greco, Giuseppe Santilano e Marinella Di

Cave per l’Avvocatura Generale dello Stato.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche della Sicilia condannava l’Ente di sviluppo agricolo della Regione (ESA) e la S.p.A. Imprepar-Impregilo Partecipazioni (in seguito, Imprepar) a corrispondere a C.R. somme determinate per l’occupazione acquisitiva di un terreno di proprietà della stessa ubicato nella contrada (OMISSIS), interessato dai lavori di sistemazione a fini irrigui delle acque del serbatoio di (OMISSIS), oltre che l’indennità per l’occupazione temporanea.

L’impugnazione della C. veniva, in parte, accolta dal Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, che condannava l’ESA e la Società Imprepar al pagamento anche della rivalutazione monetaria e degli interessi sulle somme determinate dal Tribunale Regionale.

Tale decisione veniva cassata con rinvio da queste Sezioni Unite, che, con sentenza n. 10024 del 2007, rilevavano che il caso costituiva un’occupazione c.d. usurpativa costituente illecito comune di carattere permanente, perciò consentendo alla proprietaria dell’immobile, continuata a restare tale, di avvalersi di tutti i mezzi previsti a tutela del diritto reale leso dal perdurare dell’occupazione dell’immobile, ivi compresa l’azione per ottenerne la restituzione.

Pronunciando in sede di rinvio, il TSAP escludeva, con sentenza non definitiva n. 21/2011 l’applicabilità dell’art. 2058 c.c., comma 2, ma con sentenza definitiva n. 170/2013, rigettava l’appello ritenendo sussistente il pregiudizio per la produzione e la distribuzione della ricchezza nazionale dall’esecuzione dell’obbligo di non fare, in riferimento all’art. 2933 c.c..

Su nuovo ricorso, proposto in via principale da D.G.G., erede dell’originaria attrice, ed in via incidentale dalla Società Imprepar, la decisione veniva nuovamente cassata, con sentenza n. 10499 del 2016, da queste Sezioni Unite, che, dopo aver confermato l’inapplicabilità dell’art. 2058 c.c., alle azioni a tutela dei diritti reali (salva la richiesta di condanna per equivalente della parte danneggiata), rilevavano che il carattere “chiuso” del giudizio di rinvio impediva l’allegazione di circostanze tali da integrare la fattispecie dell’art. 2933 c.c., che avrebbero dovuto essere introdotte nel thema decidendum sin dall’inizio del giudizio di merito.

In parallelo allo sviluppo di tale giudizio, l’ESA emetteva:

– nel 2008 un provvedimento del D.P.R. n. 327 del 2001, ex art. 43, impugnato innanzi al TSAP e poi annullato in autotutela a seguito della dichiarazione d’incostituzionalità della norma;

– nel 2012 un provvedimento di acquisizione sanante ai sensi del T.U. n. 327 del 2001, art. 42 bis, in seguito ritirato perchè recante alcuni errori;

– altra Delibera di analogo scopo, senza numero e non notificata;

– nel 2014 altro provvedimento di acquisizione sanante, anch’esso ritirato;

– nel 2017, ancora, un altro provvedimento di acquisizione al patrimonio indisponibile della Regione Siciliana.

Gli atti venivano impugnati dal proprietario inciso ex art. 143 TU Acque, nei confronti dell’ESA, della Società Imprepar e dell’Assessorato Agricoltura e Foreste della Regione Siciliana, innanzi al TSAP, che, con sentenza n. 70 del 23 aprile 2018, dichiarava in parte improcedibile, in parte inammissibile ed in parte respingeva il ricorso ed i motivi aggiunti.

In particolare, tale sentenza, affermato che il giudizio si incentrava sull’ultimo provvedimento emesso, per essere i precedenti stati nel tempo revocati o dallo stesso superati, affermava che l’atto di acquisizione:

a) non era precluso dal giudicato restitutorio, come sostenuto dal D.G., in quanto le sentenze n. 10024 del 2007 e n. 10499 del 2016 delle Sezioni Unite non avevano emesso alcuna statuizione in tal senso, avendo invece chiaramente escluso l’applicabilità dei limiti alla tutela in forma specifica ricavabile dagli artt. 2058 e 2933 c.c.;

b) non era impedito dalla pendenza del giudizio civile sulla restituzione del bene, nonostante la mancata previsione nell’art. 42 bis TUE dell’ipotesi omologa a quella prevista per la pendenza del giudizio amministrativo; diversamente, infatti, la sfera d’applicazione della norma sarebbe rimasta preclusa in relazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, dei quali era i invece, fatta espressa menzione del medesimo art. 42 bis, u.c.;

c) non era viziato sotto il profilo della motivazione, tenuto conto che la valutazione del costo dell’opera, pari a diversi milioni di Euro, della sua funzione di dotazione idrica di una parte ragguardevole della Sicilia e di rifornimento di acqua potabile della frazione di (OMISSIS), comparata al ridotto sacrificio del D.G., privato di un solo ettaro di terreno, all’origine incolto, sugli ottanta complessivi, dava conto della sussistenza di eccezionali ragioni di pubblico interesse, della loro preminenza rispetto agli interessi del proprietario, nonchè dell’assenza di ragionevoli alternative;

d) non era viziato dall’omessa attivazione del contraddittorio procedimentale, in quanto la stessa evidenza di tali ragioni dimostrava che l’esito della vicenda amministrativa non avrebbe potuto esser diverso, laddove errori di dettaglio, ove commessi, avrebbero potuto rilevare in sede attuativa.

Avverso tale sentenza, D.G.G. ha proposto ricorso sulla scorta di sette motivi, ai quali l’ESA, l’Assessorato Agricoltura e Foreste della Regione Siciliana e l’Imprepar hanno resistito con controricorso, con cui la Società ha proposto ricorso incidentale

condizionato. Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Occorre preliminarmente rilevare che il ricorrente ha chiesto la riunione del presente giudizio con quello, pendente innanzi a queste Sezioni unite, iscritto al RG n. 2851 del 2019, avente ad oggetto l’impugnazione avverso la sentenza del TSAP n. 196 del 2018, resa nel parallelo giudizio in sede di rinvio, e chiamato a questa stessa udienza.

2. L’istanza, alla quale si sono opposte le controparti, va rigettata, in quanto pur essendo i procedimenti indubbiamente connessi in modo biunivoco (legittimità del provvedimento di acquisizione sanante in riferimento alla controversa esistenza di un giudicato sulla restituzione), la riunione non appare opportuna, per non essere omologhe le attribuzioni dei giudici a quibus e per essere la possibilità di conflitto di giudicati esclusa dalla contestuale odierna trattazione di entrambi i giudizi.

3. Con il primo motivo, si deduce la violazione del D.P.R. n. 327 del 2001, artt. 42 bis e 2; art. 42 Cost., art. 1, prot. 1 add. alla CEDU, in riferimento all’art. 117 Cost., nonchè dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla statuizione sub b) di parte narrativa. Il ricorrente lamenta che la ricostruzione operata dal TSAP non tiene conto di tutte le argomentazioni da lui svolte in seno al ricorso, ed in particolare di quella con cui aveva dedotto che la disposizione di cui all’art. 42 bis del TU, quale eccezione al principio secondo cui l’espropriazione deve avvenire “in buona e debita forma”, contiene un elenco tassativo e non suscettibile di interpretazione analogica dei casi in cui l’acquisizione è ammessa, e tra di essi non rientra quello in esame, connotato da una sentenza del GO, che non aveva annullato l’atto, ma lo aveva disapplicato. L’interpretazione estensiva, afferma il ricorrente, si sostanzia in altri termini in una riedizione dell’illegittima espropriazione indiretta, in violazione dei principi fissati oltre che dalla giurisprudenza della Corte EDU, anche dello stesso TU, che enuncia quello secondo cui l’espropriazione di immobili e diritti può esser disposta, solo, nei casi previsti dalle leggi e dai regolamenti.

4. Col secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dei principi di cui all’art. 6 del trattato CEDU e della relativa giurisprudenza della Corte EDU per il tramite dell’art. 117 Cost., oltre che violazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 111 Cost., comma 6, sempre in riferimento alla statuizione su b) di parte narrativa. Il ricorrente, che lamenta nuovamente come le sue censure siano state interpretate in modo riduttivo, si duole, in particolare, che il Tribunale Superiore abbia ritenuto l’art. 42 bis applicabile alle occupazioni usurpative intervenute in epoca antecedente la data del 30 giugno del 2003, di entrata in vigore del Testo Unico, omettendo, però, di considerare che l’art. 6 della CEDU vieta alla p.A. di avvalersi di uno jus superveniens che “mutando le regole in corsa” pregiudichi le ragioni del privato, il quale, in tale ipotesi, ha diritto alla restituzione del bene. Il ricorrente soggiunge che la sentenza della Corte Cost. n. 71 del 2015 non contempla il caso dell’usurpativa, ma è incentrata unicamente sulle occupazioni espropriative o acquisitive, e ciò in quanto, prima del 30.6.2003, alle occupazioni usurpative era assicurata la tutela reipersecutoria in conformità della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e della regola temporale prevista dall’art. 57 del TU e dall’art. 11 preleggi.

5. Col terzo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 21 septies, art. 324 c.p.c., art. 2909 c.c., art. 6 della CEDU per il tramite dell’art. 117 Cost. e dei principi di cui agli artt. 111 e 24 Cost., oltre che dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 111 Cost., comma 6, in riferimento alla statuizione sub a) di parte narrativa. Il ricorrente lamenta, in particolare, che, nel ritenere insussistente il giudicato, il TSAP non ha considerato che: i) la questione processuale relativa alla “natura” del vincolo nascente dal principio di diritto enunciato da una sentenza della cassazione non era stata trattata in via generale dalle parti, talchè, per affrontarla, sarebbe stato necessario indicarla alle parti stesse fonde provocare su di essa il contraddittorio. La soluzione data alla questione era, poi, erronea, travolgendo i principi in tema di immutabilità ed intangibilità del giudicato; ii) le due pronunce delle Sezioni Unite del 2007 e del 2016 non si erano affatto limitate ad escludere l’applicabilità dei precetti di cui gli artt. 2058 e 2933 c.c., alla tutela reale in forma specifica, ma, contrariamente a quanto ritenuto dal TSAP, avevano chiaramente affermato che, trattandosi di un caso di occupazione usurpativa, la proprietaria (ora il suo erede) aveva il diritto ad avvalersi di tutti i mezzi a tutela del mantenuto suo diritto dominicale e quindi anche dell’azione per ottenere la restituzione del bene, iii) gli effetti della pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile erano stati vanificati, in violazione dei precetti di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e dei principi di sanciti dell’art. 6 della CEDU, secondo cui non è consentito al legislatore di vanificare una pronuncia divenuta intangibile; iiii) secondo la giurisprudenza di legittimità, l’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante doveva ritenersi tardivo, essendo stato emesso dopo la formazione del giudicato sulla illiceità del comportamento della P.A. e sul diritto al risarcimento del danno.

6. Con il quarto motivo, si deduce: “Violazione della giurisprudenza CEDU sulla esposizione a tempo indefinito della facoltà espropriativa. Violazione e/o elusione della sentenza n. 71/2015 della Consulta. Violazione dell’art. 112 c.p.c.. Violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e dell’art. 111 Cost., n. 4. Violazione art. 42 bis, comma 4 T.U. sulle espropriazioni”. Il ricorrente lamenta che tale censura, con la quale aveva stigmatizzato quale patologica la molteplicità delle delibere, non è stata presa in considerazione dal TSAP, che non la ha neppure enunciata tra i motivi d’impugnazione; aggiunge che il comportamento dell’ESA ha eluso i principi sanciti dalla sentenza della Corte Cost. con la sentenza n. 71 del 2015, in sostanza disponendo un’acquisizione sanante per via giudiziaria, già prevista dall’art. 43 TU con disposizione dichiarata incostituzionale, in violazione del principio costituzionale di parità tra le parti. L’interesse alla statuizione, aggiunge il ricorrente, è dato dal fatto che, con l’emanazione della prima Delibera, l’Amministrazione aveva esaurito il proprio potere, con conseguente nullità per carenza di potere ed irrilevanza di quelle successivamente adottate.

7. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce la violazione della L. n. 241 del 1990, art. 21 septies, art. 42 bis del TU espropriazioni; dei precetti contenuti nella sentenza della Corte Cost. n. 71 del 2015, ed inoltre la violazione dell’art. 112 c.p.c., in riferimento alla statuizione sub c) di parte narrativa. La decisione impugnata, lamenta il ricorrente, ha valutato in modo solo parziale la censura dedotta, non avendo considerato che la Delibera si riferisce al suolo da espropriare, e dimentica che le condotte interrate nel suo fondo per mq. 19.963 sono definitivamente abusive e senza di esse l’opera non è in grado di funzionare, con conseguente nullità della Delibera stessa ed insussistenza dell’eccezionale interesse pubblico all’acquisizione dell’area.

8. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 42 bis TU espropriazioni; della L. n. 241 del 1990, art. 21 octies; dei precetti contenuti nella sentenza della Corte Cost. n. 71 del 2015 e la violazione dell’art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 111 Cost., comma 6, sempre in riferimento alla statuizione sub c) della narrativa. Il ricorrente lamenta che la sentenza ha erroneamente applicato l’esimente di cui della L. n. 241, art. 21 octies, comma 2, non riconnettendo valore esiziale alla mancata comunicazione di avvio del procedimento – doverosa in base ai principi sanciti dalla Consulta con la sentenza n. 71 del 2015 ed affermati dalla stessa decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2016 – nell’ambito del quale esso ricorrente avrebbe potuto far rilevare l’erroneità del criterio utilizzato per la determinazione dell’indennizzo e dei danni, la cui valutazione è imposta dalla legge ex nunc.

9. Con il settimo motivo, si deduce, ancora in riferimento alla statuizione sub c) della narrativa, la violazione dell’art. 42 bis TU espropriazioni; della L. n. 241 del 1990, art. 21 septies; dei precetti contenuti nella sentenza della Corte Cost. n. 71 del 2015 e violazione e falsa interpretazione della sentenza delle Sezioni Unite n. 10499 del 2016. In particolare, il ricorrente afferma che, contrariamente a quanto opinato dal TSAP, il provvedimento si basa su di una consulenza tecnica acquisita nel corso del giudizio di rinvio, la cui decisione è stata cassata con la menzionata sentenza del 2016, talchè i dati fattuali desumibili dalla stessa, del tutto contestati, non possono esser dati per certi. Inoltre, la valutazione delle ragioni di pubblico interesse non è attuale (in relazione al servizio per il fabbisogno idropotabile di (OMISSIS)) si basa su elementi totalmente inattendibili (la vasca “(OMISSIS)” consente di irrigare la modestissima percentuale dello 0,06% della Sicilia), e non dà conto dell’eccezionalità delle ragioni che giustificavano l’emanazione dell’atto, nè dell’impossibilità di alternative, secondo le osservazioni proposte da esso ricorrente, totalmente ignorate in seno alla sentenza.

10. Va, preliminarmente, rilevato che l’inammissibilità dell’intero ricorso eccepita da entrambe le parti controricorrenti, rispettivamente, per essere le censure tendenti ad un riesame del merito e travalicanti i limiti del sindacato di queste Sezioni Unite sulle sentenze del TSAP, anche nelle materie indicate dall’art. 143 TU Acque, sarà oggetto di valutazione in relazione ai singoli motivi, attenendo, in tesi, all’ammissibilità delle relative doglianze e non già dell’intero ricorso.

11. I primi quattro motivi vanno valutati congiuntamente, per la loro connessione e per comodità espositive. Essi sono infondati.

12. Non corrisponde, anzitutto, al vero che le questioni relative all’applicabilità della disposizione di cui all’art. 42 bis in pendenza del giudizio civile, al relativo ambito temporale ed alla iterata emanazione di provvedimenti acquisitivi non siano state esaminate in seno alla sentenza impugnata, che, pur senza prendere in esame tutte gli argomenti difensivi, che il ricorrente puntigliosamente riporta, è pervenuta al rigetto delle tesi da lui propugnate (in ordine alle prime due questioni), ed ha dichiarato l’improcedibilità delle impugnative riferite ai provvedimenti antecedenti quello del 2017, per sopravvenuta carenza di interesse (in relazione alla terza).

13. La supposta omissione non sarebbe, peraltro, censurabile come motivo di ricorso innanzi a queste Sezioni Unite in riferimento all’art. 112 c.p.c. (cfr. SU n. 505 del 2011; n. 488 del 2019 e giurisprudenza richiamata), in quanto il R.D. n. 1775 del 1933, art. 204, recante un rinvio recettizio al codice di procedura civile del 1865, prevede per il caso dell’omissione di pronuncia da parte del TSAP lo specifico rimedio del ricorso per rettificazione allo stesso TSAP, contemplato da detta norma per i casi previsti dall’art. 517 c.p.c., art. 1865, n. 4 (se la sentenza “abbia pronunciato su cosa non domandata”), n. 5 (“se abbia aggiudicato più di quello che era domandato”), n. 6 (“se abbia omesso di pronunciare sopra alcuno dei capi della domanda”) e n. 7 (“se contenga disposizioni contraddittorie”).

14. Sotto altro profilo, le omissioni non integrano il caso della motivazione apparente (specificamente dedotta coi motivi secondo, terzo e quarto). Tale nullità processuale è ravvisabile, com’è nozione ricevuta, quando la motivazione risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile). Il che non è ravvisabile nella specie, tenuto conto che l’applicabilità della disposizione in pendenza di giudizio civile a fatti antecedenti l’entrata in vigore del TU sulle espropriazioni è stata direttamente riferita al testo normativo, che l’inesistenza di un giudicato sulla restituzione è stato desunto dal tenore delle decisioni, che la declaratoria d’improcedibilità si afferma esser stata pronunciata su concorde richiesta di tutte le parti, e considerato, comunque che, in linea generale, nella redazione della motivazione della sentenza, il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppur non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con il percorso argomentativo seguito.

15. In riferimento alle dedotte violazioni di legge, va premesso che queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare (Cass. S.U. n. 22096 del 2015, n. 15283 del 2016; n. 11180 del 2018; n. 28573 del 2018; n. 539 del 2019; n. 3517 del 2019) che il provvedimento di acquisizione sanante, disciplinato dall’art. 42 bis introdotto dal D.L. n. 6 luglio 2011, n. 98, art. 34, conv., con modif., nella L. 15 luglio 2011, n. 111, in epoca successiva alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del Testo Unico espropriazioni (D.P.R. n. 327 del 2001) per eccesso di delega (Corte Cost. n. 293 del 2010), costituisce l’esercizio di uno speciale, autonomo ed eccezionale potere espropriativo, che è innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub judice, e che è teso a sostituire il regolare procedimento ablativo, in quanto contiene uno actu sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio. La norma attribuisce alla P.A. “che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità” il potere, valutati gli interessi in conflitto, di optare fra l’acquisizione e la non acquisizione (Cons. Stato, Ad. Plen. 2 del 2016) di un immobile appartenente al privato, disciplina l’adozione del relativo provvedimento e la misura dell’indennizzo, per il pregiudizio patrimoniale conseguente alla perdita definitiva dell’immobile.

16. A tale stregua, l’assunto secondo cui il provvedimento non potrebbe essere emesso in costanza di una occupazione c.d. usurpativa è smentito, già in prima battuta, dal tenore letterale della norma che riconosce, appunto, siffatto potere anche in “assenza del provvedimento… dichiarativo di pubblica utilità”, rendendo, così, irrilevante, ai fini in esame, la questione dell’esistenza della dichiarazione di pubblica utilità, in assenza della quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, riaffermata, per quanto qui rileva, in seno alla sentenza rescindente resa da queste Sezioni Unite nel 2007 nell’ambito del parallelo giudizio inter partes, l’azione dell’Amministrazione è stata considerata alla stregua di un mero illecito aquiliano.

Contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, la conclusione qui assunta è, poi, in linea con quanto affermato con la sentenza parzialmente interpretativa di rigetto n. 71 del 2015, con cui la Corte Cost., nel ritenere non fondati i dubbi di costituzionalità della norma, sollevati con ordinanze di queste Sezioni Unite del 13 gennaio 2014, ha affermato che “la nuova disciplina si applica non solo quando manchi del tutto l’atto espropriativo, ma anche laddove sia stato annullato – o impugnato a tal fine, nel qual caso occorre il previo ritiro in autotutela da parte della medesima pubblica amministrazione – l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, oppure la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera oppure, ancora, il decreto di esproprio”, e risponde alla ratio del provvedimento di acquisizione, che non è espressione di un potere meramente rimediale rispetto ad un pregresso illecito, ma g risponde all’esigenza di consentire alla P.A. di “riprende(re) a muoversi nell’alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino”, come risulta evidente dal fatto che il provvedimento non ha effetto retroattivo e costituisce l’extrema ratio per la soddisfazione di attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico, semprecchè siano assenti soluzioni alternative ragionevolmente praticabili, che tuttavia non possono mai consistere nella generica “…eccessiva difficoltà ed onerosità dell’alternativa a disposizione dell’amministrazione (Cons. Stato, Ad. Plen. 2 del 2016 cit.).

17. Quanto all’argomento secondo cui l’art. 42 bis, non sarebbe applicabile alle occupazioni usurpative precedenti la data del 30 giugno del 2003, va rilevato che il comma 8 della disposizione in commento dispone testualmente che: “Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell’interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo”. La conformità dell’istituto, così come delineato dal legislatore, coi principi di matrice convenzionale invocati dal ricorrente, è stata ancora positivamente valutata dalla Consulta, che, nel fugare i dubbi sollevati in proposito con la sentenza n. 735 del 2015 di queste Sezioni Unite, ha affermato che “la norma trova applicazione anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, per i quali siano pendenti processi, ed anche se vi sia già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato” aggiungendo che la previsione risponde – proprio all’opposto di quanto opina il ricorrente – all’esigenza primaria, “di eliminare definitivamente il fenomeno delle “espropriazioni indirette” che aveva fatto emergere quella che la Corte EDU (nella sentenza 6 marzo 2007, Scordino contro Italia) aveva definito una “defaillance structurelle”, in contrasto con l’art. 1 del Primo Protocollo allegato alla CEDU, e “di trovare una soluzione definitiva ed equilibrata al fenomeno, attraverso l’adozione di un provvedimento formale della pubblica amministrazione”. Resta da aggiungere che il distinguo tra espropriazioni indirette ed occupazione usurpativa, che il ricorrente sottolinea, risulta, ormai, superata: queste Sezioni Unite, con la menzionata sentenza n. 735 del 2015, hanno riconsiderato l’istituto, di genesi pretoria, dell’occupazione appropriativa, ritenendolo non conforme con il principio enunciato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui l’espropriazione deve sempre avvenire in “buona e debita forma”, e, pertanto, superando il pregresso indirizzo conservativo dell’istituto, lo ha esattamente equiparato a quello della c.d. occupazione usurpativa restando esclusa, in entrambi i casi, ritenuti egualmente, illeciti a carattere permanente, l’acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica.

18. La tesi, sostenuta in seno al primo motivo, che, facendo leva sull’inciso contenuto nel comma dell’art. 42 bis in esame, secondo cui “Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l’amministrazione che ha adottato l’atto impugnato lo ritira”, sostiene che il provvedimento non potrebbe essere emesso quando, come nella specie, sia pendente un giudizio civile in cui sia stata disposta la disapplicazione dell’atto illegittimo, è priva di fondamento. Premesso che il TSAP ha ritenuto non preclusa l’emanazione del provvedimento in pendenza del procedimento civile, secondo quanto riassunto in narrativa, talchè non è ipotizzabile il parziale favorevole giudicato interno predicato dal ricorrente in seno alla memoria, la teoria si fonda su di un’interpretazione frazionata dell’istituto, laddove tralascia di considerare che il comma 1 della medesima disposizione autorizza, con previsione generale, l’Amministrazione che utilizza per scopi di interesse pubblico un bene immobile, trasformato in modo illegittimo (assenza di provvedimento di esproprio o della dichiarazione di p.u.) “a disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile” (in costanza beninteso degli altri presupposti), talchè il comma 2 della norma in commento piuttosto che restringere l’ambito di operatività dell’istituto ai casi di pendenza di un giudizio d’annullamento dell’atto (da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, o che abbia dichiarato la pubblica utilità o il decreto di esproprio) ne costituisce un’esplicazione, come si desume dall’utilizzo dell’avverbio “anche”. La tesi contrasta quindi, coi principi di interpretazione sistematica e letterale, mentre la considerazione secondo cui si consentirebbe una deprecata riedizione dell’istituto della espropriazione indiretta costituisce una petizione di principio, in quanto si fonda su di un limite normativo (inapplicabilità nel caso di giudizio civile dell’istituto dell’acquisizione sanante) che non è sussistente.

19. L’ipotizzata carenza di potere ad emettere il nuovo provvedimento dopo il ritiro di quello del 2012 (Delib. n. 156) è inammissibile: in parte qua la sentenza ha dato atto della sopravvenuta carenza di interesse del privato a coltivare l’impugnazione, come da richiesta concorde di tutte le parti, e tale statuizione non risulta direttamente censurata. Va, peraltro, rilevato che la decisione dell’amministrazione di ritirare in autotutela l’atto non implica affatto l’esaurimento del potere di emetterne uno nuovo (mediante un inedito effetto permanente dell’atto di ritiro) e, neppure, sotto un profilo logico, la definitiva determinazione di non acquisizione del bene, come incongruamente deduce il ricorrente, che, peraltro, addebita all’Amministrazione di aver perpetrato un abuso nei suoi confronti, ed attuato una barbarie giuridica, con l’iterazione dei provvedimenti tutti del medesimo oggetto; il che, sotto altro profilo, esclude in radice la configurabilità della lamentata acquisizione sanante per via giudiziaria.

20. Quanto alla questione centrale, ossia se il meccanismo acquisitivo posto dalla norma sia nella specie precluso dalla presenza del giudicato, valgono le seguenti considerazioni.

21. Premesso che la questione dell’esistenza del giudicato esterno apparteneva al dibattito processuale, per esser stata dedotta dall’odierno ricorrente, sicchè non è pertinente il riferimento alla decisione “a sorpresa” o a violazioni del contraddittorio, va rilevato che, com’è nozione ricevuta, e come, pure, espressamente esposto da Cass. SU n. 10499 del 2016 nel procedimento parallelo inter partes, a seguito della cassazione della precedente sentenza, il giudizio di rinvio si connota per il suo carattere chiuso, essendo in esso inibita alle parti ogni ulteriore attività assertiva e probatoria, non direttamente dipendente dalla pronuncia resa dalla Corte di cassazione. E’ vero, poi, che, come reiteratamente sottolineato dal ricorrente, il giudice di rinvio è vincolato non solo in ordine ai principi di diritto affermati dalla sentenza rescindente, ma anche ai presupposti di fatto che il principio di diritto enunciato presuppone come pacifici o come già accertati definitivamente (S.U. n. 1007 del 2002; Cass. n. 20887 del 2018), e che le statuizioni rese in seno alla sentenza di cassazione operano non in via astratta ma agli effetti della decisione finale della causa, tanto che esse sono vincolanti, non solo, per il giudice di rinvio (innanzi al quale è, appunto, inibita ex art. 394 c.p.c., la formulazione di nuove conclusioni, salvo che la necessità sorga dalla stessa sentenza di cassazione), ma, anche, per la stessa Corte di cassazione quando venga nuovamente investita del ricorso avverso la sentenza pronunziata dal giudice di rinvio.

Ma è altrettanto vero che tale regola presuppone l’omogeneità delle situazioni devolute reiteratamente al giudizio di legittimità e non opera quando è sottoposto alla Corte un thema decidendum non affrontato in occasione del primo giudizio rescindente o quando sopravvenga un fatto estintivo o modificativo del diritto fatto valere afferente a un profilo non affrontato in precedenza dai giudici di merito ed esulante dal decisum del giudizio rescindente (Cass. SU n. 1546 del 2017; n. 26521 del 2018).

22. Ancora in generale, va evidenziato che, secondo costante giurisprudenza di questa Corte (a partire da Cass. SU n. 226 del 2001), il giudicato interno e quello esterno hanno la medesima autorità, che è quella prevista dall’art. 2909 c.c., poichè “corrispondono entrambi all’unica finalità rappresentata dall’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche e dalla stabilità delle decisioni, le quali non interessano soltanto le parti in causa, risultando l’autorità del giudicato riconosciuta non nell’interesse del singolo soggetto che lo ha provocato, ma nell’interesse pubblico, essendo essa destinata a esprimersi – nei limiti in cui ciò sia concretamente possibile – per l’intera comunità”. Inoltre, queste Sezioni unite, con la ricordata sentenza del 2001 (e successive conformi), hanno già avuto occasione di affermare che, “in ragione della sua assimilabilità per natura ed effetti agli atti normativi”, il giudicato, sia interno che esterno, debba essere di conseguenza interpretato “alla stregua della esegesi delle norme piuttosto che di quella dei negozi giuridici”. Il che comporta che il giudice di legittimità accerta l’esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice del merito.

23. Applicando tali principi nel caso in esame, risulta evidente come:

a) per effetto della sentenza del 2007, l’occupazione del fondo della C. va qualificata “usurpativa”, talchè, contrariamente a quanto deduce l’ESA, che pure in seno alla memoria afferma esser stata esercitata una potestà amministrativa, la detenzione dell’immobile è totalmente abusiva e del tutto irrilevanti le non consentite trasformazioni del fondo, le quali, ha concluso la sentenza, hanno, appunto, prodotto “soltanto le conseguenze proprie dell’illecito comune di carattere permanente di cui agli artt. 2043,2058 c.c., perciò consentendo alla proprietaria dell’immobile, continuata a restare tale di avvalersi di tutti i mezzi previsti a tutela del diritto reale leso dal perdurare dell’occupazione dell’immobile, ivi compresa l’azione per ottenerne la restituzione”;

b) per effetto della sentenza del 2016, non è consentita l’applicabilità dell’art. 2058 c.c. “quando venga esercitata, come nel caso, la tutela restitutoria”. Inoltre, la sentenza ha ritenuto inammissibile la questione all’applicabilità dell’art. 2933 c.c., disposizione da riferirsi a cose insostituibili o di eccezionale importanza per l’economia nazionale, ed inapplicabile in caso di pregiudizio ad interessi individuali e locali – perchè involgeva temi estranei al dibattito fattuale e “nonostante che sin dall’introduzione del giudizio l’originaria attrice avesse reclamato la tutela restitutoria”, con ciò restando smentita la correttezza della tesi, svolta in sede di discussione dall’Imprepar, secondo cui la domanda restitutoria non sarebbe stata ab initio proposta.

24. Alla stregua dei suddetti enunciati, l’affermazione dell’impugnata sentenza, secondo cui le decisioni inter partes abbiano inequivocabilmente chiarito il diritto della parte proprietaria ad ottenere la restituzione solo relativamente al giudizio cassatorio, è corretta sia in riferimento alla ricostruzione della vicenda in termini di occupazione usurpativa sia quale riflesso del rigetto delle eccezioni della parte pubblica volte ad invocare il risarcimento per equivalente, o a paralizzarla in riferimento all’art. 2933 c.c., ed è, anche, altrettanto vero che le decisioni stesse non contengono esplicitamente la condanna alla restituzione. Ciò, del resto, risulta comprovato dal fatto che il ricorrente, consapevole di non esser destinatario di una statuizione siffatta, idonea, dunque, ad esser posta in esecuzione, deduce che il giudice del rinvio sia obbligato ad emetterla e contesta -infondatamente, alla stregua di quanto si è esposto al precedente p. 22 – la competenza del TSAP ad interpretare il giudicato, in sede di giurisdizione diretta sulla legittimità del provvedimento di acquisizione sanante.

25. Così convenendo, l’emissione del provvedimento di acquisizione non era preclusa nè dal giudicato restitutorio, che non è stato emesso, e neppure in funzione del vincolo cui era tenuto il giudice di rinvio, in ragione della consentita valutazione del fatto sopravvenuto esulante dal decisum del giudizio rescindente, secondo quanto si è sopra esposto al p. 2.

26. Deve, ancora, escludersi che si sia formato un giudicato implicito sulla sentenza del TSAP n. 170 del 2013 nella parte in cui aveva dato conto dell’emanazione della Delib. di acquisizione n. 156 del 2012 e ciò in quanto, nel cassare tale sentenza, queste Sezioni Unite con la sentenza del 2016, non hanno affrontato l’argomento (che non era sotteso nei motivi primo e secondo che sono stati accolti), ed hanno considerato assorbita ogni ulteriore censura, venendo dunque in rilievo il principio, che qui si condivide, secondo cui le questioni costituenti oggetto dei motivi di ricorso per cassazione espressamente dichiarati assorbiti debbono ritenersi, per definizione, non decise e possono essere, quindi, riproposte, essendo impregiudicate, all’esame del giudice di rinvio (Cass. n. 13952 del 2019; n. 28751 del 2017; n. 18677 del 2011). Ne consegue che l’assunto di parte ricorrente, pure diffusamente illustrato nella memoria, secondo cui sarebbero state escluse indistintamente tutte le ragioni ostative alla condanna alla restituzione del bene, finisce per risolversi in una petizione di principio, e per le medesime ragioni è erroneo l’argomento speso dall’ESA (pag. 36 del controricorso) che ipotizza un giudicato di segno opposto. A tanto, va aggiunto che la Delib. acquisitiva del 2012, come si è detto, è stata ritirata in autotutela dall’Amministrazione, con conseguente caducazione di ogni sua efficacia, per esser sostituita da quella del 2017, successiva all’emanazione della seconda sentenza di queste Sezioni Unite, ed unico oggetto del presente giudizio.

27. La conclusione cui è pervenuto il TSAP non contrasta con l’invocata giurisprudenza della prima sezione civile di questa Corte, inaugurata con la sentenza n. 11258 del 2016 (in seguito, tra le altre, Cass. n. 11920 del 2017; n. 13532 del 2017; n. 14311 del 2018), secondo cui il provvedimento di acquisizione non può essere adottato quando, formatosi un giudicato sulla illiceità del comportamento della P.A. sia stato accertato il conseguente diritto del privato al risarcimento del danno. La giurisprudenza in esame, muovendo dai principi posti dalla sentenza n. 71 del 2015 della Corte Cost., circa per il carattere non retroattivo del provvedimento acquisitivo e la conseguente sua preclusione in presenza di un giudicato restitutorio, ha considerato che dette regole legali operano, a maggior ragione, e l’Amministrazione non può più esercitare il potere attribuitole dalla norma, o in presenza di un giudicato sull’assetto reale del bene, il quale ne abbia già stabilito l’avvenuto trasferimento a titolo originario in capo all’amministrazione espropriante, perciò rendendo priva di causa la successiva volontà provvedimentale di quest’ultima che deve fondarsi necessariamente su una precisa base legale e porsi quale “extrema ratio”, ovvero in presenza di un giudicato, anche, solo sulla illiceità dell’acquisizione del bene e sul diritto al risarcimento del danno per equivalente, ormai entrato a far parte del patrimonio del privato.

A tale tesi hanno prestato adesione i giudici amministrativi (cfr. Cons. Stato n. 3871 del 2019 con richiami in giurisprudenza) e queste Sezioni Unite (Cass. SU n. 539 del 2019), che, in un caso in cui era passata in giudicato la statuizione relativa all’illiceità della condotta della P.A. ed era divenuta definitiva anche la condanna al risarcimento del danno, con enunciazione dei precisi criteri per la sua quantificazione, hanno affermato che “nè lo ius superveniens, nè il provvedimento adottato sulla base di esso, poteva esplicare alcun effetto nella vicenda risarcitoria de qua. Il provvedimento amministrativo non poteva infatti vanificare il diritto al risarcimento del danno sancito con sentenza passata in giudicato e far sorgere il mero diritto all’indennizzo ai sensi della nuova normativa”.

28. Nel caso in esame, a differenza che in quelli oggetto di tale orientamento, il giudicato attiene bensì all’illegittimità della condotta della parte pubblica, ma non comprende alcuna statuizione di risarcimento del danno per equivalente, statuizione che presuppone, pur sempre, una rinuncia – espressa o implicita nella richiesta risarcitoria – al diritto dominicale da parte del proprietario. Al contrario, la rinuncia è stata ricusata dal ricorrente, che ha, appunto, insistito per la restituzione della sua res, con opzione che le sentenze del 2007 e del 2016 hanno riconosciuto potesse esser da lui esercitata, in conformità della giurisprudenza di questa Corte, che in riferimento all’ipotesi, qui ricorrente, dell’occupazione usurpativa, ha sempre affermato l’inidoneità della trasformazione del bene ad incidere sull’assetto del diritto reale, e la cui conclusione, come si è detto, vale per ogni caso di c.d. espropriazione indiretta, a seguito della sentenza di queste Sezioni Unite n. 735 del 2015.

29. Da quanto sin qui esposto, consegue che l’emissione del provvedimento di acquisizione al patrimonio indisponibile, con cui l’Amministrazione ha posto fine al commesso illecito (cfr. Consiglio di Stato nella n. 2 del 2016) non era preclusa dal giudicato, restando con ciò smentita la fondatezza della dedotta violazione della L. n. 241 del 1990, art. 21 septies, che sanziona con la nullità i provvedimenti amministrativi, che, a differenza che nel caso in esame, siano stati assunti “in violazione o elusione del giudicato”.

30. I motivi quinto, sesto e settimo vanno esaminati congiuntamente, perchè censurano la ritenuta legittimità del provvedimento emesso. Essi sono in parte infondati ed in parte inammissibili.

31. Premesso che i profili di censura con cui si afferma la violazione dell’art. 112 c.p.c., sono inammissibili, non essendo tale vizio qui deducibile, alla stregua delle considerazioni svolte nel precedente p. 13, la dedotta nullità del provvedimento della L. n. 241 del 1990, ex art. 21 septies, in riferimento all’asserita impossibilità dell’opera di funzionare (oggetto del quinto motivo) per non esser stata acquisita l’opera pubblica nella sua interezza (in concreto, anche la rete delle condotte interrate) maschera la richiesta di una diversa valutazione di merito laddove tende a sovvertire il giudizio operato dal TSAP, che nel qualificare come errori di dettaglio, seppure sussistenti, i dedotti vizi ne ha con ciò stesso escluso la portata invalidante, in altri termini che essi inerissero al contenuto precettivo dell’atto.

32. Attinge, del pari, al merito la doglianza (oggetto del settimo motivo) con cui si contesta la legittimità della valutazione inerente alla sussistenza delle eccezionali ragioni di interesse pubblico addotte dall’Amministrazione a giustificazione del provvedimento, che, come si è prima accennato, si sostiene erronea, anzitutto, in relazione al metodo d’accertamento dei dati fattuali (che si assumono non certi) ed altrettanto erronea quanto all’importanza dell’opera, al suo bacino d’utenza, al suo costo, all’attualità dell’interesse pubblico al mantenimento del manufatto. Appare evidente che, anche in questo caso, la dedotta nullità del provvedimento presuppone un apprezzamento dei presupposti di legge per l’emanazione del provvedimento, compresa l’assenza di ragionevoli alternative all’acquisizione sanante, di segno opposto rispetto a quello compiuto e documentato dall’Amministrazione, e ritenuto legittimo dal TSAP, cui dovrebbe pervenirsi mediante condivisione della prospettiva del ricorrente, il che è inammissibile in questa sede di legittimità.

33. Quanto alla contestazione riferita alla mancata comunicazione di avvio del procedimento (oggetto del sesto motivo), va osservato che queste Sezioni Unite, con la sentenza n. 3517 del 2019, pure richiamata dalla difesa dell’ESA, nel ribadire la natura e le finalità dell’istituto dell’acquisizione sanante, quali sopra enunciate, hanno, in effetti, affermato il condivisibile principio secondo cui “l’adozione di tale provvedimento presuppone una valutazione discrezionale degli interessi in conflitto qualitativamente diversa da quella tipicamente effettuata nel normale procedimento espropriativo, non limitata genericamente alla eccessiva difficoltà od onerosità delle possibili soluzioni ma volta ad accertare l’assenza di ragionevoli alternative all’acquisizione – prima fra tutte la restituzione del bene – in relazione alle quali il proprietario deve essere posto in grado di svolgere il proprio ruolo partecipativo secondo le regole generali sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo”.

34. Ma tale principio non giova ai ricorrenti, in quanto, a differenza che nel caso oggetto di scrutinio nel precedente richiamato, la sentenza impugnata non ha negato la necessità del contraddittorio procedimentale, ma ha, piuttosto, ritenuto che il vizio sia stato sanato, in riferimento al disposto di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 21 octies, affermando testualmente che, se anche il contraddittorio fosse stato attivato, “l’esito della vicenda amministrativa non avrebbe potuto essere diverso”. E siffatta conclusione presuppone una valutazione di merito, che è qui insindacabile, dovendo sotto altro profilo rilevarsi che se è bensì innegabile che la determinazione dell’indennità costituisca un elemento essenziale del provvedimento di acquisizione, la diversa questione della congruità del relativo ammontare quale determinata col provvedimento impugnato, e su cui il ricorrente in concreto lamenta di non aver potuto interloquire (per far valere il deprezzamento del fondo residuo, il mancato computo di danni e la mancata valutazione ex nunc del valore della porzione acquisita), è, comunque, inidonea a viziare l’atto, potendo, invece, esser fatta valere mediante le opportune azioni di pertinenza del giudice ordinario (cfr. tra le altre Cass. S.U. n. 2583 del 2018; n. 15343 del 2018), secondo la regola generale dell’ordinamento posta in tema di determinazione giudiziale delle indennità dovute nell’ambito di un procedimento espropriativo, a ristoro della privazione del diritto dominicale dell’espropriato. La congruità dell’importo determinato sta, dunque, a valle del provvedimento ablativo, e ne presuppone l’esistenza, proprio perchè il relativo atto costituisce la fonte del credito indennitario. Tanto è stato, del resto, già affermato in seno alla sentenza impugnata, in parte qua non raggiunta da apposita censura (cfr. pag. 76 del ricorso, in cui il ricorrente prende atto della giurisprudenza in tema di giurisdizione sulle controversie relative all’ammontare dell’indennità).

35. Il ricorso va conclusivamente respinto, restando assorbito l’esame di quello incidentale condizionato proposto da Imprepar.

36. Il Collegio ritiene di dover compensare le spese, per la complessità delle questioni discusse e per l’alterno esito dei giudizi che hanno visto le parti contrapposte, e sui quali si è innestata la presente controversia.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale, e compensa le spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2019

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