Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29420 del 13/11/2019

Cassazione civile sez. lav., 13/11/2019, (ud. 03/07/2019, dep. 13/11/2019), n.29420

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16360-2014 proposto da:

G.F.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA E. Q.

VISCONTI 20, presso lo Studio Legale Buccico, rappresentato e difeso

dall’avvocato EMILIO NICOLA BUCCICO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato NICOLA ROCCO;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI MATERA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 160/2014 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 19/02/2014 R.G.N. 507/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/07/2019 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per accoglimento del secondo

motivo, inammissibilità del primo motivo;

udito l’Avvocato CERINO MASCIA per delega Avvocato NICOLA ROCCO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Potenza ha dichiarato inammissibile, perchè tardivo, il gravame proposto da G.F.P. avverso la sentenza che aveva accolto solo in parte la sua domanda di condanna del Comune di Matera per danni, patrimoniali e non, cagionati dal datore di lavoro.

Nel pronunciare l’inammissibilità la Corte condannava il G. al pagamento in favore della controparte delle spese del grado, che liquidava in Euro 10.740,00 oltre accessori.

2. Avverso la sentenza G.F.P. ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, mentre il Comune è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente sostiene, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.

Egli contesta la valutazione di soccombenza svolta dalla Corte territoriale, sottolineando come la controparte avesse avanzato nei suoi confronti domanda di condanna per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c.

Il giudice di secondo grado aveva ignorato tale istanza che però – a dire del ricorrente – doveva considerarsi come implicitamente, ma inequivocabilmente, respinta, con reiezione che avrebbe quindi imposto di ravvisare una soccombenza reciproca, onde disporre la compensazione, quanto meno parziale, delle spese di secondo grado.

1.1 Il motivo è infondato.

1.2 E’ indubbio che nella sentenza nulla sia stato detto sulla domanda di condanna per responsabilità aggravata.

Non vi è però elemento alcuno, nè lo stesso ricorrente lo indica, per affermare che tale istanza sia stata rigettata.

Tutto si riduce ad un’omissione di pronuncia, che nessuna delle parti ha impugnato e che dunque resta tale.

Ne deriva che la ricostruzione svolta attraverso il motivo, in ordine a quanto sarebbe derivato da una pronuncia di rigetto di quell’istanza resta puramente ipotetica e come tale inammissibile.

Mentre la mancata compensazione delle spese, a fronte della sussistenza in concreto soltanto di una pronuncia di rigetto dell’appello è in sè inattaccabile.

2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta che la condanna nei suoi confronti al pagamento delle spese in misura di Euro 10.740,00 oltre accessori sarebbe esorbitante.

A questo proposito richiama la Delib. comunale di autorizzazione a resistere, in cui i costi di difesa erano state determinati nel “presumibile” importo di Euro 2.000,00 e lamenta che la liquidazione contestata sia avvenuta nella elevata misura predetta, nonostante il difensore della controparte non avesse allegato alcuna nota spese.

Oltre a ciò e sottolineando come il giudice di secondo grado sembrerebbe aver determinato il compenso in coerenza con i parametri medi compresi nello scaglione relativo alle cause il cui valore oscillava tra 100.001 e 500.000 Euro, il ricorrente sottolinea come, ai sensi del D.M. n. 140 del 2012, art. 5 la liquidazione avrebbe dovuto avere a riferimento la somma attribuita e non quella domandata e dunque il minor valore tra Euro 25.001,00 ad Euro 50.000,00, sul presupposto che in primo grado l’importo riconosciuto era stato di Euro 36.581,00, sicchè poi, dovendosi nella liquidazione seguire i criteri attinenti alla natura, complessità ed importanza delle questioni trattate, il giudice di appello non avrebbe potuto che fare riferimento ai minimi tabellari riconoscendo l’importo di Euro 1.980,00.

2.1 Il motivo va disatteso.

2.2 Non è intanto fondato l’assunto del ricorrente secondo cui il valore della causa di appello avrebbe dovuto essere fissato sulla base di quanto riconosciuto in primo grado, quale “somma attribuita”.

La regola contenuta nel D.M. n. 140 del 2012, art. 5 applicabile ratione temporis, ma che è tradizionalmente propria di tutti i tariffari forensi succedutisi, secondo cui “nei giudizi per pagamento di somme, anche a titolo di danno, alla somma attribuita alla parte vincitrice e non alla somma domandata”, ha lo scopo di calmierare le liquidazioni a favore di chi abbia richiesto importi eccesivi rispetto al dovuto, mantenendo a carico di chi agisce i possibili maggiori costi di difesa cagionati da una pretesa esorbitante rispetto a quanto spettante.

Non ha dunque alcun senso l’applicazione di essa rispetto ad un giudizio di appello chiusosi con una pronuncia di inammissibilità del gravame imputabile all’originario attore di prime grado che impugnando pretendeva importi superiori a quelli riconosciuti dal Tribunale.

In tale ipotesi il valore non può che essere quello dell’importo domandato e dunque, nel caso di specie, alla differenza tra quanto preteso in appello e quanto già riconosciuto in primo grado, non avendo alcun legame con il giudizio di secondo grado la fissazione del valore sulla base di quanto attribuito in primo grado e non più in discussione.

Ne deriva che, risultando chiesto in appello un risarcimento per Euro 137.925,91 (scorporata in due voci di cui una da Euro 100.000,00 “nonchè” Euro 37.925,91: così le conclusioni riportate in epigrafe della sentenza di secondo grado) ed essendo stati riconosciuti in primo grado Euro 36.581,00 (di cui Euro 30.000 per danno patrimoniale ed Euro 6.581,00 per danno non patrimoniale), il valore di causa in appello era di Euro 100.419,00.

Dunque appare corretto quanto dedotto dal ricorrente, ovverosia che la Corte territoriale abbia preso a riferimento quello scaglione e riconosciuto i corrispondenti parametri medi, che danno appunto il risultato di Euro 10.740,00.

E’ pertanto da escludere che vi sia stata esorbitanza dalla tariffa in sè considerata.

2.3 Nel resto, vale il principio già affermato e coerente anche con arresti già assunti nel vigore dei precedenti regimi tariffari (Cass. 9 ottobre 2015, n. 20289), secondo cui “in tema di liquidazione delle spese giudiziali ai sensi del D.M. n. 140 del 2012, la disciplina secondo cui i parametri specifici per la determinazione del compenso sono, “di regola”, quelli di cui alla allegata tabella A, la quale contiene tre importi pari, rispettivamente, ai valori minimi, medi e massimi liquidabili, con possibilità per il giudice di diminuire o aumentare “ulteriormente” il compenso in considerazione delle circostanze concrete, va intesa nel senso che l’esercizio del potere discrezionale del giudice contenuto tra i valori minimi e massimi non – è soggetto a sindacato in sede di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice medesimo decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili sia le ragioni dello scostamento dalla “forcella” di tariffa, sia le ragioni che ne giustifichino la misura” (Cass. 10 maggio 2019, n. 12537).

Il constatato mantenimento della liquidazione entro l’elastico dello scaglione tariffario esclude dunque ogni possibilità di sindacato.

2.5 E’ d’altra parte dato acquisito alla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 13 maggio 2011, n. 10663) quello per cui, essendo il regolamento delle spese di lite consequenziale ed accessorio rispetto alla definizione del giudizio e dovendo il giudice procedere in tal senso anche d’ufficio, risulta irrilevante l’avvenuto deposito o meno della nota spese.

Così come ininfluente è il fatto che in sede di autorizzazione alla costituzione in giudizio l’ente avesse stimato, per giunta in via soltanto presumibile, un dato importo di possibili costi, in quanto ciò non può attestare quali siano stati gli effettivi oneri di lite, nè influire, alla luce anche dell’ipoteticità della valutazione, sulla successiva liquidazione avvenuta senza esorbitanza dallo scaglione tariffario.

2.6 Alla reiezione del ricorso non segue pronuncia sulle spese, in quanto il Comune è rimasto intimato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2019

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