Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29431 del 13/11/2019

Cassazione civile sez. VI, 13/11/2019, (ud. 08/07/2019, dep. 13/11/2019), n.29431

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26655-2017 proposto da:

B.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ORAZIO 31,

presso lo studio dell’avvocato MATTEI GIUSEPPE, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIRIBALDI GIACOMO ROSARIO;

– ricorrente –

contro

ITALFONDIARIO SPA nella qualità di Procuratrice della CASSA DI

RISPARMIO DI FIRENZE SPA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA RAFFAELE CAVERNI 16,

presso lo studio dell’avvocato GIANSANTE ROBERTO, rappresentata e

difesa dall’avvocato FLORIO CARLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1546/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 05/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 08/07/2019 dal Consigliere Relatore Dott. FALABELLA

MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con sentenza del 5 luglio 2017 la Corte di appello di Firenze accoglieva parzialmente il gravame proposto da B.L. avverso la sentenza di primo grado con cui, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, la Cassa di Risparmio di Firenze s.p.a. era stata riconosciuta creditrice, nei confronti della predetta B., per Euro. 29.992,47.

La Corte di merito ha osservato, per quanto qui rileva, che la legittimità della clausola anatocistica dipendeva dalla periodicità del calcolo degli interessi debitori e creditori, e non imponeva affatto che la misura degli interessi passivi e attivi fosse la stessa; ha poi osservato che la prescrizione relativa alla ripetizione dell’indebito dovesse decorrere dal momento in cui era stata attuata la singola rimessa solutoria, e non da quello di chiusura del conto (sicchè doveva apprezzarsi se il pagamento fosse stato posto in essere nei dieci anni anteriori alla notifica della citazione introduttiva del giudizio, con cui era stata interrotta la prescrizione); da ultimo, ha rilevato che la comunicazione di messa in mora, recapitata all’indirizzo presso cui la ricorrente doveva essere presente, era stata restituita per compiuta giacenza e che la segnalazione a sofferenza di B.L. risultava essere legittima, essendo stato superato il limite dell’affidamento e non risultando possibile escludere, sulla base degli atti processuali, che la posizione dell’appellante destasse elementi di allarme.

2. – La pronuncia è impugnata per cassazione da B.L., che fa valere quattro motivi di ricorso illustrati da memoria. Italfondiario s.p.a., nella qualità di procuratrice della Cassa di Risparmio di Firenze s.p.a., resiste con controricorso.

Il Collegio ha autorizzato la redazione della presente ordinanza in forma semplificata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Col primo motivo è lamentata la violazione o falsa applicazione degli artt. 1283, e 1418 c.c.. Assume la ricorrente che,

contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, gravame

contro la sentenza di primo grado, con riguardo al tema dell’anatocismo, non era fondato sul solo dato della diversa misura degli interessi, creditori e debitori, oggetto della capitalizzazione.

Il motivo è inammissibile.

Non è ben chiaro di cosa si dolga la ricorrente, visto che il contratto, secondo quanto affermato nel corpo del motivo (pag. 7), prevedeva la “pari periodicità nella capitalizzazione degli interessi”, secondo quanto prescritto dalla Delib. CICR 9 febbraio 2000, art. 2, comma 2. L’assunto dell’istante, ribadito a pag. 6 del ricorse, per cui i tassi degli interessi debitori e creditori sarebbero stati non coincidenti (evenienza del tutto naturale in un contratto di conto corrente bancario, è appena il caso di aggiungere) risulta essere privo di rilievo alla luce della richiamata disciplina, la quale àncora la legittimità della clausola anatocistica alla previsione della “stessa periodidtù nel contee lo degli interessi creditori e debitori” (oltre che alle ulteriori condizioni poste dalla Delib. CICR, art. 6, che qui, però non vengono in questione). Si osserva, del resto, che la Corte di appello ha rilevato che il profilo della reciprocità era coperto da giudicato: ebbene, l’odierna istante non ha censurato specificamente tale affermazione attraverso una pertinente censura di error in procedendo.

2. – Il secondo mezzo denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1422 e 2935 c.c., anche in relazione all’art. 1283 c.c., in punto di prescrizione delle rimesse effettuate dalla ricorrente. La sentenza impugnata è reputata errata nella parte in cui ha individuato il dies U quo della prescrizione nel momento in cui erano state effettuare le rimesse, e non in quello dell’avvenuta chiusura del conto.

Il motivo va disatteso.

Insegnano le Sezioni Unite di questa Corte che, se durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato prelevamenti e versamenti, questi ultimi possono essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca: ciò che accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su di un conto in passivo cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento; non anche nei casi in cui i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere. Se, tuttavia, i versamenti operati nel corso del rapporto di apertura di credito, in situazioni di indebitamento che rientrano nei limiti dell’accreditamento, non integrano pagamenti, in quanto non soddisfano il creditore ma ampliano (o ripristinano) la facoltà d’indebitamento del correntista, diversamente è a dirsi per l’ipotesi in cui, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia riscosso dal correntista il saldo finale (Cass. Sez. U. 2 dicembre 2010, n. 24418).

A tale principio si è uniformata la Corte di appello, la quale ha correttamente ritenuto irrilevante, ai fini della prescrizione, il momento in cui fosse stato chiuso il conto corrente. D’altro canto, non solo l’istante ha mancato di fornire indicazioni quanto all’andamento del conto, ma nemmeno si comprende quale rilievo possa in sè assumere la cessazione del rapporto ai fini della decorrenza della prescrizione, in mancanza di un pagamento finale del saldo (giacchè l’effetto estintivo del diritto restitutorio deve correlarsi a un tale atto, che la Corte di merito ha di fatto disconosciuto, pronunciando condanna in favore della banca per gli importi dovuti dalla correntista).

3. – Col terzo mezzo l’istante deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 1175,1373,1375 e 1845 c.c., anche in relazione all’art. 1218 c.c., circa l’inefficacia del recesso dal contratto di conto corrente e l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nell’esecuzione del contratto, e quindi in punto di illegittimità della “segnalazione in CAI della ricorrente”. Viene rilevato non essere stata fornita prova che essa istante avesse ricevuto la comunicazione di recesso della banca (atto, questo, recettizio, rispetto al quale era quindi necessario acquisire un riscontro nel senso indicato); si sottolinea, poi, che al momento della revoca degli affidamenti, il debito verso la banca era di importo inferiore al limite delle concesse linee di credito; si evidenzia, da ultimo, che ai fini della segnalazione delle posizioni “a rischio” gli intermediari non possano attribuire rilievo al semplice ritardo nei pagamenti e che, nella fattispecie, la segnalazione a sofferenza era stata attuata in assenza di una situazione di insolvenza o di cronica difficoltà ad adempiere, essendo piuttosto controversi l’esistenza e l’ammontare del debito.

Il motivo non merita accoglimento.

La censura vertente sulla mancata comunicazione del recesso è inammissibile, in quanto investe un profilo fattuale: la Corte di appello ha in realtà insindacabilmente accertato che detta comunicazione pervenne all’indirizzo del destinatario (tanto che il plico fu restituito al mittente solo a seguito del prescritto periodo di giacenza).

La ricorrente non chiarisce, poi, se abbia contestato giudizialmente la legittimità del recesso, nè quali siano state, in tal caso, le deduzioni formulate per dolersi dell’iniziativa assunta dalla banca: l’istante non fornisce, in particolare, indicazioni appropriate ed esaurienti quanto alle difese svolte per sostenere che quel recesso non potesse essere esercitato, mancandone le condizioni legali o contrattuali; il richiamo svolto a pag. 14 del ricorso, ove si rileva che la risoluzione del contratto possa giustificarsi solo nell’ipotesi di “costante inadempimento, che non si risolva in semplice difficoltà economica” appare generico, tale da non far comprendere i precisi termini della questione e se essa fu fatta valere nella precorsa fase di merito. Anche con riferimento al rilievo svolto in ordine all’ammontare dell’esposizione debitoria al momento della revoca dell’affidamento (ammontare che si sarebbe collocato al di sotto della soglia dell’affidamento concesso: sempre pag. 14 del ricorso) si ravvisa un’analoga genericità, non essendo stato spiegato se e in che modo (con quale atto processuale, in particolare) si sia dedotto che il recesso dall’apertura di credito fosse illegittimo per tale ragione; d’altro canto, il ricorso per cassazione nemmeno contiene una specifica censura che investa le considerazioni svolte nella sentenza impugnata per dar ragione del fatto che, all’epoca, il debito dell’istante eccedesse la linea di credito concessa.

Posto, dunque, che, in ragione del recesso dall’apertura ai credito, il saldo debitore della cliente era divenuto esigibile per la banca, è da chiedersi se abbia fondamento la contestazione inerente alla segnalazione a sofferenza. Ma sul punto la censura non coglie nel segno. La Corte di appello non ha infatti eluso il principio per cui la detta segnalazione richiede una valutazione, da parte dell’intermediario, riferibile alla complessiva situazione finanziaria del cliente, e non può quindi scaturire dal mero ritardo nel pagamento del debito o dal volontario inadempimento, dovendo invece essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d’insolvenza (per tutte: Cass. 9 luglio 2014, n. 15609): essa ha di contro accertato che la posizione di B.L. presentava “elementi di allarme” (e cioè. che, nella sostanza, la situazione patrimoniale della medesima presentava le indicate connotazioni). Tale accertamento di fatto sfugge, come tale, al sindacato di legittimità.

4. – Il quarto motivo oppone la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 c.p.c. e ss.. Con esso l’istante si duole della statuizione assunta dalla Corte di appello in punto di spese processuali: rileva che in primo grado l’opposizione era stata accolta – sicchè il debito era stato quantificato dal Tribunale in un importo significativamente inferiore rispetto alla pretesa iniziale della banca -, e che in fase di gravame l’appello era stato, seppur parzialmente, ritenuto fondato: in conseguenza, ad avviso della ricorrente, la Corte distrettuale avrebbe dovuto tener conto della soccombenza reciproca dei contendenti.

Il motivo non ha fondamento.

La Corte di appello ha spiegato che l’appello era stato accolto solo parzialmente, per una parte che poteva ritenersi di modesta rilevanza, sicchè ha compensato le spese per un terzo e condannato l’appellante a residui due terzi.

Ora, la reciproca soccombenza va ravvisata sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, tanto allorchè quest’ultima sia stata articolati in più capi, dei quali siano stati accolti solo alcuni, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento (Cass. 24 aprile 2018, n. 10113; Cass. 22 febbraio 2016, n. 3438; Cass. 23 settembre 2013, n. 21684). Poichè, poi, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, esula dai limiti commessi all’accertamento di legittimità e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite” e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (Cass. 17 ottobre 2017, n. 24502; Cass. 31 marzo 2017, n. 8421; Cass. 19 giugno 2013, n. 15317; Cass. 18 ottobre 2005, n. 20145, Cass. 28 agosto 2004, n. 17220).

5. – Il ricorso è respinto.

6. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

PQM

La Corte

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.400,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6 Sezione Civile, il 8 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2019

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