Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29430 del 13/11/2019

Cassazione civile sez. VI, 13/11/2019, (ud. 08/07/2019, dep. 13/11/2019), n.29430

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21902-2017 proposto da:

V.G. in proprio e nella qualità di Procuratore Generale

della Signora V.S., elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA GRANITO DI BELMONTE 19, presso lo studio dell’avvocato PIRAS

ALDO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

S.D., S.A., nella qualità di eredi di

S.G. e B.M., Attivamente domiciliati in ROMA, VIA

ANAPO 29, presso lo studio dell’avvocato GIZZI MASSIMO, che li

rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3358/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 08/07/2019 dal Consigliere Relatore Dott. FALABELLA

MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – St.Gi. citava in giudizio V.G. in proprio e quale procuratore generale di V.S., domandando la risoluzione per inadempimento dei convenuti di due contratti, stipulati in data 10 febbraio 1992 e 26 marzo 1992, con cui il primo aveva ceduto il marchio (OMISSIS), n. (OMISSIS), relativo a calze elastiche per uomo e donna, al prezzo di Lire 155.000.000: somma che avrebbe dovuto pagarsi in rate mensili di Lire 3.900.000 ciascuna, a decorrere dal 1 gennaio 1992: il mancato pagamento di tre rate avrebbe comportato la risoluzione del contratto e tale inadempimento l’attore poneva a fondamento della propria domanda. I convenuti chiedevano, in via riconvenzionale, la condanna dell’attore ad adempiere e a pagare la penale prevista in caso di inadempimento all’obbligo di provvedere alle formalità necessarie per perfezionare il passaggio in proprietà del marchio e consentirne la registrazione a nome dell’acquirente.

Il Tribunale di Roma, in accoglimento delle domande dell’attore, dichiarava gli eredi S. ( B.M., S.D. e S.A.) unici ed esclusivi titolari del marchio, condannava i convenuti al risarcimento del danno e rigettava le domande riconvenzionali dei V..

2. – Questi interponevano gravame che la Corte di Appello di Roma rigettava.

3. – Proposto ricorso, questa S.C. cassava la sentenza impugnata. Osservava non potesse porsi a carico del debitore convenuto che aveva eccepito l’altrui inadempimento un onere di allegazione di contenuto incerto ed eccedente rispetto a quanto sia sufficiente per individuare, tramite l’indicazione della fonte negoziale, il contenuto dell’obbligo il cui inadempimento era stato imputato all’altra parte: la Corte d’appello avrebbe pertanto dovuto accertare se S., del quale i V. avevano dedotto l’inadempimento, avesse dimostrato di avere adempiuto all’obbligo assunto di realizzare il risultato della formale intestazione del marchio in capo all’acquirente, ovvero se la suddetta prestazione fosse divenuta impossibile per una causa a lui non imputabile: ciò al fine di verificare la rilevanza causale dell’inadempimento dei V. all’obbligo di pagamento del corrispettivo e, quindi, di accertare le effettive responsabilità nella risoluzione del contratto.

4. – In sede di rinvio la Corte di Roma rigettava l’appello.

5. – I V. ricorrono ora per cassazione contro quest’ultima pronuncia e lo fanno con quattro motivi di impugnazione S.A. e S.D. resistono con controricorso. Sono state depositate memorie.

Il Collegio ha autorizzato la redazione dell’ordinanza in forma semplificata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia violazione o errata applicazione dell’art. 384 c.p.c.. Assumono i ricorrenti che la sentenza impugnata aveva replicato lo sbaglio in cui era incorsa la pronuncia cassata, attribuendo rilievo all’ambiguità della clausola contrattuale la quale non avrebbe chiarito, ad avviso del giudice distrettuale, quale attivirà avrebbe dovuto compiere il venditore per il trasferimento del marchio e la registrazione di tale vicenda traslativa.

Il secondo mezzo oppone la violazione o errata applicazione degli artt. 1366,1367,1369,1370,13711374 e 1375 c.c., nonchè degli artt. 112,115 e 116 c.p.c.. Osservano gli istanti che il giudice di appello aveva erroneamente ritenuto che l’adempimento di S. risultasse comprovato documentalmente e che sul punto non vi sarebbe stata censura in fase di gravame. Di contro, il punto aveva costituito oggetto del primo e del secondo motivo di impugnazione; inoltre il documento citato nella sentenza non faceva parte del fascicolo di primo grado e gli istanti avevano lamentato, in appello, la mancata considerazione di altro scritto il quale attestava l’inadempimento di controparte.

Il terzo motivo lamenta la contraddittoria o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia e cita, in rubrica, gli artt. 2697,1362,1366,1367,1369,1370,13711374,1375 e 1460 c.c., oltre che gli artt. 113,115,116 e 384 c.p.c.. Rilevano i ricorrenti che la sentenza, sul punto dell’inadempimento di S., risultava, sotto molteplici profili, illogica e contraddittoria.

2. – I tre motivi, da riguardarsi unitariamente, sono privi di fondamento.

E’ anzitutto improprio affermare che la Corte del rinvio abbia disatteso il principio di diritto affermato dalla Corte di legittimità, secondo cui l’onere di allegazione del debitore deve considerarsi soddisfatto attraverso il richiamo della fonte negoziale che individui il contenuto dell’obbligo del cui inadempimento si dibatte. Infatti, la Corte di appello non ha fondato la propria decisione sulla constatazione sulla carente allegazione dell’inadempimento della controparte, ma ha viceversa verificato se, alla stregua degli elementi processuali in suo possesso, l’adempimento del venditore potesse ritenersi provato: ed è sintomatico, al riguardo, che lo stesso giudice distrettuale, dopo aver rilevato che il tenore della clausola che impegnava il venditore ad “effettuare quanto necessario per perfezionare il passaggio di proprietà del marchio” risultava essere ambiguo, abbia poi osservato che tale profilo non poteva ritenersi decisivo proprio alla luce delle risultanze di causa che davano ragione del richiamato adempimento (pagg. 3 e 4 della sentenza impugnata).

Parte ricorrente non può, poi contestare in questa sede l’accertamento di fatto compiuto dal giudice del rinvio: infati, come è ben noto, la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (così, da ultimo, Cass. 4 luglio 2017, n. 16467) e dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 31 luglio 2017, n. 19011; Cass. 2 agosto 2016, n. 16056; Cass. 21 luglio 2010, n. 17097). D’altro canto, in base alla nuova versione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (per come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012), il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito è estraneo alla suddetta ?revisione e la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle part, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass. 26 settembre 2018, n. 23153; Cass. 10 giugno 2016, n. 11892); inoltre, la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. 10 giugno 2016, n. 11892, cit.).

Nè coglie nel segno la deduzione dei ricorrenti secondo cui la Corte di merito avrebbe errato nel ritenere che il tema dell’asserito adempimento del venditore non era stato investito da impugnazione con l’appello. Non è ben chiaro a cosa precisamente alludano i ricorrenti: certo è che la Corte del merito ha valorizzato il dato della mancata censura dell’affermazione, contenuta nella sentenza di primo grado, della “trascrizione del marchio a nome di V.S. `previa eliminazione di un errore certamente non imputabile all’attorè” e l’elemento processuale della mancata contestazione della protratta utilizzazione, fin dal 1992, del marchio ceduto, da parte dei V. (pag. 4 della pronuncia). A fronte di tali puntuali rilievi, gli istanti oppongono una doglianza che investe un profilo diverso e non concludente: quello dell’esistenza di motivi di censura della sentenza di prime cure che inerivano al tema, non meglio specificato, dell’adempimento del venditore.

Con particolare riferimento, poi, ai documenti menzionati nel secondo motivo, va anzitutto osservato che gli istanti mancano di misurarsi con l’affermazione della Corte di merito secondo cui non era stato contestato che la nota di trascrizione fosse stata regolarmente prodotta in primo grado; per altro verso, del documento di cui è lamentato il mancato esame non viene nemmeno riprodotto il contenuto, sicchè la relativa censura è carente di specificità (ancor prima che inidonea ad assumere rilievo in questa sede, essendo devoluto al giudice del merito, come si è detto, l’apprezzamento circa il valore delle risultanze probatorie).

Da disattendere è pure il terzo motivo, giacchè l’apparato motivazionale della sentenza impugnata non contiene alcuno dei radicali vizi censurabili in questa sede. Infatti, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054).

2. – Col quarto motivo viene dedotta la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Assumono gli istanti che la condanna al pagamento delle spese disposta dalla Corte di merito risultava essere eccessiva e sproporzionata, in considerazione dell’esito dei due gradi di giudizio (quello di cassazione e quello successivo di rinvio).

La censura è palesemente infondata.

In tema di spese processuali, il giudice del rinvio, cui h, causa sia stata rimessa anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, si deve attenere al principio della soccombenza applicato all’esito globale del processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro risultato, sicchè non deve liquidare le spese con riferimento a ciascuna fase del giudizio, ma, in relazione all’esito finale della lite, può legittimamente pervenire ad un provvedimento di compensazione delle spese, totale o parziale, ovvero, addirittura, condannare la parte vittoriosa nel giudizio di cassazione e, tuttavia, complessivamente soccombente, al rimborso delle stesse in favore della controparte (Cass. 9 ottobre 2015, n. 20289).

3. – Il ricorso è dunque respinto.

4. – Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6 Sezione Civile, il 8 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2019

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