Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29393 del 23/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 23/12/2020, (ud. 22/10/2020, dep. 23/12/2020), n.29393

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CIRESE Marina – Consigliere –

Dott. TADDEI Margherita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 155/2018 R.G., proposto da:

M.L., rappresentato e difeso dall’Avv. Antonio Orlando, con

studio in Napoli, ove elettivamente domiciliato (indirizzo p.e.c.:

antonioorlando.avvocatinapoli.legalmail.it), giusta procura in calce

al ricorso introduttivo del presente procedimento;

– ricorrente –

contro

la “SO.GE.T. S.p.A.”, con sede in Pescara, in persona del presidente

del consiglio di amministrazione pro tempore, nella qualità di

concessionaria del servizio di riscossione per conto del Comune di

Capaccio (SA), rappresentata e difesa dall’Avv. Sergio Della Rocca,

con studio in Roma, giusta procura in calce al controricorso di

costituzione nel presente procedimento;

– controricorrente –

e

il Comune di Capaccio (SA), in persona del Sindaco pro tempore;

– intimato –

Avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale

della Campania – Sezione Staccata di Salerno il 3 maggio 2017 n.

3912/04/2017, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22

ottobre 2020 dal Dott. Giuseppe Lo Sardo.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

M.L. ricorre per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania – Sezione Staccata di Salerno il 3 maggio 2017 n. 3912/04/2017, la quale, in controversia su impugnazione avverso ingiunzioni di pagamento della T.A.R.S.U. per gli anni 2009 e 2010, ha parzialmente accolto l’appello proposto dal medesimo nei confronti del Comune di Capaccio (SA) e della “SO.GE.T. S.p.A.” avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Salerno il 17 febbraio 2015 n. 766/06/2015, con compensazione delle spese giudiziali. Il giudice di appello ha riformato in parte la decisione di primo grado, annullando le sanzioni irrogate e confermando le tasse liquidate. La “SO.GE.T. S.p.A.” si è costituita con controricorso, mentre il Comune di Capaccio (SA) è rimasto intimato. La controricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 1.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, si denuncia nullità della sentenza impugnata per violazione e /o falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 23 e 24, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver esaminato e non aver motivato il rigetto dell’eccezione di inammissibilità delle memorie aggiuntive depositate dall’agente della riscossione.

2. Con il secondo motivo, si denuncia nullità della sentenza impugnata per violazione e /o falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 23, 567 e 58, nonchè dell’art. 345 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver esaminato e non aver motivato il rigetto dell’eccezione di inammissibilità dei documenti annessi alle memorie aggiuntive depositate dalla concessionaria per la riscossione (in particolare, delle relate di notifica delle cartelle di pagamento).

3. Con il terzo motivo, si denuncia nullità della sentenza impugnata per violazione e /o falsa applicazione degli artt. 113 e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver deciso secondo norme di diritto, bensì secondo equità.

Ritenuto che:

1. Il primo motivo ed il secondo motivo – la cui stretta ed intima connessione suggerisce la trattazione congiunta – sono infondati.

1.1 Secondo l’assunto del ricorrente, il giudice di appello avrebbe omesso di scrutinare la proposta eccezione di inammissibilità della memoria depositata dalla controricorrente il 23 ottobre 2015 e dei documenti prodotti dall’intimato costituitosi soltanto il 20 gennaio 2016, ritenendo che le relative allegazioni e le annesse produzioni (con riguardo agli atti presupposti delle ingiunzioni di pagamento) non potessero essere esaminate, le une, in assenza della proposizione di motivi aggiunti di appello (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ex artt. 23 e 61) a cui replicare, le altre, per la tardiva costituzione nel giudizio di appello.

1.2 La controricorrente si è difesa sul punto, assumendo che: a) la memoria in questione non introduceva nuove “ragioni, eccezioni e questioni” nel giudizio di appello, ma costituiva una mera illustrazione e precisazione delle difese esposte nel giudizio di prime cure, senza alcuna violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 art. 57; b) che la produzione di documentazione da parte dell’intimato nel giudizio di appello era espressamente consentita dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 58, comma 2.

1.3 E’ pacifico che il carattere impugnatorio del processo tributario è logicamente incompatibile con la proponibilità da parte dell’ufficio di eccezioni nuove in appello (come tali inammissibili), poichè le eccezioni in senso tecnico costituendo lo strumento processuale attraverso il quale si fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa od estintiva della pretesa, su cui il giudice non può pronunciarsi in mancanza dell’allegazione ad opera di una delle parti, nel processo tributario riguarderebbero la pretesa fiscale, avanzata dalla stessa amministrazione finanziaria (tra le altre: Cass., Sez. 5, 13 ottobre 2006, n. 22010).

Ciò non di meno, la parità di posizione processuale tra contribuente ed amministrazione finanziaria (sul piano dell’esercizio del diritto di difesa: art. 24 Cost.) non può prescindere dalla peculiarità del giudizio tributario, il quale non si connota come un giudizio di “impugnazione-annullamento”, bensì come un giudizio di “impugnazione-merito”, in quanto non è finalizzato soltanto ad eliminare l’atto impugnato, ma è diretto alla pronuncia di una decisione di merito sul rapporto tributario, sostitutiva dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria, previa quantificazione della pretesa erariale, peraltro entro i limiti posti da un lato, dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo impugnato e, dall’altro lato, dagli specifici motivi dedotti nel ricorso introduttivo del contribuente (tra le altre: Cass., Sez. 5, 11 maggio 2007, n. 10779; Cass. Sez. 5, 20 ottobre 2011, n. 21759).

Per cui, l’osservanza del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, da parte dell’amministrazione finanziaria si risolve nella preclusione a mutare i termini della contestazione, deducendo motivi e circostanze diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento o, comunque, avanzando pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo e, dunque, sul piano della causa petendi, da quelle recepite nell’atto impositivo (Cass., Sez. 5, 29 ottobre 2008, n. 25909; Cass., Sez. 5, 10 maggio 2019, n. 12467).

Così, in tema di contenzioso tributario, il divieto di domande nuove previsto al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, comma 1, trova applicazione anche nei confronti dell’ufficio finanziario, al quale non è consentito, innanzi al giudice di appello, avanzare pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo, e dunque sul piano della causa petendi, da quelle recepite nell’atto impositivo, altrimenti ledendosi la concreta possibilità per il contribuente di esercitare il diritto di difesa attraverso l’esternazione dei motivi di ricorso, i quali, necessariamente, vanno rapportati a ciò che nell’atto stesso risulta esposto (Cass., Sez. 5, 11 dicembre 2012, n. 22553; Cass., Sez. 5″, 7 maggio 2014, n. 9810; Cass., Sez. 5, 27 giugno 2019, n. 17231; Cass., Sez. 5, 26 febbraio 2020, n. 5160).

Parimenti, il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto sempre dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, riguarda le eccezioni in senso tecnico, ossia lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale. Pertanto, esso non limita affatto la possibilità dell’amministrazione finanziaria di difendersi in tale giudizio, nè quella d’impugnare la sentenza che lo conclude, qualora la stessa abbia accolto una domanda avversaria per ragioni diverse da quelle poste dal giudice di primo grado a fondamento della propria decisione ovvero che siano sostanzialmente comprese nel thema decidendum (Cass., Sez. 5, 25 maggio 2012, n. 8316; Cass., Sez. 6, 31 maggio 2016, n. 11223; Cass., Sez. 6, 20 settembre 2017, n. 21889; Cass., Sez.. 6, 29 dicembre 2017, n. 3124; Cass., Sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27562).

In definitiva, il divieto in questione concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili (Cass., Sez. 5, 29 dicembre 2017, n. 31224).

Dunque, al pari dell’ente impositore, l’agente della riscossione ha facoltà di integrare, completare ed ampliare le proprie difese ed eccezioni (improprie) con la costituzione nel giudizio di appello, fermo restando il limite invalicabile delle ragioni (di fatto e di diritto) poste a fondamento dell’atto impositivo.

Per cui, nel processo tributario, la parte resistente, la quale, in primo grado, si sia limitata ad una contestazione generica del ricorso, può rendere specifica la stessa in sede di gravame poichè il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, comma 2, riguarda solo le eccezioni in senso stretto e non anche le mere difese, che non introducono nuovi temi di indagine (in termini: Cass., Sez. 6, 23 maggio 2018, n. 12651).

1.4 Parimenti, è pacifico che, in tema di contenzioso tributario, nel giudizio di appello davanti alle commissioni tributarie regionali le parti hanno facoltà, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 58, comma 2, di depositare nuovi documenti, a nulla rilevando la eventuale irritualità della loro produzione in primo grado (ex plurimis: Cass., Sez. 5, 11 novembre 2011, n. 23616; Cass., Sez. 5, 16 novembre 2012, n. 20103).

Nell’ambito del processo tributario, il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 58, fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti posti dall’art. 345 c.p.c., ma tale attività processuale va esercitata – stante il richiamo operato dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 61 alle norme relative al giudizio di primo grado – entro il termine previsto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 32, comma 1, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza, con l’osservanza delle formalità di cui all’art. 24, comma 1, dovendo, peraltro, tale termine ritenersi, anche in assenza di espressa previsione legislativa, di natura perentoria, e quindi previsto a pena di decadenza, rilevabile d’ufficio dal giudice anche nel caso di rinvio meramente interlocutorio dell’udienza o di mancata opposizione della controparte alla produzione tardiva (Cass., Sez. 5, 13 novembre 2018, n. 29087).

1.5 Su tali premesse, quindi, non si può ritenere che, con la citata memoria, l’agente della riscossione abbia ampliato il thema decidendum mediante la proposizione di una domanda o di un’eccezione nuova (in senso tecnico), essendosi limitato soltanto a precisare ed arricchire le argomentazioni dedotte nel giudizio di prime cure a difesa del proprio operato, con la semplice specificazione che le ingiunzioni di pagamento erano state precedute da “inviti di pagamento”, che questa Corte ritiene autonomamente impugnabili dinanzi al giudice tributario ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ex art. 19, in quanto consistenti nella comunicazione al contribuente di una pretesa tributaria ormai definita, anche in assenza di una formale intimazione di pagamento (ex plurimis: Cass., Sez. Un., 24 luglio 2007, n. 16293; Cass., Sez. 5, 15 giugno 2010, n. 14373).

Del pari, il ricorrente non ha censurato la sentenza impugnata con riguardo all’omesso rilievo dell’eventuale inosservanza del termine previsto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 32, comma 1, ai fini della produzione dei documenti.

1.6 Pertanto, non si può imputare al giudice di appello l’omessa pronuncia sull’eccezione di inammissibilità del contribuente, essendo implicito il suo rigetto nella valutazione della parziale fondatezza della pretesa tributaria (nei limiti delle circostanze e delle deduzioni poste a fondamento dell’atto impositivo).

2. Parimenti, il terzo motivo è infondato.

2.1 Anzitutto, il ricorrente ravvisa gli estremi del “giudizio secondo equità” nell’argomentazione del giudice di merito per cui, nonostante la mancanza di un preliminare avviso di accertamento (notificato, nella specie, soltanto dopo l’impugnazione dell’ingiunzione di pagamento), la pretesa impositiva poteva considerarsi comunque fondata.

2.2 In realtà, la rilettura della motivazione in parte qua della sentenza impugnata mette in luce che non vi è stata una valutazione secondo equità, in virtù della quale la causa sarebbe stata decisa a prescindere dal diritto positivo. Infatti, il giudice di merito ha ritenuto che la carenza dell’avviso di accertamento fosse supplita dall’invito di pagamento come presupposto dell’ingiunzione di pagamento. Per cui, in relazione a tale profilo, non è ipotizzabile la violazione dell’art. 113 c.p.c., comma 2.

2.3 Per il resto, in linea generale, la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere imputata al giudice del merito sotto due distinti profili: da un lato, ove, nell’esercizio del suo potere discrezionale quanto alla scelta ed alla valutazione degli elementi probatori – donde la mancanza d’uno specifico dovere d’esame di tutte le risultanze e di confutazione dettagliata delle singole argomentazioni svolte dalle parti, del che meglio in seguito – ometta, tuttavia, di valutare quelle risultanze delle quali la parte abbia espressamente dedotto la decisività, salvo ad escluderne la rilevanza in concreto indicando, sia pure succintamente, le ragioni del suo convincimento, il difetto della quale indicazione ridonda, peraltro, in vizio della motivazione; dall’altro, ove, in contrasto con i principi della disponibilità e del contraddittorio delle parti sulle prove, ponga a base della decisione o fatti ai quali erroneamente attribuisca il carattere della notorietà o la propria scienza personale, cosi dando ingresso a prove non fornite delle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati nè discussi, ai quali non può essere riconosciuto, in legittima deroga ai richiamati principi, il carattere dell’universalità della conoscenza e, quindi, dell’autonoma sussumibilità nel materiale probatorio utilizzabile ai fini della decisione (ex plurimis: Cass., Sez. 3, 11 ottobre 2016, n. 20382; Cass., Sez. 1, 28 febbraio 2018, n. 4699).

2.4 Ma anche sotto tale ulteriore profilo, la sentenza impugnata non mostra travisamenti o lacune nella valutazione del materiale probatorio.

Invero, la controversia ruota principalmente attorno alla prova della notifica degli atti presupposti delle ingiunzioni impugnate. La mancata notifica degli atti prodromici agli atti di riscossione invalida questi ultimi e l’intera pretesa tributaria: si tratta di un “vizio procedurale” che, incidendo sulla sequenza procedimentale stabilita dalla legge a garanzia del contribuente, determina l’illegittimità dell’intero processo di formazione della pretesa tributaria, la cui correttezza è assicurata mediante il rispetto dell’ordinato progredire delle notificazioni degli atti, destinati, con diversa e specifica funzione, a portare quella pretesa nella sfera di conoscenza del contribuente e a rendere possibile per quest’ultimo un efficace esercizio del diritto di difesa.

Nella specie, i documenti prodotti nel giudizio di appello consistevano nelle “relate di notifica” degli inviti di pagamento (di cui, peraltro, il contribuente aveva eccepito in quella sede – ma senza prospettare l’integrazione di un eventuale vizio nel presente giudizio di legittimità – la mancata produzione in giudizio).

Pertanto, alla stregua delle risultanze disponibili, la sentenza impugnata ha coerentemente ritenuto che gli inviti di pagamento costituissero idoneo presupposto delle ingiunzioni di pagamento, desumendone che la sequenza procedimentale di formazione della pretesa tributaria fosse stata pienamente rispettata.

3. In conclusione, l’infondatezza dei motivi dedotti comporta il rigetto del ricorso.

4. Nei rapporti tra ricorrente e controricorrente, le spese giudiziali seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura fissata in dispositivo.

5. Nei rapporti tra ricorrente ed intimato, nulla per le spese, essendo risultata vittoriosa la parte non costituita.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese giudiziali in favore della controricorrente, che liquida nella somma complessiva di Euro 2.900,00 per compensi, oltre spese forfettarie ed altri accessori di legge; dà atto dell’obbligo, a carico del ricorrente, di pagare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2020

 

 

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