Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29445 del 15/11/2018

Cassazione civile sez. II, 15/11/2018, (ud. 15/06/2018, dep. 15/11/2018), n.29445

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10861/2014 proposto da:

AVIO s.p.a., a socio unico, in persona del legale rappresentante pro

tempore, Ing. L.P.G. e FIAT PARTECIPAZIONI s.p.a. a

socio unico, in persona dell’Amministratore Delegato e rappresentate

pro tempore, Dott. Lo.Ma., rappresentate e difese

dall’Avvocato ANTONIO VOLANTI ed elettivamente domiciliate presso il

suo studio in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 27;

– ricorrenti –

contro

A.R. G., rappresentato e difeso dagli Avvocati ROMANO

VACCARELLA e MASSIMO MANFREDONIA ed elettivamente domiciliato presso

lo studio del secondo, in ROMA, LUNGOTEVERE MICHELANGELO 9;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 531/2014 della CORTE di APPELLO di ROMA,

pubblicata il 28/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/06/2018 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato in data 5.1.2001, l’avv. A.R. G. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Roma la FIAT AVIO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, chiedendone la condanna al pagamento della somma complessiva di Lire 7.435.400.397, pari ad Euro 3.840.063,83, oltre interessi e accessori come per legge, per attività professionale prestata in sede stragiudiziale e giudiziale nell’ambito di due ricorsi innanzi al TAR Lazio. In particolare, l’attore deduceva che l’importo di Lire 360.000.000 derivava dall’obbligo contenuto nel contratto triennale di consulenza legale giudiziale e stragiudiziale sottoscritto in data 1.9.1995 tra le parti, in cui si stabiliva che tale importo era dovuto al professionista in caso di cessazione del contratto; mentre gli importi di Lire 3.939.799.245 e di Lire 3.135.601.152 costituivano i corrispettivi per i giudizi instaurati innanzi al TAR Lazio, aventi ad oggetto l’annullamento per illegittimità di provvedimenti amministrativi.

Si costituiva in giudizio la Fiat Avio s.p.a., la quale contestava: a) la richiesta di pagamento della somma di Lire 360.000.000 in quanto la relativa obbligazione si era estinta per intervenuta remissione del credito da parte dell’avv. A., il quale nella sua missiva dell’8.5.2001, indirizzata all’avv. Zen di Fiat e all’avv. Franzo Grande Stevens, aveva dichiarato di rinunciare a ogni suo diritto derivante dal contratto dell’1.9.1995; b) la quantificazione delle pretese relative ai due giudizi amministrativi, deducendo l’errato criterio di quantificazione scelto dall’attore per l’illegittima applicazione dello scaglione di valore di Lire 100 miliardi, anzichè quello di valore indeterminato; c) la non proporzionalità della quantificazione dei compensi – calcolati per il massimo di previsione di tariffa – rispetto all’attività prestata; d) la circostanza che l’attore avesse quadruplicato i compensi, per la presunta straordinaria importanza delle cause, con travalicamento del limite del 3% posto in tariffa per le controversie di valore superiore a Lire 5 miliardi. La Fiat Avio s.p.a. contestava alcune voci della parcella dell’avv. A. e quantificava i compensi secondo lo scaglione del valore indeterminabile, verificando il difetto di ogni ulteriore pretesa creditoria rispetto a quanto già corrisposto a titolo di acconto.

Nel corso del giudizio di primo grado la Fiat Avio s.p.a. conferiva all’odierna ricorrente AVIO S.P.A. il ramo d’azienda relativo all’attività aerospaziale, nel quale era ricompreso il presente giudizio e quest’ultima spiegava atto di intervento volontario, facendo proprie le conclusioni rassegnate dalla sua dante causa. Contemporaneamente, la Fiat Avio s.p.a. mutava la propria denominazione in FIAT AVIO PARTECIPAZIONE S.P.A., che, in seguito, veniva incorporata dalla SICIND S.P.A., poi denominata FIAT PARTECIPAZIONI S.P.A. Anche quest’ultima si costituiva chiedendo l’estromissione dal giudizio in quanto priva di interesse al medesimo.

Con sentenza n. 11039/2005, depositata il 16.5.2005, il Tribunale di Roma accoglieva solo parzialmente la domanda dell’avv. A.; condannava in solido le parti convenute al pagamento in favore dell’attore della somma di Euro 847,19, compensando per i 2/3 le spese di lite e ponendo il terzo residuo a carico solidale delle società convenute.

Avverso detta sentenza proponeva appello l’avv. A., dolendosi dell’errata interpretazione del contenuto della missiva dell’8.5.2001; dell’errata quantificazione e liquidazione degli onorari del D.M. n. 585 del 1994, ex artt. 5 e 6 e dell’errata liquidazione dei diritti di procuratore.

Si costituiva la Avio s.p.a., quale successore a titolo particolare nel diritto controverso della Fiat Avio s.p.a. e contestava quanto dedotto da controparte, in quanto infondato in fatto e in diritto, chiedendo il rigetto delle avverse richieste e la conferma della sentenza di primo grado. La Fiat Partecipazioni s.p.a. chiedeva, oltre al rigetto dell’appello, la sua estromissione, già chiesta nel giudizio di primo grado, ma sulla quale richiesta il Tribunale aveva omesso di provvedere.

Con sentenza n. 531/2014, depositata il 28.1.2014, la Corte d’Appello di Roma, in parziale accoglimento dell’appello e in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava le parti appellate in solido al pagamento in favore dell’ A. della somma pari ad Euro 185.924,48, oltre interesse legali dalla domanda al saldo; dichiarava compensate le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio, in ragione del 50% e condannava gli appellati in solido a rifondere all’appellante la restante quota.

Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione Avio s.p.a. e Fiat Partecipazioni s.p.a., sulla base di tre motivi; resiste A.R. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Preliminarmente, va rigettata la eccezione di improcedibilità del ricorso, in quanto la sentenza impugnata sarebbe passata in giudicato nei confronti di Fiat Partecipazioni s.p.a., non avendo questa chiesto l’annullamento sul punto della remissione del debito; sicchè, se il giudicato si è consumato per un litisconsorte necessario, Avio s.p.a. non potrebbe pretendere l’annullamento della stessa sentenza.

1.1. – L’eccezione non è fondata, per il sol fatto che Fiat Partecipazioni s.p.a. è sostanzialmente e formalmente parte ricorrente del presente giudizio di legittimità, a nulla rilevando la omessa menzione della sua partecipazione nella parte dispositiva del ricorso stesso.

2. – Con il primo motivo, le ricorrenti deducono la “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in tema di nullità della sentenza (art. 132 c.p.c., n. 3) a seguito di testuale motivazione apparente, contraddittoria e incomprensibile”. Le ricorrenti rilevano che l’avv. A. aveva firmato, in data 31.5.1999, una scrittura privata con la Fiat Avio s.p.a., avente ad oggetto la liquidazione di parcelle arretrate per consulenza stragiudiziale, in seguito alla risoluzione del contratto di consulenza stragiudiziale a far data dal 31.3.1999. Con tale scrittura la Fiat Avio s.p.a. riconosceva di dover corrispondere all’avv. A., per il periodo compreso tra aprile 1997 e marzo 1999, l’importo di Lire 215.040.000; invece, in merito alla collaborazione in campo giudiziale, anch’essa interrotta, la parcellazione a saldo avrebbe avuto luogo alla rimessione dei fascicoli, appena tecnicamente possibile e la liquidazione delle parcelle già emesse a questo titolo avveniva contestualmente alla scrittura privata. A tale proposito, la Corte di merito ha affermato che la quietanza rilasciata dal professionista con atto del 31.5.1999 era irrilevante poichè la missiva riguardava pacificamente la liquidazione di sei parcelle per un totale di Lire 215.040.100, senza che nella nota si facesse alcun riferimento al compenso di cui all’art. 6 del contratto d’opera professionale. Le ricorrenti ritengono che dalla parte del testo della sentenza impugnata, che attiene alla scrittura privata del 31.5.1999, emerge evidente la manifesta contraddittorietà e la mera apparenza della motivazione, tanto da determinare la nullità della sentenza stessa. Secondo le ricorrenti, la Corte di merito afferma che le parti fossero d’accordo nel considerare la scrittura privata riferita solo ai compensi mensili ancora dovuti al momento della risoluzione del contratto di consulenza, mentre subito prima aveva ritenuto irrilevante l’affermazione dell’appellata che il professionista avrebbe rilasciato quietanza con l’atto del 31.5.1999.

2.1. – Il motivo, prima ancora che non fondato, è inammissibile.

2.2. – Ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorso deve contenere i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata. Se è vero che l’indicazione dei motivi non necessita dell’impiego di formule particolari, essa tuttavia deve essere proposta in modo specifico, vista la sua funzione di determinare e limitare l’oggetto del giudizio della Corte (Cass. n. 10914 del 2015; Cass. n. 3887 del 2014). Ciò richiede che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa (Cass. n. 14784 del 2015; Cass. n. 13377 del 2015; Cass. n. 22607 del 2014). E comporta, tra l’altro, la necessaria esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto (Cass. n. 23804 del 2016; Cass. n. 22254 del 2015). Così, dunque, i motivi di impugnazione che (come nella specie) prospettino una pluralità di questioni sono altrettanto inammissibili in quanto, da un lato, costituiscono una negazione della regola della chiarezza e, dall’altro, richiedono un intervento della Corte volto ad enucleare dalla mescolanza dei motivi le parti concernenti le separate censure (Cass. n. 18021 del 2016).

2.3. – Il presente motivo di ricorso, così come formulato, si connota viceversa per una confusa articolazione di una pluralità di censure eterogenee – riferite tutte congiuntamente ed indistintamente ad asseriti vizi di violazione e/o falsa applicazione di non indicate “norme di diritto” (art. 360 c.p.c., n. 3) “in tema di nullità della sentenza” (art. 132 c.p.c., n. 4) “a seguito di testuale motivazione apparente, contraddittoria e incomprensibile” – in sè prive di una precisa identificazione, necessaria, appunto, per evidenziarne e compiutamente individuarne il preciso contenuto ed analizzarne la rispettiva fondatezza o meno. Esse, viceversa, appaiono contraddistinte dall’evidente scopo comune di contestare le motivazioni poste a sostegno della decisione in parte qua, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018).

Inoltre, con riferimento alla asserita “motivazione apparente, contraddittoria e incomprensibile” della decisione (dedotta peraltro senza specifico riferimento alla violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella nuova formulazione introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis anche al ricorso in esame) va rilevato come la censura non sia sussumibile nella più ristretta latitudine del nuovo paradigma, imperniato sull'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” (Cass. sez. un. n. 8053 e n. 8054 del 2014).

3. – Con il secondo motivo, le ricorrenti lamentano la “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in tema di interpretazione (art. 1362 c.c. e segg.) dell’accordo dell’1.9.1995, in quanto la Corte d’Appello non ha seguito il criterio letterale e sistematico, o, in subordine, quello di buon fede nell’interpretare l’art. 6 di detto accordo, dal quale emergeva che la volontà delle parti era quella di prevedere che, solo nel caso di cessazione anticipata del rapporto, sarebbe stato dovuto l’importo indicato”. Nell’art. 6 del contratto di prestazione d’opera professionale sottoscritto in data 1.9.1995 tra l’avv. A. e la BPD Difesa e Spazio s.p.a. (poi incorporata da Fiat Avio s.p.a.), le parti avevano convenuto che, alla cessazione del rapporto, per qualsiasi motivo compreso il decesso, esclusa la sola ipotesi di grave inadempienza contrattuale dell’avv. A., sarebbe stata corrisposta a quest’ultimo una somma pari all’importo forfetario annuale di Lire 360.000.000. Osservano le ricorrenti che la Corte territoriale ha ritenuto di non condividere l’affermazione dell’appellata secondo cui la clausola di cui all’art. 6 disciplinerebbe solo lo scioglimento anticipato del rapporto. Ma, nella fattispecie, dal contratto in esame non emerge in modo chiaro la comune volontà delle parti, per cui il Giudicante avrebbe dovuto procedere al coordinamento delle varie pattuizioni contenute nel contratto.

3.1. – Il motivo non è fondato.

3.2. – La Corte di merito ha specificamente affermato che “non è condivisibile neppure l’affermazione dell’appellata secondo cui tale clausola (art. 6) disciplinerebbe soltanto lo scioglimento anticipato del rapporto, atteso che, dal tenore letterale della pattuizione emerge la chiara volontà delle parti di considerare come dovuto l’importo per il caso di cessazione del rapporto “a qualsiasi motivo dovuta” (escluso il grave inadempimento) e non quindi per il solo caso di recesso anticipato, disciplinato dal capoverso precedente” (sentenza impugnata, pag. 6).

3.3. – In tema di interpretazione del contratto, l’accertamento, anche in base al significato letterale delle parole, della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio (cfr. Cass. n. 18509 del 2008), si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che tale accertamento è censurabile in sede di legittimità soltanto per vizio di motivazione (Cass. n. 1646 del 2014), nel caso in cui (contrariamente a quanto risulta nella presente fattispecie) la motivazione stessa risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche; con la precisazione che nessuna di tali censure può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante, Cass. n. 26683 del 2006; Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 1754 del 2006). Per sottrarsi al sindacato di legittimità, infatti, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, sì che quando di una clausola contrattuale siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto la interpretazione poi disattesa dal giudice del merito, dolersi in sede di legittimità che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 8909 del 2013; Cass. n. 24539 del 2009; Cass. n. 15604 del 2007; Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 17248 del 2003). Secondo la concorde giurisprudenza di questo giudice di legittimità, qualora deduca la violazione dei citati canoni interpretativi, il ricorrente deve precisare in quale modo il ragionamento del giudice se ne sia discostato, non essendo sufficiente un astratto richiamo ai criteri asseritamente violati e neppure una critica della ricostruzione della volontà dei contraenti che, benchè genericamente riferibile alla violazione denunciata, si riduca, come nella specie, alla mera (benchè energicamente ribadita) prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza impugnata (Cass. sez. un. n. 1914 del 2016; cfr. Cass. n. 3657 del 2016; Cass. n. 25728 del 2013 e, tra le altre, Cass. n. 1754 del 2006).

3.4. – Nella specie, procedendo ad una analitica e coordinata lettura dell’art. 6 del contratto inter partes di prestazione d’opera professionale, la Corte distrettuale ha correttamente e logicamente (e quindi incensurabilmente) individuato la volontà comune, desumibile dall’inequivoco dato letterale della clausola medesima. Come detto, dunque, tali valutazioni si sottraggono al sindacato di legittimità, avendo la Corte territoriale proceduto alla ricostruzione della comune intenzione dei contraenti, nel rispetto delle regole di ermeneutica contrattuale poste dagli artt. 1362 e 1363 c.c., sulla base del tenore letterale e di una lettura della clausola in esame, riferita anche al contenuto generale dell’accordo negoziale da cui la clausola medesima non risulta meramente estrapolata.

4. – Con il terzo motivo, le ricorrenti deducono l'”Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 3), per avere il Giudice d’Appello omesso di esaminare, su questione oggetto di discussione tra le parti, le prove documentali prodotte e specificamente indicate”. La Corte d’Appello ha ritenuto che la rinunzia dell’avv. A. dell’8.5.2001, indirizzata all’avv. Zen e all’avv. Grande Stevens, non abbia sortito alcun effetto estintivo del credito in quanto ricevuta da un soggetto che non rivestiva la carica di responsabile dell’ufficio legale di Fiat Avio: e pertanto la funzione di coordinamento e direzione svolta dalla società controllante sulle società controllate non priva queste della propria autonomia negoziale e non permette di equiparare, ai fini degli effetti giuridici prodotti dalla rinuncia, la controllante alla controllata. La Corte d’Appello non avrebbe considerato la lettera del 19.7.2001 (che faceva seguito a quella dell’8.5.2001), nella quale l’avv. A. precisava che, non avendo ricevuto dall’avv. Zen alcuna comunicazione, intendeva revocare la rinunzia al diritto di ricevere la somma di Lire 360.000.000 da Fiat Avio, procedendo a richiedere il relativo pagamento. Secondo le ricorrenti la lettera sarebbe la prova che l’avv. A. ritenesse efficace la sua precedente rinunzia, in quanto diversamente non avrebbe sentito la necessità di revocare la rinunzia. Se, dunque, l’avv. A. aveva ritenuto di dover revocare la precedente rinunzia tramite comunicazione all’avv. Zen della Fiat, anche se per questione relativa alla controllata Fiat Avio, era perchè sapeva che detta questione era di competenza del proprietario di Fiat Avio, cioè Fiat.

4.1. – Il terzo motivo è inammissibile.

4.2. – La denuncia di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” risulta inammissibile per non rispettare i presupposti di cui alla formulazione del nuovo modello introdotto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

E’ noto come, le Sezioni Unite (n. 8053 e n. 8054 del 2014) hanno precisato che la norma consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa-qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

4.3. – Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, le ricorrenti avrebbero dovuto specificamente indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Orbene, della enucleazione di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde poter procedere all’esame del denunciato parametro, non v’è traccia. Sicchè, alla luce del sopra richiamato consolidato indirizzo giurisprudenziale, riguardante la più angusta latitudine della nuova formulazione rispetto al previgente vizio di “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, le censure mosse in riferimento al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si risolvono, in buona sostanza (come già detto), nella richiesta generale e generica al giudice di legittimità di una (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in parte qua della sentenza impugnata (Cass. n. 1885 del 2018).

In particolare le ricorrenti non indicano l’omesso esame di cui la Corte si sarebbe resa responsabile, atteso che il fatto consistente nella lettera dell’avv. A. del 19.7.2001 di revoca della rinunzia al diritto di ricevere la somma di Lire 360.000.000 inviata l’8.5.2001 – cui le ricorrenti asseriscono il valore decisivo, viene dalle medesime riconosciuto come effettivamente considerato dalla Corte, anche se deciso con loro insoddisfazione. Sicchè, le ricorrenti pretendono inammissibilmente il riesame di un elemento di prova, pur avendo la Corte esplicitamente rilevato l’inidoneità dei destinatari indicati nella missiva dell’8.5.2001, ai fini del perfezionamento del negozio abdicativo e di cui non è più ammesso il sindacato in sede di legittimità.

5. – Il ricorso va, dunque, rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Non sussistono i presupposti per la condanna delle ricorrenti al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. Va emessa la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti alla refusione delle spese di lite al controricorrente, che liquida in complessivi Euro 4.700,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Non sussistono i presupposti per la condanna delle ricorrenti al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, va ordinato il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2018

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