Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29437 del 07/12/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 07/12/2017, (ud. 11/07/2017, dep.07/12/2017),  n. 29437

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Bari, con sentenza del 31/03/2014 a conferma della decisione del Tribunale della stessa sede del 20/09/2010, ha respinto la domanda di B.A. volta a sentir dichiarare l’esistenza di un rapporto di lavoro parasubordinato con l’Istituto dei Tumori Giovanni Paolo II di Bari, e condannare lo stesso alla corresponsione dell’equivalente del trattamento retributivo del personale dirigente medico del presidio barese ovvero del Servizio Sanitario Nazionale, o ancora in alternativa, il compenso tabellare previsto per i biologi, liberi professionisti, dal 1994 al 2000, periodo in cui la ricorrente ha dedotto di aver lavorato ininterrottamente con compiti di direzione, al laboratorio di Citofluorimetria, dell’indennità di fine rapporto di parasubordinazione, oltre che del danno biologico patito per l’illegittima estromissione dal predetto laboratorio con divieto di accedere alla stanza assegnatale e di usare la strumentazione in essa contenuta, nonchè, per le violenze fisiche e le sopraffazioni morali subite all’interno dell’Ospedale, dalle quali l’Ente si era astenuto dal preservarla, violando la responsabilità sancita dall’art. 2087 c.c..

Il danno, così individuato, era quantificato in Euro 500.000.

La Corte d’Appello non ha riconosciuto la natura parasubordinata del rapporto, negando la sussistenza degli elementi che la contraddistinguono, ossia la continuità della prestazione e la coordinazione dell’attività svolta con le funzioni proprie dell’Istituto dei Tumori, ritenendo, sotto tale specifico profilo, come i periodici intervalli “lavorati” tra una scadenza contrattuale e l’instaurazione di un nuovo contratto, lungi dal costituire prestazioni di fatto, fossero ascrivibili a lavoro gratuito prestato volontariamente. Secondo la Corte d’Appello, dunque, la fattispecie de qua, esulante da quella di cui all’art. 409 c.p.c., n. 3 e pienamente corrispondente al tipo lavoro autonomo di cui all’art. 2222 c.c., non sarebbe stata idonea a generare alcuna responsabilità retributivo risarcitoria da parte dell’Ospedale, nè con riguardo al mancato compenso per l’attività svolta negli intervalli tra un contratto e l’altro nè per il danno derivante dalla presunta violazione dell’obbligazione datoriale di garantire l’incolumità e la sicurezza dei dipendenti sul luogo di lavoro.

Ricorre avverso tale sentenza B.A., con tre censure illustrate da articolata memoria, cui resiste con tempestivo controricorso l’Istituto Tumori Giovanni Paolo II di Bari.

Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con la prima censura la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2222,2230,1350 e 2233 c.c., in quanto, la sentenza, pur non escludendo presuntivamente un abuso nell’utilizzo dei contratti di ricerca e delle borse di studio di volta in volta conferite dall’Ospedale, ha disconosciuto la sussistenza di un rapporto di lavoro parasubordinato, concludendo per la gratuità delle prestazioni erogate durante gli intervalli tra un contratto e l’altro, in base al solo difetto di prova della loro onerosità, e giustificandone le stesse sul piano della volontarietà.

La prima censura è infondata.

La controversia si appunta sulla qualificazione contrattuale delle prestazioni svolte dalla ricorrente per il periodo ricompreso tra il 1994 e il 2000.

Posto che non è stata dedotta la natura subordinata del rapporto, per tabulas esclusa dalle stesse borse di studio e dai contratti conferiti, sempre nell’ambito di progetti determinati, che contenevano l’espressa e sintomatica avvertenza che non avrebbero dato origine a rapporti di lavoro, la censura invita a stabilire se le prestazioni rese dalla ricorrente all’Istituto Tumori avessero i caratteri della parasubordinazione, così come configurati dalle scarne norme ma dai numerosi arresti giurisprudenziali che ne hanno chiarito l’essenza.

Sul punto specifico la sentenza gravata svolge un’accurata disamina dell’ istruttoria, basata su un ampio corredo testimoniale, dalla quale effettivamente

la prestazione d’opera risulta autonoma, temporanea, flessibile, variabile, la cui singola (ri)attivazione è indissolubilmente connessa alle fonti pubbliche di finanziamento, il che conferisce alla stessa quel tratto strutturale di mera eventualità, che fa sì che a una buona parte degli addetti alla ricerca si attagli la categoria metagiuridica della “precarietà”, con l’esito, nei casi in cui il rapporto precario non riesca a tradursi in un percorso professionale strutturato, che esso resta governato dalla mera successione di contratti d’opera a contenuto formativo.

Ne consegue che, anche qualora dovesse concretizzare una prestazione di durata, l’avvicendarsi di plurimi rapporti finanziati attraverso borse di studio e di contratti di ricerca, non si tradurrebbe in quel tipo di continuità che connota la parasubordinazione, perchè mancherebbe il nesso tra i comportamenti tenuti e i risultati conseguiti, sussistendo soltanto un mero legame tra le diverse operae o servizi oggetto dei singoli contratti, legame che nel caso specifico la Corte ha, tra l’altro, accertato come totalmente assente, data l’eterogeneità dei progetti di ricerca ai quali la ricorrente è stata di volta in volta assegnata.

Manca, del resto, nel nostro ordinamento, una disciplina del lavoro autonomo continuativo, che consideri deducibile in obbligazione non già il risultato della prestazione, ma il lavoro in sè e per sè, e, pertanto, deve ritenersi inapplicabile anche per analogia nel contratto di prestazione d’opera, qualunque meccanismo di garanzia in favore del prestatore, assimilabile a uno di quelli variamente previsti per il caso di violazione di norme imperative derivante da un accertato abuso del contratto (conversione, riconoscimento a titolo retributivo delle prestazioni di fatto, etc…).

Quanto alla disapplicazione del principio costituzionale di cui all’art. 36 Cost. al caso in esame, si rammenta come costituisca orientamento consolidato di questa Corte, che i canoni costituzionali di sufficienza e proporzionalità della retribuzione trovino applicazione nei confronti del solo rapporto di lavoro subordinato, tant’è che essi non possono essere presi a parametro neanche quando le prestazioni d’opera siano conferite all’interno di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa. La prestazione di lavoro autonomo tout court rimane, infatti, completamente insensibile ai predetti canoni costituzionali, di tal che, ogni eventuale rivendicazione in materia retributiva avrebbe potuto prospettarsi, da parte ricorrente, solo quale violazione dell’art. 2225 c.c., secondo cui “Il corrispettivo, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe professionali o gli usi, è stabilito dal giudice in relazione al risultato ottenuto e al lavoro normalmente necessario per ottenerlo”.

Altro aspetto contenuto nella censura è la natura contrattuale delle prestazioni rese negli intervalli tra una borsa e/o un contratto e l’altra/o, durante i quali la ricorrente, secondo la Corte territoriale, avrebbe seguitato a prestare volontariamente la propria attività presso l’Istituto controricorrente.

La Corte territoriale ne ha tuttavia affermato l’irrilevanza, ai fini dell’accertamento del requisito del coordinamento dell’attività con le finalità del committente, presupposto qualificante della parasubordinazione. Esso comporta, pur sempre, l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale e un certo grado d’ingerenza del committente nelle modalità, anche spazio-temporali, di esecuzione della prestazione, e, tuttavia, nel caso in esame anche questa limitata riedizione del potere direttivo, che trova origine nella coordinazione della prestazione parasubordinata, risulta esclusa.

Una volta negato, dal Giudice del merito, che durante gli intervalli tra un contratto e l’altro avesse trovato attuazione qual si voglia espressione del potere direttivo, l’indiscussa presenza della ricorrente, a titolo meramente volontario, all’interno della struttura, (ed anche considerando l’uso di cartellini marcatempo o la vidimazione di fogli di presenza) è attribuita al fatto che le attività di ricerca non possono svolgersi se non là dove la stessa ha luogo.

A tal fine, la sentenza con motivazione completa e in questa sede insindacabile, ha ritenuto che all’attività disimpegnata dai borsisti/contrattisti nei periodi d’intervallo, in assenza di un fondamento negoziale, non può attribuirsi altra valenza o implicazione se non quella di mantenere “rapporti di fatto per contatto sociale”, che si concretano nell’accettazione di periodi “liberi” nei quali coltivare l’aspirazione a fruire di un futuro finanziamento nelle forme ammesse. La rilevanza di questi periodi ai soli fini indicati è dimostrata dal fatto che, per frequentare le strutture, quando il rapporto non sia assistito da una fonte negoziale autonoma, è necessaria un’autorizzazione da parte dei responsabili dell’Istituto, che elimini l’ostacolo dell’assenza di legittimazione contrattuale dell’aspirante alla ricerca, rendendo possibile la prosecuzione della formazione sotto la diretta responsabilità del titolare del progetto. In talune realtà, com’è accertato dall’arresto di questa Corte n. 22537/2014, la figura del medico frequentatore è addirittura istituzionalizzata e regolata, e a essa si attribuisce valenza formativa.

In definitiva, il tentativo, contenuto nella prima censura, di ergere la fattispecie tipica del contratto d’opera a modello imperativo, si dimostra errato in diritto e indimostrato in fatto e inidoneo a sovvertire l’iter logico argomentativo seguito dalla Corte d’Appello barese.

2. La seconda censura è formulata con riferimento all’omesso esame in merito a una serie di fatti decisivi per il giudizio, pur nell’accezione più rigorosa introdotta dalla L. n. 134 del 2012, di conversione del D.L. n. 83 del 2012 (art. 54, comma 1, lett. b), fatti che, qualora scrutinati, avrebbero dovuto condurre la Corte a rilevare l’esistenza dei presupposti di continuità e coordinamento rispetto all’organizzazione e alla funzione istituzionale dell’ente (es. vidimazione di fogli di presenza, cartellino marcatempo anche durante gli intervalli tra un contratto e l’altro) per affermare la sussistenza della parasubordinazione.

La censura è inammissibile.

Sebbene parte ricorrente, anche nell’articolata memoria difensiva, si dichiari consapevole della limitazione del sindacato sulla motivazione in capo al giudice di legittimità per l’intervenuta riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5, nondimeno non si astiene dal prospettare, in sostanza, una ricostruzione diversa delle modalità di svolgimento dei rapporti, una diversa lettura delle deposizioni testimoniali e delle risultanze probatorie, alla valutazione delle quali da parte del Giudice del merito contrappone una sua propria valutazione.

Ma in tale ottica, la censura mossa all’impugnata sentenza si risolve sostanzialmente in una richiesta di riesame del merito della causa, e cioè, di un’inammissibile richiesta di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice del merito, e perciò diretta ad ottenere una nuova pronuncia sul quadro probatorio, estranea alla natura e alla finalità del giudizio di Cassazione: e la pretesa di veder rilevare come omesso esame di “fatti” (sopravvissuto alla riforma del 2012) la omessa attenzione per questo o quell’elemento istruttorio è stata esclusa recisamente dalla nota pronunzia a S.U. di questa Corte, che ha negato che sia ancora sindacabile la completezza delle valutazioni istruttorie del giudice del merito (v. Sez. Un. n. 8053/2014).

Va pertanto ribadito che non è più consentito alla Corte di Cassazione di riesaminare e valutare sotto il profilo logico-formale e della completezza argomentativa, l’esame e la valutazione dei fatti operate dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, purchè di tali operazioni fornisca motivazione comprensibile e non perplessa.

Nella fattispecie in esame la sentenza impugnata, valutando nel complesso il materiale probatorio acquisito e in particolare le dichiarazioni rese dai testi, ha dato ampiamente conto della decisione adottata, con una motivazione chiara e non equivoca, pervenendo alla conclusione che gli elementi acquisiti non consentissero di ritenere che l’attività svolta dalla ricorrente presso l’Ospedale resistente, ivi compresa quella prestata negli intervalli tra un contratto e l’altro potesse assumere i connotati di una prestazione di lavoro parasubordinato, e che, come tale dovesse essere retribuita.

3. Nella terza censura parte ricorrente contesta la violazione degli artt. 342 e 434 c.p.c. e la violazione dell’art. 2087 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 3, nella parte in cui la Corte d’Appello ha ritenuto non debitamente censurate dall’appellante le statuizioni di primo grado, con riguardo al rigetto della domanda di risarcimento per danno biologico causato dall’aggressione subita da parte di un collega, e ha dichiarato non riconducibile alla fattispecie del lavoro autonomo la responsabilità contrattuale di cui all’art. 2087 c.c..

La terza censura è infondata.

Devesi in premessa rilevare la carenza di autosufficienza del motivo afferente la scorretta applicazione della sanzione di aspecificità del gravame là dove non correla con piena autosufficienza le statuizioni della prima sentenza alle doglianze in appello (esse si riportate nelle pagine 37 e 38 del ricorso), contravvenendo al canone di completezza imposto dal regime pregresso ed applicabile anche nel quadro della novella citata in ricorso (cfr. del resto Cass. 2143 del 2015).

Ma resta assorbente il rilievo per il quale resta comunque immune da censure la seconda ratio della sentenza impugnata sul punto che occupa (v. ultimo cpv., penultima pagina: “Peraltro, il percorso…”), quella, cioè, riguardante la questione posta in via generale dal ricorrente dell’ambito della garanzia delle condizioni di sicurezza dell’ambiente di lavoro a carico del datore: con riguardo ad essa deve confermarsi ciò che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato, che cioè l’art. 2087 c.c., riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro subordinato, presupponendo ai fini dell’insorgenza del predetto obbligo l’inserimento del lavoratore nell’impresa del soggetto destinatario della prestazione (ex plurimis, Cass. n. 24538/2015).

Una visione unitaria della tutela costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.) ha determinato l’estensione dell’obbligo di sicurezza in capo al datore, nel caso del lavoro parasubordinato, qualora per il suo espletamento sia richiesto l’inserimento del prestatore nell’organizzazione dell’impresa, e l’espresso riconoscimento da parte del legislatore del correlato diritto in capo al lavoratore a progetto (D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 66, comma 4).

Appare, dunque, evidente, come, al di fuori delle ipotesi sopra menzionate, in cui la fattispecie non è ascrivibile allo schema tipico della subordinazione, non si ravvisi alcuno spiraglio interpretativo atto a far sostenere che l’ordinamento conceda spazio all’estensione della tutela ex art. 2087 c.c., nei confronti del titolare di finanziamento alla ricerca, svolta senza alcun obbligo di coordinazione con l’organizzazione e con le funzioni del committente, nè tanto meno nei confronti del medico “frequentatore” dell’Istituto, autorizzato dal responsabile di laboratorio a proseguire l’attività negli intervalli tra un contratto e l’altro, a scopo di autoformazione e anche al fine di preservare il “contatto sociale” con l’Ente, in attesa di accesso a una nuova fonte pubblica o privata di finanziamento.

Non potendosi, pertanto, riscontrare una responsabilità per violazione dell’obbligo di sicurezza in capo all’Istituto committente, derivante dall’utilizzazione dell’attività del ricorrente, all’interno della struttura, per i fini istituzionali dello stesso, deve ritenersi che di detta responsabilità vada fatto carico esclusivamente all’autore dell’illecito.

Pertanto, essendo la prima e la terza censura infondate e la seconda inammissibile, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento nei confronti del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3500 per compensi professionali, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater, dà atto della sussistenza dei presupposti, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2017

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