Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29433 del 21/10/2021

Cassazione civile sez. I, 21/10/2021, (ud. 14/04/2021, dep. 21/10/2021), n.29433

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6399/2016 proposto da:

O.M.G., elettivamente domiciliata in Roma, Via Nizza n.

59, presso lo studio dell’avvocato Di Amato Astolfo, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Di Amato Alessio,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

T.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via del

Pozzetto n. 122, presso lo studio dell’avvocato Carbone Paolo, che

lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

contro

Esperia S.r.l.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3489/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 24/08/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/04/2021 dal cons. Dott. DI MARZIO MAURO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – O.M.G. ricorre per due mezzi, nei confronti di T.A., contro la sentenza del 24 agosto 2015 con quella Corte d’appello di Napoli ha respinto la sua impugnazione per nullità di un lodo arbitrale rituale reso tra le parti, che aveva pronunciato nei suoi confronti, su domanda del T., condanna al risarcimento dei danni, in favore di Esperia S.r.l., di cui essa O. era amministratore unico, in forza dell’art. 2476 c.c., delle complessive somme di Euro 632.021,74 e di Euro 141.182,17, danni parametrati al valore locativo di immobili appartenenti alla società, dichiarando cessata la materia del contendere in relazione alla domanda di revoca dell’amministratore unico e regolando le spese di lite e di arbitrato.

2. – T.A. resiste con controricorso, con cui formula anzitutto eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività.

Sono state depositate memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. – Il ricorso contiene due motivi.

3.1. – Il primo mezzo denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 822 c.p.c. e art. 829 c.p.c., n. 4, censurando la sentenza impugnata per aver negato che l’arbitro unico avesse deciso la controversia applicando lo stretto diritto, quantunque la clausola compromissoria stabilisse invece che egli avrebbe dovuto giudicare secondo equità.

3.2. – Il secondo mezzo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 101,102 c.p.c., art. 829 c.p.c., n. 9 e art. 829 c.p.c., comma 2, censurando sotto diversi aspetti la sentenza impugnata in relazione alla circostanza che il giudizio arbitrale non si fosse svolto nei confronti di Esperia s.r.l..

4. – Il T. ha formulato, e ribadito in memoria, eccezione di inammissibilità del ricorso, assumendone la tardività, sul rilievo che la sentenza impugnata era stata depositata il 24 agosto 2015 e non notificata, mentre il ricorso per cassazione era stato notificato il 1 marzo 2016, sebbene il termine ultimo per l’impugnazione scadesse il precedente 29 febbraio.

Quale ragionamento abbia indotto il controricorrente a siffatta conclusione il controricorso, tuttavia, non si perita di esporre: ma è certo che il calcolo è frutto di un manifesto errore.

La L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 1 stabilisce, nel testo applicabile, che: “Il decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative è sospeso di diritto dal 1 al 31 agosto di ciascun anno, e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. Ove il decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo”. Ed infatti, questa Corte ha chiarito che l’abbreviazione della sospensione feriale da 46 a 31 giorni trova applicazione dall’anno 2015 (Cass. 9 aprile 2018, n. 8623; Cass. 6 settembre 2017, n. 20866; Cass. 11 maggio 2017, n. 11758; Cass. 5 dicembre 2016, n. 24867), dunque si applica nel caso in esame.

Ciò detto, basterà trascrivere, su una così arata questione, la motivazione già svolta in relazione ad un caso sostanzialmente identico: “Il problema del decorso del termine processuale, il cui inizio si verifichi in periodo di sospensione, è già stato affrontato in numerose occasioni anche dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. un., 4/07/1983 n. 4814; Cass., sez. un., 28/03/1995, n. 3668; Cass., sez. un., 5/10/2009, n. 21197) le quali hanno nel tempo sempre confermato l’interpretazione secondo cui, quando un termine decorre da un atto verificatosi nel periodo di sospensione feriale ex L. 7 ottobre 1969, n. 742, il primo giorno successivo alla cessazione della sospensione, una volta rappresentato dal 16 settembre, ora dal 1 settembre in forza del D.L. n. 132 del 2014, art. 1, conv. in L. n. 162 del 2014, rientra nel computo. Questo indirizzo è stato seguito anche da successive sentenze di questa Corte che hanno affermato il seguente principio di diritto: “In tema di sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, la disp. della L. n. 742 del 1969, art. 1, per la quale, se il decorso del termine ha inizio durante il periodo di sospensione, esso è differito alla fine di detto periodo, va intesa nel senso che il primo giorno utile successivo alla sospensione feriale va computato nel novero dei giorni concessi dal termine, di cui tale giorno non costituisce l’inizio del decorso ma la semplice prosecuzione, a nulla rilevando che si tratti di giorno festivo” (Sez. 1, Sent. n. 7112 del 2017, Sez. 5, Sent. n. 19874 del 2012). Si è ritenuto, infatti, che sarebbe contrario alla ratio dell’art. 155 c.p.c., lasciare fuori dal computo un giorno intero (il 1 settembre) in cui l’atto di riferimento non si è verificato, giorno che si aggiungerebbe illogicamente a quelli interi del termine, allungandolo senza alcuna ragionevole giustificazione. La funzione del principio dies a quo non computatur in termino, infatti, attiene all’esigenza di dare rilievo (quando il termine è a giorni), a giorni interi, trascurando le frazioni di giorno relative al momento in cui si sia verificato l’atto che costituisce il punto di riferimento del termine, nonché l’effetto giuridico di quell’atto. A tal proposito, infatti, costituisce principio del tutto consolidato quello secondo il quale in tema di impugnazioni la disciplina generale dell’art. 155 c.p.c., prevede che il decorso del termine ha inizio il giorno successivo a quello della notifica o del deposito della sentenza. Il giorno che non viene computato nel termine, secondo il principio dell’art. 155 c.p.c., è il giorno (con riferimento specifico alle impugnazioni) in cui si è verificato l’atto. Nel caso in cui quell’atto si – realizzi nel periodo feriale, esso rimane pienamente valido ed efficace nella sua interezza, sicché il differimento coinvolge soltanto il decorso del termine che in quell’atto abbia il punto temporale di riferimento. Non vi è preclusione, in definitiva, a che il dies a quo, da non computare nel termine, sia individuabile nello stesso giorno in cui l’atto abbia manifestato i suoi effetti e rimanga detta individuazione ancorché l’atto stesso sia caduto in periodo feriale. Su tale base non potrebbe trovare adeguata spiegazione il diverso trattamento dei termini il cui decorso abbia inizio prima del 1 agosto, rispetto a quelli il cui inizio si verifichi nel periodo feriale. In quest’ultimo caso, infatti, si aggiungerebbe un ulteriore giorno a quelli (31) del periodo feriale normale, senza alcuna logica spiegazione. In virtù delle considerazioni esposte, si ritiene di dovere dare continuità all’orientamento giurisprudenziale espresso da questa Corte a Sezioni Unite con le pronunce sopra citate, dovendosi, quindi, nel caso di specie, computare nel termine di cui all’art. 327 c.p.c., anche il giorno 1 settembre 2018. La particolarità del caso in scrutinio, rispetto a quelli esaminati dalle sentenze sopra richiamate, è costituita dalla circostanza che, nella specie, deve applicarsi della L. n. 742 del 1969, art. 1, comma 1, u.p., essendo stata la sentenza impugnata pubblicata il 2 agosto 2018, come già evidenziato, e che il computo del termine di decadenza dall’impugnazione ex art. 327 c.p.c., va operato ai sensi dell’art. 155 c.p.c., comma 2, non ex numero (o ex numero ed ex nominatione dierum, come solitamente avveniva quando la sospensione feriale era pari a 46 giorni, Cass., 9/07/2012, n. 11491) ma solo ex numeratione dierum, sicché, indipendentemente dall’effettivo numero dei giorni compresi nel periodo, il termine scade allo spirare della mezzanotte del giorno del mese corrispondente a quello in cui il termine ha cominciato a decorrere (Cass., ord., 30/05/2018 n. 13546; Cass. 31/08/2015, n. 17313). A tanto deve aggiungersi che le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 21197 del 5 ottobre 2009, hanno affermato che il termine per la proposizione dell’impugnazione – e, quindi, anche del ricorso per cassazione – stabilito a pena di decadenza dall’art. 327 c.p.c., si computa, in considerazione della sospensione dei termini processuali prevista dalla L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 1, – nella sua previgente formulazione -, senza tener conto dei giorni compresi tra il 1 agosto ed il 15 settembre dell’anno della pubblicazione della sentenza impugnata, a meno che la data di deposito non cada durante lo stesso periodo feriale, nel qual caso, in base al principio secondo cui dies a quo non computatur in termino, esso decorre dal 16 settembre. L’orientamento qui riferito è perfettamente consonante con la previsione – già sopra ricordata – del secondo inciso della L. n. 742 del 1969, art. 1, comma 1. Infatti, là dove esso dice che l’inizio del decorso del termine che avrebbe inizio nel periodo della sospensione “e’ differito alla fine di detto periodo”, implica la volontà del legislatore di collocare il momento iniziale del termine – nella vigenza dell’attuale disciplina del periodo – quando il periodo feriale è terminato e, poiché esso termina attualmente il 31 agosto ed il differimento deve collocarsi necessariamente dopo tale fine, l’inizio del decorso del temine differito si situa al 1 settembre. Tale giorno è utile per il decorso del termine e, poiché l’art. 155 c.p.c., comma 2, quando prevede che il computo del termine a mesi, qual è quello di cui all’art. 327 c.p.c., si fa osservando il calendario comune – e tale disposto significa che occorre fare riferimento al giorno corrispondente dei mese (ex nominatione) di scadenza del termine indicato a mesi – ne consegue che i sei mesi dal 1 settembre si debbono ritenere scaduti nel giorno corrispondente di scadenza de semestre, che non può che essere il 1 marzo dell’anno successivo.

Se si facesse riferimento al 28 febbraio, si finirebbe per situare l’inizio del decorso del termine come differito al 31 agosto, ma tale giorno non si colloca oltre la fine del periodo feriale, ma ne costituisce l’ultimo giorno. Si aggiunga – lo si rileva per completezza – che il giorno 1 settembre deve considerarsi utile, dato che per il termine a mesi non opera l’art. 155 c.p.c., comma 1: quindi, il termine semestrale dal 1 settembre non potrebbe dirsi scaduto il 2 marzo, come accadrebbe se operasse l’art. 155 c.p.c., comma 1. Pertanto, conclusivamente, il termine in parola, nel caso all’esame, iniziato a decorrere il 1 settembre 2018, è venuto a scadere il 1 marzo 2019, proprio in virtù del calcolo da operarsi nei sensi predetti” (Cass. 8 luglio 2020, n. 14147).

Scadenza, dunque, il 1 marzo, e non l’ultimo giorno di febbraio.

5. – Il ricorso è senz’altro fondato.

5.1. – Il primo motivo va accolto.

Lo statuto di Esperia S.r.l. reca all’art. 32 una clausola compromissoria la quale contempla la devoluzione di un’ampia categoria di controversie, ivi compresa, pacificamente, quella in atto, ad un arbitro unico il quale “giudicherà secondo equità e senza formalità e il suo giudizio sarà inappellabile”.

Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che: “Gli arbitri, autorizzati a pronunciare secondo equità ai sensi dell’art. 822 c.p.c., ben possono decidere secondo diritto allorché essi ritengano che diritto ed equità coincidano, senza che sia per essi necessario affermare e spiegare tale coincidenza, che, potendosi considerare presente in via generale, può desumersi anche implicitamente. L’esistenza di un vizio riconducibile alla violazione dei limiti del compromesso nell’arbitrato rituale può configurarsi quando gli arbitri neghino a priori l’esercizio di poteri equitativi, pur se conferiti, o se, pur riscontrando ed evidenziando una difformità tra il giudizio di equità e quello di diritto, pronuncino poi secondo diritto” (Cass. 13 marzo 1998, n. 2741; Cass. 7 maggio 2003, n. 6933; Cass. 11 giugno 2004, n. 11089).

Tanto premesso, la tesi della O., nel caso in esame spiegata dinanzi all’arbitro unico, muove dall’assunto che Esperia S.r.l. era una società costituita su base strettamente familiare, destinata a gestire il patrimonio immobiliare della famiglia, con la precisazione che “gli immobili in (OMISSIS) sono sempre stati destinati ad abitazione dei soci dell’Esperia S.r.l. ed i canoni di locazione e il pagamento degli oneri condominiali, compreso quello al socio T.A., sono stati concordati tenendo conto dell’utilizzo familiare della struttura che rende impossibile la locazione a terzi estranei”.

Posta la premessa, si sostiene che l’arbitro unico “pur riscontrando ed evidenziando una difformità tra il giudizio di equità e quello di diritto”, in conformità all’ipotesi considerata nella massima poc’anzi trascritta, avrebbe poi deciso secondo diritto, incorrendo perciò in violazione dei limiti del compromesso.

Ed in effetti, l’arbitro unico ha affermato, nel lodo impugnato per nullità, che “la compagine familiare dell’Esperia e l’avere questa sempre concesso in uso gli immobili solo ai soci (tra i quali, in passato, anche l’istante) ovvero a soggetti agli stessi direttamente riferibili, induce il Giudicante, come si dirà in seguito, a decidere la controversia non già in base allo stretto diritto, ma facendo un’opportuna valutazione dell’equità”. E dunque palese che l’arbitro unico si è programmaticamente rappresentato l’esigenza di decidere, in ragione della natura sostanzialmente familiare della controversia, non già secondo diritto, ma secondo equità, tenendo in considerazione la circostanza dell’intervenuta concessione in uso degli immobili a membri della famiglia, tra i quali lo stesso T.:

nel che è indubbiamente insito il riconoscimento di uno iato tra il diritto e l’equità.

Ma, dopo tale dichiarazione di intenti, l’arbitro unico ha totalmente pretermesso tanto di applicare una regola di giudizio che non coincidesse puramente e semplicemente con la disciplina normativa, quanto di esplicitare in modo comprensibile il perché detta disciplina fosse nel caso di specie fungibile rispetto al giudizio di equità.

Ed invero, questa Corte ha sì affermato che in linea di principio, come si è visto in precedenza, l’arbitro non è tenuto ad “affermare e spiegare tale coincidenza”: ma simile spiegazione non può mancare laddove sia lo stesso arbitro a riconoscere espressamente che, nel caso considerato, l’equità non coincide col puro diritto, in ragione di specifiche enunciate circostanze, le quali, una volta illustrate, risultino poi essere state però incomprensibilmente ignorate.

Nel caso in esame, dopo aver manifestato il proposito di decidere secondo equità e non secondo diritto, l’arbitro unico ha invece richiamato le risultanze della consulenza tecnica disposta, volta a determinare il valore locativo degli immobili in una sua pretesa oggettività, e cioè omettendo di offrire una qualche comprensibile ragione della statuizione che ha parametrato il pregiudizio subito dalla società alla stregua di un criterio, certo, normativamente corretto, e tuttavia tale da non attagliarsi al criterio equitativo, in premessa non coincidente con quello normativo.

Va da sé che la Corte territoriale è incorsa in un evidente errore di giudizio, laddove si è arrestata alla superficiale constatazione che l’arbitro aveva dichiarato di voler decidere la controversia “alla luce dei su esposti principi, che il giudicante ritiene altresì conformi ad equità”, senza avvedersi che lo stesso arbitro aveva già riscontrato, poco prima, una difformità tra equità e diritto, a fronte della quale l’affermazione virgolettata altro non era che un mero espediente volto a sostituire il criterio di giudizio convenzionalmente prescelto con quello normativamente stabilito.

5.2. – Anche il secondo motivo è fondato.

La stessa Corte d’appello si è avveduta, a pagina 6 della sentenza impugnata, che Esperia S.r.l. “era una parte necessaria del procedimento arbitrale”, ma, recependo le difese del T., ha ritenuto che la mancata partecipazione della società al giudizio arbitrale non potesse essere fatta valere dalla O. come motivo di nullità del lodo “ostandovi quanto disposto dall’art. 829 c.p.c., comma 2, per il quale la parte che ha dato causa di un motivo di nullità del lodo o vi ha rinunziato non può per lo stesso motivo impugnare il lodo”.

Ora, il ragionamento della Corte territoriale è nella sua prima parte corretto, in applicazione del principio secondo cui: “In tema di azione individuale del socio di s.r.l., avente per oggetto l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori, sussiste litisconsorzio necessario con la società medesima in quanto l’autonoma iniziativa del socio, riconosciuta dall’art. 2476 c.c., comma 3, senza vincolo di connessione con la quota di capitale dallo stesso posseduta, non toglie che si tratta pur sempre di un’azione sociale di responsabilità, rifluendo l’eventuale condanna dell’amministratore unicamente nel patrimonio sociale e potendo solo la società (non il socio) rinunciare all’azione e transigerla” (Cass. 4 luglio 2018, n. 17493).

La seconda parte del ragionamento, viceversa, non coglie affatto nel segno.

Il senso del precetto dettato dall’art. 829 c.p.c., comma 2 è agevolmente comprensibile: esso può essere ricostruito, come del resto si osserva in dottrina, come un meccanismo di sanatoria destinata a salvaguardare il lodo ed a limitare l’area di intervento del giudice statale su di esso. Ma si può sanare ciò che è sanabile, non ciò che non lo e’, né può pensarsi che l’ordinamento imponga una regola che precluda di far valere un vizio, quale il difetto di integrità del contraddittorio, che per definizione rende la pronuncia inutiliter data. Basterà del resto osservare che, in linea di principio, il difetto di integrità del contraddittorio può essere fatto valere finanche nel giudizio di legittimità, quantunque a condizione che emerga ex actis (Cass. 28 febbraio 2012, n. 3024; Cass. 16 ottobre 2008, n. 25305), tanto più che l’omessa notifica dell’impugnazione ad un litisconsorte necessario impone al giudice, al fine di evitare una nullità rilevabile anche d’ufficio nei successivi gradi del processo, di disporre l’integrazione del contraddittorio, anche laddove il litisconsorte necessario pretermesso non sia stato neppure indicato nell’atto di impugnazione (Cass. 21 marzo 2019, n. 8065). E dunque, pur nella vigenza del precedente testo dell’art. 829 c.p.c., questa Corte ha già avuto modo di affermare che, con riferimento alle impugnazioni per nullità del lodo arbitrale, il difetto di integrità del contraddittorio per omessa citazione di un litisconsorte necessario può essere sollevata per la prima volta anche nel giudizio di legittimità con conseguente rimessione della causa ad altro giudice per l’integrazione del contraddittorio e per il giudizio di merito (Cass. 25 agosto 2003, n. 12462).

Sicché, pur senza voler prendere posizione, in generale, sulla discussa questione dell’individuazione della gamma dei motivi di nullità del lodo che non si prestano a rimanere assorbiti dal congegno di sanatoria previsto dall’art. 829 c.p.c., comma 2 non dubita il Collegio che esso non possa operare con riguardo all’ipotesi del difetto di integrità del contraddittorio, ove si versi in ipotesi di litisconsorzio necessario, non rilevata dal arbitro né eccepita dalle parti, ma fatta valere in sede di impugnazione per nullità, ai sensi dell’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 9.

Il giudizio di impugnazione per nullità del lodo arbitrale non costituisce un comune appello rispetto alla pronunzia degli arbitri, pur avendone in parte i caratteri, in quanto è limitato allo accertamento, positivo o negativo, dei vizi di nullità previsti dall’art. 829 c.c., con la conseguenza, disposta dal successivo art. 830, che, se il giudice dell’impugnazione dichiara la detta nullità, deve pronunciare sul merito. Laddove, se tale nullità (nella specie, per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario) è rilevata invece, nella successiva sede di legittimità, la Corte deve rimettere la causa ad altro giudice (per l’integrazione del contraddittorio e) per il giudizio di merito e non già al medesimo collegio arbitrale, ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma 3, (Cass. 29 luglio 1986, n. 4847).

6. – La sentenza impugnata è cassata e rinviata alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione, che si atterrà a quanto dianzi indicato e provvederà anche sulle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 14 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2021

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