Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29429 del 15/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 15/11/2018, (ud. 10/10/2018, dep. 15/11/2018), n.29429

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20411/2017 proposto da:

G.C., elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO TRIESTE,

16, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE SOTTILE, rappresentata e

difesa dall’avvocato DARIO ABBATE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA CAVOUR, 19, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE DE LUCA

TAMAJO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3521/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 26/06/2017 R.G.N. 676/2017.

Fatto

RILEVATO

che:

1. con sentenza n. 3521 pubblicata il 26.6.2017, la Corte d’appello di Roma ha respinto il reclamo proposto dalla sig.ra G.C. avverso la sentenza di primo grado che, rigettando l’opposizione della stessa, aveva confermato l’ordinanza conclusiva della fase sommaria con cui era stata dichiarato inammissibile il ricorso ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1,comma 48, per intervenuta decadenza di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, come modificato dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, ed ha condannato la reclamante alla rifusione delle spese di lite;

2. la Corte d’appello ha dato atto di una impugnativa stragiudiziale del licenziamento datata 19.10.11 ma priva di data e di firma della lavoratrice e del difensore; ha rilevato come, se anche fosse valida tale impugnativa stragiudiziale, il ricorso ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48, depositato il 20.7.15, sarebbe comunque tardivo per mancato rispetto del termine di 270 giorni (nella formulazione anteriore alla L. n. 92 del 2012); ha ritenuto il ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c., proposto dalla lavoratrice il 10.11.11 e definito in sede di reclamo il 16.3.12, inidoneo ad impedire la decadenza di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, in conformità all’indirizzo sul punto della Suprema Corte (Cass. n. 14390 del 2016; Cass. n. 19919 del 2016);

3. avverso tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso Poste Italiane s.p.a.;

4. Poste Italiane s.p.a. ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

5. col primo motivo la ricorrente ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, come modificato dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, art. 669 octies c.p.c., comma 6, art. 2966 c.c. e art. 111 Cost.;

6. ha sostenuto come il rimedio cautelare del cui all’art. 700 c.p.c., avesse assunto le caratteristiche di azione potenzialmente atta a soddisfare l’interesse della parte anche in via definitiva, seppure senza attitudine al giudicato, e fosse pertanto idonea ad impedire la decadenza di cui all’art. 6, comma 2, cit.;

7. ha sottolineato come l’art. 6, comma 2, preveda unicamente che l’impugnativa stragiudiziale del licenziamento diviene inefficace se non è seguita, ne termine di 270 giorni, dal deposito del ricorso, senza ulteriori specificazioni sul tipo di ricorso;

8. ha aggiunto come la soluzione accolta dalla Corte di merito si ponga in contrasto col principio, enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 10840 del 2016, secondo cui “interpretare le norme sulla decadenza nel diverso senso di richiedere quale atto tipico previsto dalla legge per impedire la decadenza una azione idonea a dare luogo al giudicato significherebbe estendere l’ambito di applicazione della decadenza laddove le norme che la prevedono sono di stretta interpretazione”;

9. ha criticato la motivazione adottata dalla Corte di merito attraverso il richiamo della pronuncia di legittimità n. 14390 del 2016, affermando come anche il ricorso di cui all’art. 700 c.p.c., al pari di quello introduttivo della fase sommaria nel rito cd. Fornero, debba contenere petitum e causa petendi; inoltre, come sia errato attribuire idoneità interruttiva della decadenza alla proposizione del tentativo stragiudiziale di conciliazione anzichè al deposito di un ricorso, anche se proposto ai sensi dell’art. 700 c.p.c.;

10. ha denunciato la violazione dell’art. 111 Cost., sul rilievo che la tutela del giusto processo debba garantire l’effettività dei mezzi di azione e difesa consentendo di ottenere una decisione di merito;

11. col secondo motivo di ricorso la lavoratrice ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per avere la Corte d’appello pronunciato condanna al pagamento delle spese del giudizio di reclamo e al raddoppio del contributo unificato, pur nella consapevolezza che, a seguito del rigetto del reclamo, la predetta sarebbe stata priva di reddito;

12. il primo motivo di ricorso è infondato per le ragioni già espresse da questa Corte nelle sentenze n. 14390 del 2016 e n. 19919 del 2016, nonchè per le seguenti ulteriori considerazioni;

13. La L. n. 604 del 1966, art. 6, commi 1 e 2, come modificati dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, prevedono:

“Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.

L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni (ridotto, dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 38, a centottanta giorni) dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”.

14. dal punto di vista letterale, deve osservarsi come nel secondo comma “il deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro” sia posto come alternativo alla “comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato”. Le procedure di conciliazione e arbitrato sono disciplinate dagli artt. 410 e segg. c.p.c., come modificati dalla L. n. 183 del 2010, art. 31 e sono espressamente contemplate per “chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall’articolo 409”; a tale soggetto la legge attribuisce la facoltà (“può”) di “promuovere, anche tramite l’associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, un previo tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione individuata secondo i criteri di cui all’art. 413”. Il “previo” tentativo di conciliazione non sarebbe concepibile, e difatti non è previsto neanche in via eventuale, rispetto alla proposizione di una domanda di provvedimento d’urgenza, ai sensi dell’art. 700 c.p.c.;

15. l’alternativa contenuta nell’art. 6, comma 2, cit. appare quindi logicamente posta tra la proposizione immediata di un ricorso ai sensi dell’art. 414 c.p.c. (poi sostituito, per le domande di impugnativa dei licenziamenti, dal ricorso di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 48 e segg., oppure il previo (rispetto al ricorso di merito) avvio delle procedure di conciliazione ed arbitrato, senza che possa rintracciarsi uno spazio, nonostante l’utilizzo del termine “ricorso” privo di specifico riferimento all’art. 414 c.p.c., per l’attribuzione anche al ricorso di cui all’art. 700 c.p.c., dell’effetto impeditivo della decadenza in oggetto;

16. dal punto di vista sistematico, è significativo che il legislatore del 2010 abbia introdotto un ulteriore termine di decadenza per l’ipotesi in cui il lavoratore abbia scelto la strada del “previo” tentativo di conciliazione o arbitrato, disponendo che “qualora la conciliazione o l’arbitrato siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”; non pare dubbio che in tal caso il termine “ricorso” sia riferito a quello previsto dall’art. 414 c.p.c.. Sarebbe anomalo che nel corpo della medesima disposizione, ed anzi del medesimo comma, il legislatore avesse utilizzato il termine “ricorso” in due accezioni diverse, comprendendo solo in un caso anche il ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c.;

17. deve anche sottolinearsi il riferimento, contenuto nell’art. 6, comma 2, cit., alla “possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso”; tale espressione non può che essere riferita ad un ricorso ai sensi dell’art. 414 c.p.c., il solo previsto per l’impugnativa dei licenziamenti all’epoca di emanazione della L. n. 183 del 2010 e non ad un ricorso d’urgenza in cui è consentita la produzione documentale al di fuori del rigido sistema di preclusioni proprie del rito ordinario del lavoro;

18. infine, lo scopo della disciplina introdotta dalla L. n. 183 del 2010, di provocare in tempi ristretti una pronuncia di merito sulla legittimità del licenziamento, attraverso la previsione di termini di decadenza per l’azione in giudizio, sarebbe completamente vanificato da una interpretazione, come quella pretesa da parte ricorrente, volta a ritenere impedita la decadenza anche da un ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c., proposto nel termine di 270 giorni dall’impugnativa stragiudiziale, senza che sia possibile individuare a quel punto un qualsiasi altro termine, se non quello ordinario di prescrizione, entro cui instaurare la causa di merito. Difatti, col nuovo testo dell’art. 669 octies, comma 6, aggiunto dal D.L. n. 35 del 2005, art. 2, comma 3, lett. e-bis), convertito con modificazioni in L. n. 80 del 2005, si è stabilito che le disposizioni di cui al medesimo art. 669 octies e dell’art. 669 nonies, comma 1 (che prevedono il vincolo di strumentalità necessaria tra la fase cautelare e quella di merito, pena l’inefficacia del provvedimento di accoglimento) non si applicano ai provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 c.p.c. e agli altri provvedimenti cautelari ad effetto anticipatorio della decisione di merito, risultando così introdotto un vincolo di strumentalità attenuta tra la fase cautelare e quella di merito, essendo quest’ultima prevista come solo eventuale (cfr. Cass. Ord. n. 18264 del 2017; Ord. n. 11949 del 2015);

19. non è pertinente il richiamo di parte ricorrente al precedente di questa Corte n. 10840 del 2016 riferito ad una fattispecie (esclusione del socio lavoratore di società cooperativa) assolutamente diversa da quella in esame e, comunque, il principio ivi affermato non può condurre a superare l’inequivoco tenore letterale della L. n. 604 del 1966, art. 6;

20. neppure vi è spazio per ravvisare una violazione dell’art. 111 Cost., risultando, semmai, la tesi di parte ricorrente contraria alle finalità di ragionevole durata del processo;

21. la censura oggetto del secondo motivo di ricorso, così come formulata, risulta priva di adeguata specificità; il vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto che si dicono violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che si assumano motivatamente in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012);

22. il motivo in esame definisce illegittima la condanna della reclamante al pagamento delle spese di lite e al raddoppio del contributo unificato senza che la affermata illegittimità sia in qualche modo argomentata, se non in ragione della mancanza di reddito derivante alla lavoratrice dal rigetto del reclamo;

23. tale deduzione non porta a ritenere integrata alcuna violazione dell’art. 91 c.p.c., atteso che “In tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse. Con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è pertanto limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti”, (Cass. n. 19613 del 2017; Cass. n. 15317 del 2013; Cass. n. 5386 del 2003);

24. questa Corte ha già dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione avverso le statuizioni della sentenza di appello che abbiano dato atto della sussistenza o insussistenza dei presupposti per l’erogazione, da parte del soccombente, di un importo pari a quello corrisposto per il contributo unificato “in quanto tale rilevamento, essendo un atto dovuto collegato al fatto oggettivo delle definizione del giudizio in senso sfavorevole all’impugnante, non ha un contenuto decisorio suscettibile di impugnazione, sicchè l’eventuale erroneità dell’indicazione sul punto potrà essere solo segnalata in sede di riscossione”, (Cass. Ord. n. 22867 del 2016);

25. per le considerazioni svolte il ricorso deve essere respinto;

26. la regolazione delle spese di lite avviene secondo il criterio di soccombenza, con liquidazione come da dispositivo;

27. si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 10 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2018

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