Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29456 del 23/12/2020

Cassazione civile sez. III, 23/12/2020, (ud. 01/07/2020, dep. 23/12/2020), n.29456

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. OLIVIERI Stefano – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35778/2018 proposto da:

SRL PATOS, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27,

presso lo studio dell’avvocato GIOVAN CANDIDO DI GIOIA, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrenti –

e contro

S.T.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 3117/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 10/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

01/07/2020 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSTANO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

con atto notarile del 10 novembre 2003 veniva costituita la società avente ad oggetto attività di ristorazione, S.r.l. Patos, tra P.P. e S.T., quest’ultimo assumeva la qualità di legale rappresentante. La società concludeva in data 1 maggio 2004 un contratto di locazione per un immobile sito in (OMISSIS) con i comproprietari S.L., C. e T. e F.M., da destinare ad attività di ristorazione. Per rendere l’immobile adatto all’uso convenuto la società eseguiva importanti lavori di ristrutturazione per l’importo di Euro 450.000, somma ottenuta mediante mutuo di pari importo acceso presso la Banca del Fucino. P.P. si era costituito fideiussore per tale prestito, con contratto del 16 maggio 2005 e aveva costituito in pegno titoli emessi dalla stessa banca mutuante per l’importo di Euro 50.000. Analogo pegno era stato costituito anche dalla madre di P.P., C.S.. L’immobile veniva dotato di una cucina professionale per l’importo complessivo di Euro 96.900, comprata in data 20 luglio 2004 dal venditore S.r.l. ITTIELLE e il pagamento di tale importo era avvenuto con cambiali emesse dalla S.r.l. Patos, garantite da P.P., S.T. e F.M.. P.P. corrispondeva, altresì, alla società l’ulteriore importo di Euro 105.000 per l’acquisto di beni strumentali per l’attività di ristorazione. Anche la madre di P.P., C.S. effettuava finanziamenti in favore della società per Euro 18.735. La società Patos otteneva un affidamento dal Banco di Brescia per l’importo di Euro 85.000 e ulteriori aperture di credito con la Banca Marche. Sul presupposto della presentazione da parte di S.T. della domanda per la licenza di esercizio commerciale presso il Comune di Roma veniva iniziata l’attività di ristorazione in data (OMISSIS), successivamente interrotta dall’intervento dei vigili urbani, nel mese di (OMISSIS), attesa la assenza di autorizzazioni amministrative. L’anno dopo, nel (OMISSIS), S.T. faceva riprendere l’attività di ristorazione da una diversa società, la S.r.l. AL.TO. Sulla base di tali elementi P.P. proponeva ricorso al Tribunale di Roma ai sensi dell’art. 2476 c.c., per la revoca di S.T. dalla carica di amministratore unico della S.r.l. Patos e il Tribunale, con provvedimento del 16 aprile 2008, accoglieva la richiesta sulla base dei comportamenti di mala gestio posti in essere da S. finalizzati al perseguimento di interessi estranei a quelli della S.r.l. Patos;

con atto di citazione la società Patos evocava in giudizio davanti al Tribunale di Roma, S.T. per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla cattiva gestione della società deducendo i fatti che precedono e lamentando che, poichè la società attrice era insolvente, le banche presso cui erano stati richiesti i prestiti avevano avviato le iniziative per il recupero dei crediti, escutendo le garanzie e provvedendo alla segnalazione presso la Centrale di Allarme Interbancario. Aggiungeva che l’amministratore aveva omesso di convocare l’assemblea dei soci e di redigere i bilanci;

si costituiva S.T. contestando le argomentazioni dell’attrice e chiedendo il rigetto della domanda;

con sentenza del 24 luglio 2013 il Tribunale di Roma rigettava la domanda compensando le spese dopo aver accertato la sussistenza della violazione relativa alla mancata richiesta di autorizzazione amministrativa all’esercizio dell’attività commerciale oggetto della società. Escludeva, invece che le altre condotte imputate a S.T. costituissero ipotesi di mala gestio e riteneva insussistente il danno patrimoniale prospettato dalla società, sia per mancanza di prova dei pagamenti dedotti, sia perchè, comunque, le somme sarebbero state impiegate per l’acquisto di beni rimasti nella proprietà della società attrice;

avverso tale decisione proponeva appello la S.r.l. Patos. Si costituiva S.T. chiedendo il rigetto della impugnazione;

la Corte d’Appello di Roma con sentenza del 10 maggio 2018 rigettava l’impugnazione condannando la parte appellante al pagamento delle spese di lite. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la società Patos sulla base di nove motivi. S. non svolge attività processuale in questa sede.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, con specifico riferimento ai motivi di appello riguardanti le somme corrisposte dalla società per l’esecuzione di lavori di ristrutturazione ovvero per garantire tali opere; la sentenza di appello non avrebbe considerato le specifiche censure contenute nell’atto di impugnazione indicando analiticamente tutti gli elementi documentali, le non contestazioni da parte della difesa di S.T. e le deduzioni contenute nell’atto di impugnazione, che non sarebbero state adeguatamente valutate dalla Corte territoriale;

con il secondo motivo si deduce la violazione l’art. 112 c.p.c., ai sensi art. 360 c.p.c., n. 4, con riferimento ai motivi di appello con i quali era stata censurata la ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado riguardo alle somme effettivamente corrisposte per la cucina del ristorante in favore della società ITTIELLE. Anche in questo caso la decisione di appello non avrebbe tenuto in considerazione le specifiche censure della S.r.l. Patos, limitandosi a considerare la produzione documentale di S.T.;

i due motivi possono essere trattati congiuntamente perchè strettamente connessi e riguardanti elementi fattuali e documentali. Sono inammissibili poichè esulano del tutto dal perimetro dell’art. 112 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 4, poichè le censure non riguardano l’omessa pronuncia, ma si traducono in una censura sulla congruità della motivazione. Tale rilievo è, altresì, inammissibile perchè consiste in una contestazione per omesso esame di dati istruttori, riferibile all’art. 360 c.p.c., n. 5, ma non consentita nell’ipotesi di doppia conforme ex art. 348 ter c.p.c., comma 5. In ogni caso, si chiede inammissibilmente a questa Corte di riesaminare tutto il materiale istruttorio al fine di pervenire una ricostruzione più appagante per la ricorrente rispetto a quella adottata dal giudice di secondo grado;

con il terzo motivo si lamenta la violazione del giudicato derivante dalla sentenza del Tribunale di Roma n. 16433 del 2013 e la violazione dell’art. 324 c.p.c.. La Corte territoriale aveva condiviso la decisione di primo grado, riguardo all’inidoneità delle prove dei pagamenti, in quanto rappresentate da estratti conto non sottoscritti dalla banca, privi di ufficialità, corredati da copie degli assegni dai quali non era possibile desumere l’imputazione di pagamento o l’intestatario dell’assegno. Ma il Tribunale avrebbe comunque riconosciuto una serie di pagamenti con sentenza non impugnata dalla controparte. Tale giudicato avrebbe dovuto vincolare la Corte territoriale e consentire di ammettere una consulenza percipiente;

il motivo è inammissibile per genericità. A prescindere dalla deduzione dei presunti pagamenti effettuata in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 (parte ricorrente si limita a riprodurre un elenco di disposizioni di pagamento senza chiarire se tali elementi costituiscono la trascrizione di una parte della sentenza del Tribunale ovvero di un atto di parte), i rilievi non consentono di comprendere il titolo in base al quale sarebbero state effettuate quelle anticipazioni e se quelle pretese si riferiscono alle domande azionate in giudizio. Conseguentemente, risulta scarsamente comprensibile la richiesta di consulenza percipiente;

con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4. Secondo parte ricorrente con l’atto di citazione la società aveva richiesto, a titolo di risarcimento dei danni, la condanna di S.T. perchè questi aveva “autorizzato, quale comproprietario, l’esercizio della stessa attività di ristorazione nei medesimi locali… da parte di srl AL.TO. la quale ha utilizzato e utilizza indebitamente e gratuitamente i lavori, gli impianti, la cucina, le attrezzature, gli arredi e delle provviste realizzate e acquistate da Patos, nonchè i segni distintivi (ditta, marchio, insegna) della stessa società”. Tale prospettazione non sarebbe diversa da quella indicata nell’atto di appello in cui, tra l’altro, si richiedeva di accertare la responsabilità di S.T. per avere questi concluso “altro contratto inerente il locale ad uso ristorante… con la società AL.TO. che ha precluso alla Patos di svolgere l’attività di ristorazione programmata e quindi di avere ricavi e utili”;

secondo la Corte d’Appello, invece, tale seconda prospettazione risultava diversa da quella indicata in citazione la quale, secondo il Tribunale, era stata qualificata come richiesta di danni per la attività di ristorazione che la società Patos avrebbe potuto svolgere, ma che non le fu consentito di espletare a causa della condotta di S.T.. Pertanto, il danno avrebbe dovuto configurarsi come un mancato guadagno della società Patos da determinare sulla base del volume di affari di ALTO. Ma, secondo la Corte, sul punto, non era stata prodotta alcuna documentazione, nè formulate richieste istruttorie e neppure domandato il danno da usura delle attrezzature relative alla cucina. Tali valutazioni sarebbero errate, in quanto la società Patos non aveva mai fatto riferimento all’attività economica della AL.TO, ma aveva sostenuto di avere contratto obbligazioni per somme ingenti per adattare l’immobile all’uso ristorazione, dotandolo di tutti gli impianti e, in particolare, di quelli necessari per il vano cucina;

il motivo è inammissibile in quanto non specifico, nonostante la trascrizione dell’atto introduttivo e dell’intero atto di appello. Come emerge anche dal contenuto della censura, correttamente la Corte territoriale ha evidenziato la difformità delle domande formulate in primo e secondo grado. Inizialmente il pregiudizio era rappresentato dall’utilizzo abusivo delle strutture nella disponibilità della società Patos, da parte della società AL.TO, mentre in sede di gravame la richiesta di danni si riferisce all’impossibilità da parte della società Patos di utilizzare il ristorante e quindi nel mancato guadagno. E’ evidente, pertanto, che si tratta di domande differenti;

sotto altro profilo le doglianze appaiono contraddittorie poichè non viene chiarito il profilo della legittimazione attiva di Patos rispetto alla domanda tesa ad ottenere il controvalore dei beni ormai usurati ovvero a rinunziare alla richiesta di restituzione degli stessi, nel momento in cui si afferma che la stessa non sarebbe proprietaria della struttura cucina, degli arredi e delle altre attrezzature. In ogni caso, non ricorre un’omessa pronunzia atteso che la corte territoriale ha evidenziato la diversità delle domande proposte precisando che, rispetto a quella finalizzata ad ottenere il mancato guadagno, le risultanze processuali non consentivano in alcun modo di individuare un parametro di riferimento (eventualmente riferito al volume di affari di AL.TO, difettando ogni dato contabile relativo all’attività di Patos). Rispetto a tale valutazione il motivo di censura non contrappone alcuna argomentazione;

con il quinto motivo si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4. Rispetto al contenuto del secondo motivo di appello di srl Patos la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto assorbite le deduzioni nella doglianza precedente (primo motivo di appello);

con il sesto motivo si deduce la violazione delle medesime disposizioni oggetto della censura precedente, con riferimento al quinto motivo di appello, disatteso dalla Corte territoriale in quanto l’eventuale mancata predisposizione del bilancio e degli altri adempimenti societari “costituiscono fonte di responsabilità per l’amministratore ove sussista in concreto un danno, allegato e provato”, escludendo la sussistenza di un danno in re ipsa;

con il settimo motivo si deduce la violazione degli artt. 1226,2563,2568,25711600 c.c., nonchè del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, artt. 20 e 22, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3. Con il sesto motivo di appello la società Patos aveva richiesto il risarcimento dei danni per l’uso dei segni distintivi indebitamente fatti propri dalla società AL.TO. Contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale l’uso dei segni distintivi era stato compiuto certamente con colpa da parte di S.T. e in considerazione della difficoltà di quantificare il danno era stata richiesta consulenza tecnica ovvero di provvedere alla liquidazione equitativa del pregiudizio sensi dell’art. 1226 c.c.;

il quinto, sesto e settimo motivo vanno trattati congiuntamente perchè strettamente connessi e sono inammissibili perchè non individuano le ragioni per le quali la decisione è ritenuta erronea dalla ricorrente. Poichè per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi, con i quali è esplicato, si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata.

Tali ragioni debbono concretamente considerare le argomentazioni che la sorreggono e non possono prescindere da esse. Diversamente dovrà considerarsi nullo, per inidoneità al raggiungimento dello scopo, il motivo che non rispetti tale requisito. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4 (principio costante: si veda Cass. Sez. 3, Sentenza n. 359 del 11/01/2005, ed in motivazione, Cass. S.U. n. 7074 del 2017 e da ultimo, n. 22478 del 24/09/2018);

a prescindere da ciò la trascrizione del motivo di appello e della motivazione della sentenza consente di desumere che parte ricorrente non ha colto la ratio decidendi, poichè la questione ritenuta rilevante dalla Corte territoriale non è rappresentata dalla circostanza che S.T. avesse tenuto un comportamento inadempiente nello svolgimento del ruolo di amministratore, ma che da tale condotta siano derivati danni patrimoniali, dovendosi escludere, sulla base di costante orientamento di questa Sezione, la sussistenza nel nostro ordinamento di ipotesi di danno in sè che non richieda la prova di alcun concreto pregiudizio (Cass. n. 28985 del 11/11/2019). La prova del danno concreto può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile “in re ipsa” derivante esclusivamente dall’inadeguatezza della condotta dell’amministatore;

alla luce di quanto precede appare corretta la decisione della Corte territoriale che ha escluso l’ammissione di una consulenza tecnica esplorativa per la ricostruzione dei fatti contabili e sull’andamento economico e imprenditoriale della società Patos, a fronte di una domanda di risarcimento dei danni per condotta colposa dell’amministratore S.T., eventualmente da valutare in re ipsa. Analoghe considerazioni riguardano il settimo motivo, dove parte ricorrente non coglie la differenza tra l’elemento del danno conseguenza, che richiede necessariamente di essere provato ed il profilo della violazione di legge, che non necessariamente produce anche un danno risarcibile;

con l’ottavo motivo si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, con riferimento al settimo motivo di appello che, secondo la ricorrente, non sarebbe stato preso in esame dalla Corte territoriale;

con il nono motivo si lamenta la omessa pronunzia relativa all’ottavo motivo di appello con il quale si ribadiva che la società Patos era debitrice di somme ingenti nei confronti degli istituti di credito ed anche tale profilo sarebbe stato ignorato dalla Corte territoriale;

la censure vanno trattate congiuntamente perchè strettamente connesse e sono inammissibili per le ragioni già espresse con riferimento ai motivi precedenti riguardo alla necessità della sussistenza di un pregiudizio concreto a prescindere dalla violazione delle disposizioni di legge;

ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; nulla per le spese attesa la mancata costituzione della parte intimata. Infine, tenuto conto del tenore della decisione, mancando ogni discrezionalità al riguardo (Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) va dichiarato che sussistono i presupposti processuali per il pagamento del doppio contributo se dovuto.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 1 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2020

 

 

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