Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29453 del 23/12/2020

Cassazione civile sez. lav., 23/12/2020, (ud. 12/11/2020, dep. 23/12/2020), n.29453

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22210/2017 proposto da:

C.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TORTONA N.

4, presso lo studio dell’avvocato STEFANO LATELLA, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i

cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 477/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 03/04/2017 R.G.N. 639/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/11/2020 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’.

 

Fatto

RITENUTO

Che:

1. C.L. ha agito davanti al Tribunale di Bari per ottenere la condanna del Ministero della Salute al pagamento in suo favore dell’indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, quale danneggiato da emotrasfusione;

la domanda, accolta dal giudice di primo grado, veniva poi disattesa dalla Corte d’Appello di Bari la quale riteneva maturata la decadenza triennale di cui alla L. n. 238 del 1997;

la S.C., adita dal C., con sentenza 16 marzo 2016, n. 5289, ha cassato la predetta sentenza, sottolineando come fosse errato prendere a riferimento, per il decorso del termine decadenziale, la contezza da parte dell’emotrasfuso della propria patologia epatica, dovendo essere invece accertato, a tali fini, il momento in cui il medesimo ebbe consapevolezza della connessione causale tra l’emotrasfusione e tale patologia ed il momento in cui possa dirsi sussistente la consapevolezza dell’avvenuto superamento della soglia minima di indennizzabilità, secondo le categoria di cui alla tabella A allegata al D.P.R. n. 834 del 1981;

la Corte d’Appello di Bari, pronunciando in esito a tale cassazione con rinvio, ha ribadito la precedente pronuncia della medesima Corte con la quale era stata dichiarata la decadenza, rimarcando come il C. avesse riconosciuto, nel ricorso introduttivo del giudizio, di essere venuto a conoscenza della gravità e irreparabilità del danno nel mese di (OMISSIS), a seguito di biopsia epatica;

la Corte distrettuale ha quindi rilevato che il ricorrente, “contraddicendo sè stesso assume di avere avuto consapevolezza della derivazione causale dell’epatopatia da emotrafusione non più in data (OMISSIS) (di dimissione ospedaliera) ma in data (OMISSIS) di ritiro della copia della cartella clinica”;

ancora la Corte d’Appello ha segnalato come la diagnosi conosciuta in data (OMISSIS) coincidesse perfettamente con quella conosciuta all’esito delle dimissioni del (OMISSIS), poichè entrambe riferivano della sussistente “epatopatia da HCV”;

dunque, concludeva la sentenza impugnata, il (OMISSIS) il C. non poteva aver maturato nulla di più specifico sul piano del nesso di causalità di quanto conosciuto a seguito dalla diagnosi di dimissione;

avverso tale sentenza il C. ha proposto quattro motivi di ricorso per cassazione, poi illustrati da memoria e resistiti da controricorso del Ministero della Salute.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, come modificata dalla L. n. 238 del 1997, art. 1, comma 9, nonchè degli artt. 384 e 394 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non essersi attenuto il giudice del rinvio al principio sancito dalla S.C. omettendo di accertare se il C., al momento della domanda amministrativa avesse avuto conoscenza che il danno epatico fosse riconducibile ad una della otto categorie di cui alla tabella A D.P.R. n. 834 del 1981;

il secondo motivo lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omessa considerazione dell’esistenza anche di un fattore di rischio familiare che interferiva sulla conoscibilità del nesso causale e del fatto che l’esame istologico conosciuto nel (OMISSIS) metteva in evidenza il solo rischio da trasfusione così inducendo nel ricorrente, in quel momento, la richiesta consapevolezza;

il terzo motivo censura la sentenza impugnata per aver fatto cattivo uso dell’art. 2729 c.c., di cui si lamenta la violazione, operando sulla base di elementi indiziari privi delle necessarie caratteristiche di gravità, precisione e concordanza;

il quarto motivo, infine, speculare al primo, deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, come modificata dalla L. n. 238 del 1997, art. 1, comma 9, nonchè degli artt. 384 e 394 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non essersi attenuto il giudice del rinvio al principio sancito dalla S.C. omettendo di accertare il momento in cui il C. abbia avuto effettiva conoscenza del nesso causale tra emotrasfusione e patologia epatica;

2. i motivi sono, nel loro insieme, fondati;

3. la pregressa sentenza rescindente di questa S.C. ha ritenuto che la pronuncia di decadenza formulata in grado di appello fosse errata, perchè il decorso del termine era stato fatto decorrere dalla conoscenza della patologia (epatite cronica da HCV) e non dal momento in cui “il C. – secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica e con l’ordinaria diligenza – aveva avuto contezza di un danno irreversibile conseguente ad epatite post-trasfusionale inquadrabile, pur alla stregua di un mero canone di equivalenza, e non già secondo un criterio di rigida corrispondenza tabellare, in una delle infermità classificate in una delle otto categorie di cui alla tabella 13 annessa al testo unico approvato con D.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834” (così espressamente Cass. 5289/2016 cit. inter partes);

l’oggetto delle verifiche demandato al giudice del rinvio era quindi duplice e concerneva il momento in cui il ricorrente aveva avuto o poteva avere contezza del nesso causale tra la trasfusione e la patologia epatica ed il momento in cui il medesimo aveva avuto contezza o poteva avere contezza del rientrare della propria patologia nell’ambito delle situazioni considerate nella citata tabella, quali requisiti ritenuti entrambi necessari al sorgere del diritto e quindi alla decorrenza del termine decadenziale, in un’esegesi della norma evidentemente finalizzata a coniugare la fattispecie estintiva con il rilievo dei beni protetti;

3.1 iniziando dal secondo profilo, la S.C. aveva demandato al giudice del rinvio di svolgere un ben preciso accertamento, insito nella struttura del diritto azionato; onde evitare fraintendimenti, va ricordato che “la L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 1, comma 3, letto unitamente al successivo art. 4, comma 4, deve interpretarsi nel senso che prevede un indennizzo in favore di coloro che presentino danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali, sempre che tali danni possano inquadrarsi – pur alla stregua di un mero canone di equivalenza e non già secondo un criterio di rigida corrispondenza tabellare – in una delle infermità classificate in una delle otto categorie di cui alla tabella B annessa al testo unico approvato con D.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834”, sicchè “ove il soggetto, affetto da contagio HCV e dunque portatore di lesioni permanenti dell’integrità psicofisica, non presenti, in ragione dello stato di quiescenza della malattia, sintomi e pregiudizi funzionali attuali, senza incidenza sulla capacità di produzione reddituale, non spetta alcun indennizzo in quanto l’infermità non rientra in alcuna delle categorie della menzionata tabella A” (Cass. 31 marzo 2017, n. 8452; Cass. 3 febbraio 2012, n. 1635, entrambe sulla scia di Cass. S.U., 1 aprile 2010, n. 8064);

la conseguenza è ovviamente quella per cui il diritto non sorge se non vi sia superamento di quella soglia e quindi neppure può parlarsi di termini di decadenza, se non dal momento in cui quel superamento si verifichi ed esso sia percepibile e conoscibile dall’interessato, come spiega anche la giurisprudenza, secondo la quale “l’affermazione di una soglia minima di indennizzabilità comporta anche… che il termine di decadenza di tre (e dieci) anni, di cui all’art. 3, comma 1, si sposta in avanti nel senso che comincia da decorrere dal momento della consapevolezza, da parte di chi chiede l’indennizzo, del superamento della soglia” (Cass. S.U. 8064/2010 cit.);

la sentenza rescindente, nel chiedere quell’accertamento, si è posta in linea con tali principi, ma il giudice del rinvio non ha percepito, sul punto, la portata della disposta cassazione (quanto imposto dalla pronuncia rescindente è stato riportato parzialmente nella sentenza impugnata, la quale manca del riferimento allo specifico rilievo della soglia di indennizzabilità), che imponeva di distinguere (v. Cass. 8452/2017 e Cass. 1635/2012 citt.) tra il verificarsi della patologia intesa come lesione permanente dell’integrità psicofisica e il manifestarsi di sintomi e pregiudizi funzionali ad essa consequenziali ed attuali (cfr. ancora Cass. 8452 cit. e precedenti ivi citati), nè comunque ha in alcun modo svolto quell’accertamento ad esso demandato;

ciò comporta de plano, sotto questo profilo, la violazione della regola imposta dalla sentenza rescindente e l’accoglimento del primo motivo, per violazione diretta dell’art. 384 c.p.c., comma 2 e, indirettamente, delle norme sostanziali (L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, come modificata dalla L. n. 238 del 1997, art. 1, comma 9) che stanno a fondamento del precedente decisum di questa S.C.;

3.2 l’altro profilo demandato alla verifica del giudice del rinvio riguardava la consapevolezza, da valutare “secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica e con l’ordinaria diligenza” (così la sentenza rescindente) del nesso causale tra l’emotrasfusione e la patologia contratta, ancora quale requisito essenziale affinchè il fatto dannoso fosse percepibile come fonte di quel diritto e consentisse quindi l’inizio del decorso del termine decadenziale;

il ragionamento del giudice del rinvio, sopra già riepilogato, muove dal rilievo dell’identità della diagnosi nota al momento delle dimissioni del (OMISSIS) e di quella di cui alla cartella clinica ritirata nel 2001, contenente anche il referto bioptico datato (OMISSIS);

tale identità, secondo la Corte distrettuale imporrebbe di negare che il C., tra il (OMISSIS), possa avere maturato qualcosa di più specifico sul piano del nesso di causalità;

il ragionamento sostanzialmente elude l’accertamento che era stato demandato al giudice del rinvio;

affermare che l’identità delle diagnosi conosciute nel (OMISSIS) e nel (OMISSIS) sia utile a stabilire che nel (OMISSIS) il C. aveva la stessa conoscenza del nesso causale che poi afferma di avere avuto nel (OMISSIS) è affermazione in sè tautologica, perchè conoscere una patologia e conoscerne l’origine etiologica sono cose diverse, specie quanto la malattia può derivare da più cause, come nel caso di specie è conclamato dal fatto che addirittura la Commissione Medica Ospedaliera di prima istanza, nel (OMISSIS), ritenne incerto il nesso causale con la trasfusione per la ricorrenza di una specifica familiarità;

conclusioni non diverse si avrebbero anche a completare il ragionamento della Corte di merito con quanto in essa è rimasto implicito, ovverosia che sarebbe l’affermazione del C. di aver percepito il nesso causale solo dalla lettura del referto nel (OMISSIS), attraverso il combinarsi di tale affermazione con il fatto che tale referto nulla aggiungeva a quanto risultante dalla diagnosi del (OMISSIS), a giustificare il collocarsi della conoscenza del nesso causale già al momento delle dimissioni, sempre nel (OMISSIS);

infatti, tale argomento risulta anch’esso tautologico, perchè nessun nesso logico intercorre tra la mera affermazione ad opera della parte dell’avere conosciuto il nesso causale in esito alla diagnosi del (OMISSIS), con la conclusione che quel nesso fosse conosciuto già nel (OMISSIS), sul solo presupposto noto che la diagnosi del (OMISSIS) e quella del (OMISSIS), riguardanti pacificamente il solo dato della malattia esistente, fossero uguali;

nè l’eventuale inidoneità delle spiegazioni della parte sul perchè nel (OMISSIS) fosse noto quel nesso causale (il ricorrente dice che il referto bioptico, dapprima a lui ignoto nei particolari, riportava come dato clinico solo l’emotrasfusione e non la familiarità, sicchè da ciò egli avrebbe desunto l’esistenza dell’origine etiologica che qui interessa) può in alcun modo giustificare, ancora dal punto di vista logico, la deduzione che allora la conoscenza retroagisse a quattro anni prima;

si determina, come giustamente rileva il ricorrente in uno dei propri motivi, la violazione dell’art. 2729 c.c., per utilizzazione illogica del ragionamento presuntivo;

è pur vero infatti che nella prova presuntiva “non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale” ma è pur sempre necessario almeno che “dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit” (Cass. 21 gennaio 2020, n. 1163), traducendosi altrimenti il tutto in un’operazione meramente congetturale, inidonea a legittimamente sorreggere il ragionamento giudiziale (Cass. 28 settembre 2020, n. 20342);

va altresì ribadito che, in tali ipotesi, compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., abbia trovato applicazione a fattispecie concreta che effettivamente risulti ascrivibile alla fattispecie astratta (Cass. 16 novembre 2018, n. 29635; Cass. 4 agosto 2017, n. 19485);

in definitiva manca tutt’oggi l’accertamento rispetto al nesso causale, quale imposto dalla regola di diritto formulata dalla S.C. con la sentenza rescindente; come si è visto, in essa fu chiaramente detto che tale accertamento avrebbe dovuto riguardare “secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica e con l’ordinaria diligenza” il momento in cui poteva dirsi avuta contezza di un danno irreversibile “conseguente” ad epatite post-trasfusionale;

come affermato da questa S.C. in ambiti contigui (Cass. 9 marzo 2015, n. 4669; Cass. 22 giugno 2009, n. 14584), la verifica, ove manchi certezza di una conoscenza soggettiva inequivocabile, che di certo non è confondibile con il possibile sospetto di una certa origine etiologica, va stabilita ricostruendo il momento in cui deve ritenersi maturata la conoscibilità di quel nesso di causa, sulla base di indici oggettivi e con alto grado di probabilità, alla luce delle nozioni comuni dell’uomo medio, eventualmente integrate da valutazioni mediche e secondo il parametro, espressamente affermato dalla sentenza rescindente, dell’ordinaria diligenza;

in definitiva, anche rispetto al nesso causale vi è stata violazione del principio di diritto e quindi, indirettamente, delle norme sostanziali parimenti denunciate nei motivi;

4. si impone quindi, per quanto da ciò derivi la protrazione ulteriore del processo, una nuova cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla medesima Corte d’Appello;

essa darà quindi attuazione agli accertamenti già richiesti con la prima sentenza rescindente ed ora nuovamente ed identicamente imposti, con le specificazioni dei profili elusi dalla pronuncia rescissoria, finalizzate ad evitare ulteriori fraintendimenti del significato del disposto rinvio.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Bari, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2020

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