Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29393 del 15/11/2018

Cassazione civile sez. un., 15/11/2018, (ud. 11/09/2018, dep. 15/11/2018), n.29393

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente di Sez. –

Dott. MANNA Felice – Presidente di Sez. –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – rel. Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1115/2017 proposto da:

M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LAZIO 20-C,

presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO COGGIATTI, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato STEFANO DINDO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DEL DEMANIO, in persona del Direttore pro tempore, MINISTERO

DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– controricorrenti –

e contro

M.O.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 240/2016 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE

PUBBLICHE, depositata il 30/07/2016.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza

dell’11/09/2018 dal Consigliere Dott. ROSA MARIA DI VIRGILIO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli avvocati Stefano Dindo e Roberta Guizzi per l’Avvocatura

Generale dello Stato.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 17/6/2015 – 30/7/2016, il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia del Demanio e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e, in riforma della sentenza definitiva del Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche di Venezia, resa il 17/4/2014, ha respinto le domande di M.G. ed O., intese ad ottenere l’accertamento del limite della zona demaniale dell’alveo del lago di Garda e la reintestazione della proprietà dei fondi distintamente specificati, siti al di sopra della quota di metri 65,05 s.l.m., intestati sino al 1959 al dante causa M.G.F. e successivamente imperativamente volturati a favore del Demanio con la nota di variazione n. 84 del 6/6/1962, in esecuzione del D.M. LL.PP. 20 agosto 1948, n. 1170, individuativo della linea di delimitazione del demanio lacuale nella quota di mt. 65,59 sul livello del mare.

Nello specifico e per quanto ancora rileva, il TSAP ha richiamato la propria precedente pronuncia n. 215 del 2015, che ha stabilito che “dalla peculiare natura provvedimentale avente efficacia generale del D.M. Lavori Pubblici 20 agosto 1948, n. 1170, che fissa in mt. 65,69 (rectius, 65,59) s.l.m. il livello altimetrico che il lago di Garda raggiunge in occasione delle piene ordinarie onde delimitarne il perimetro, consegue (oltre alla non disapplicabilità dello stesso da parte del giudice ordinario nelle singole fattispecie), che l’attuale livello di detta quota non può essere stabilito mediante accertamenti tecnici disposti per le singole fattispecie controverse, ma dal Ministero dei Lavori Pubblici e dell’Ambiente (la cui competenza sul punto non è venuta meno per effetto del D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 86), che, con provvedimento generale avente efficacia erga omnes, deve individuare e delimitare i bacini idrografici nazionali ed accertare la trasformazione dell’ambiente, avvalendosi del servizio Tecnico Nazionale idrografico (artt. 1.3 d) e L. n. 183 del 1989, art. 9) e degli Uffici periferici del Dipartimento per i Servizi Tecnici Nazionali (DSTN), incorporati nelle strutture operative regionali, ovvero delle agenzie (ARPA) o di enti regionali, e proteggere le coste in concorrenza con le Regioni (D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 69, comma 2, lett. d)”.

Il TSAP ha affermato che spetta all’Amministrazione, successivamente, esercitare il potere di rideterminazione dei confini tra i beni demaniali e quelli privati in conformità dell’iter stabilito dal R.D. n. 726 del 1895, art. 3, che demanda la competenza al Prefetto sentiti il Genio civile e l’Intendenza di finanza, in contraddittorio con gli interessati, come era avvenuto nel caso con la nota di variazione del 6/6/1962, n. 84.

Il TSAP ha conseguentemente respinto le domande di accertamento della proprietà privata dei terreni indicati ed ha ritenuto di compensare le spese di lite, avuto riguardo al diverso orientamento espresso dalle Sez. Un. nel 1994, con le pronunce 10908 e 13834.

Ricorre avverso detta pronuncia la sola M.G. con ricorso affidato a due motivi, illustrati con memoria.

Si difendono l’Agenzia del Demanio ed il Ministero dell’economia e delle finanze.

M.O. non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via pregiudiziale, i controricorrenti eccepiscono l’inammissibilità del ricorso per tardività, del R.D. n. 1775 del 1933, ex art. 183, sostenendo che la ricorrente, che deduce di avere ricevuto la notifica del dispositivo della sentenza del TSAP il 21/11/2016, deve avere ricevuto in data anteriore la comunicazione della sentenza, dalla quale, secondo la parte, decorre il termine per la proposizione dell’impugnazione.

Detta eccezione è infondata, atteso che del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 202, nel prevedere il ricorso per cassazione per le pronunce rese ai sensi dell’art. 200 (in grado d’appello) e art. 201, richiama il disposto di cui all’art. 183, che nella parte che qui rileva dispone: “. Per la pronunciazione e la forma delle sentenze si osservano le norme stabilite negli artt. 356 a 360 c.p.c.. La pubblicazione delle sentenze incidentali o definitive avviene mediante deposito in cancelleria, a cura del presidente o di chi ne fa le veci, dell’originale sottoscritto dai votanti. Il cancelliere annota in apposito registro il deposito ed entro tre giorni da tale deposito trasmette la sentenza con gli atti all’ufficio del registro e ne dà avviso alle parti perchè provvedano alla registrazione. Restituiti la sentenza e gli atti dall’ufficio del registro, il cancelliere entro cinque giorni ne esegue la notificazione alle parti, mediante consegna di copia integrale del dispositivo, nella forma stabilita per la notificazione degli atti di citazione…”.

Ora, come affermato tra le altre, nella pronuncia Sez. U. 9/7/2001, n. 9321, che a sua volta richiama, tra le altre, la precedente sentenza 3/4/1998 n. 3471, il termine per la proposizione del ricorso alle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione contro le decisioni del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche è di quarantacinque giorni (e non di trenta giorni), giacchè l’art. 202 del t.u. cit., che riduce alla metà il termine fissato dall’art. 518 codice di rito allora vigente, contiene un rinvio materiale, con la conseguenza che, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura civile, l’indicata riduzione alla metà del termine per il ricorso deve essere riferita al termine di novanta giorni fissato nel previgente art. 518 codice di rito del 1865.

Ed altresì, come ribadito nella pronuncia Sez. U. 11/7/2011, n. 15144, in base alla disciplina contenuta nell’art. 8 della parte prima della tariffa di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, e nell’art. 2 della tabella allegata al medesimo Decreto, non sussiste più l’obbligo di registrazione per tutte le sentenze civili e, anche per quelle per le quali esso è previsto, il cancelliere è tenuto a rilasciarne copia prima della registrazione, se ciò è necessario ai fini della prosecuzione del giudizio; alla luce di siffatta esegesi della predetta normativa in senso correttivo ed evolutivo rispetto a quella in precedenza adottata dalla stessa giurisprudenza di legittimità, ma pur sempre compatibile con il relativo dato letterale, ne consegue che, in tema di impugnazione delle sentenze emesse dal Tribunale superiore delle acque pubbliche in unico grado, una volta avvenuta la comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza, la successiva notifica della copia integrale del dispositivo fa comunque decorrere, indipendentemente dalla registrazione della sentenza, il termine breve di quarantacinque giorni per la proposizione del ricorso per cassazione, ai sensi del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 202, rilevando il compimento della registrazione, ove dovuta, esclusivamente a fini fiscali.

Ne consegue che, notificato alla sig. M. il dispositivo della sentenza R.D. n. 1775 del 1933, ex art. 183, in data 21/11/2016, è tempestiva la proposizione del ricorso per cassazione, avvenuta il 28/12/2016, con l’inizio del procedimento notificatorio.

2. Col primo motivo, sotto il profilo dei vizi ex art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, la ricorrente si duole dell'”eccesso di potere e/o nullità della sentenza per violazione del R.D. n. 1775 del 1933, art. 183, comma 1, in combinato disposto: 1) con l’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4 e l’art. 111 Cost., comma 6; nonchè con gli artt. 113 e 115 c.p.c. e l’art. 1 preleggi”.

Nell’ambito della complessa argomentazione posta a fondamento del primo motivo, la ricorrente sostiene che la sentenza impugnata, nella parte in cui ha statuito che il D.M. Lavori Pubblici 20 agosto 1948, n. 1170, “fissa in m. 65,69 (rectius, 65,59) s.l.m. il livello altimetrico che il Lago di Garda raggiunge in occasione delle piene ordinarie” è incorsa nei seguenti errores in procedendo: a) ha motivato per relationem alla propria precedente sentenza 215/2015, senza dare conto della identità delle questioni poste nel giudizio con quelle esaminate nella pronuncia di rinvio e senza che dalla integrazione delle due motivazioni risulti l’esplicitazione dell’iter argomentativo; b) ha applicato il principio iura novit curia ai decreti ministeriali; c) ha violato il principio della rigorosa individuazione del fatto notorio, che non può estendersi sino a ricomprendere acquisizioni specifiche di natura tecnica, neppure quando derivino al giudice dalla pregressa trattazione di analoghe controversie.

La ricorrente deduce che la determinazione della quota di sbocco del lago di Garda in occasione delle piene ordinarie costituisce fatto controverso e che a riguardo la sentenza impugnata si è limitata a richiamare il proprio precedente con motivazione inesistente o meramente apparente; ad ogni modo, contesta che il D.M. cit. fissi in m. 65,59 ” il livello altimetrico che il Lago di Garda raggiunge in occasione delle piene ordinarie”, come affermato in sentenza, dato che detto D.M. non specifica affatto il livello raggiunto dalle piene

ordinarie o straordinarie, limitandosi all’art. 1 a fissare autoritativamente il limite della zona demaniale; denuncia la mancata produzione del D.M. cit., al quale non si applica il principio iura novit curia e sostiene che, volta che si attribuisca natura rituale al richiamo della precedente pronuncia, si dovrebbero ritenere violati l’art. 113 c.p.c., in combinato disposto con l’art. 1 preleggi, per l’esame di documentazione amministrativa non prodotta e l’art. 115 c.p.c., per l’uso della scienza privata del giudice.

Il motivo, in tutti i suoi profili, deve ritenersi infondato.

Come di recente ribadito nell’ordinanza del 3/7/2018 n. 17043, in tema di provvedimenti giudiziali, la motivazione “per relationem” ad un precedente giurisprudenziale esime il giudice dallo sviluppare proprie argomentazioni giuridiche, ma il percorso argomentativo deve comunque consentire di comprendere la fattispecie concreta, l’autonomia del processo deliberativo compiuto e la riconducibilità dei fatti esaminati al principio di diritto richiamato, dovendosi ritenere, in difetto di tali requisiti minimi, la totale carenza di motivazione e la conseguente nullità del provvedimento.

Tale orientamento è coerente col più generale inquadramento della nullità della sentenza per motivazione solo apparente, che è riscontrabile nel caso in cui la motivazione risulti fondata su una mera formula di stile, riferibile a qualunque controversia, disancorata dalla fattispecie concreta e sprovvista di riferimenti specifici, del tutto inidonea dunque a rivelare la ratio decidendi e ad evidenziare gli elementi che giustifichino il convincimento del giudice e ne rendano dunque possibile il controllo di legittimità, ovvero caratterizzata da un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e da “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. Un. 8053/2014).

Alla stregua di detto principio, deve concludersi per l’infondatezza della doglianza, visto che il TSAP ha richiamato la propria precedente pronuncia, riportandone il principio espresso in relazione alla natura provvedimentale di carattere generale del D.M. cit., non suscettibile di disapplicazione sulla base di indagini tecniche effettuate nelle singole controversie, ma di eventuale rideterminazione da parte dell’Amministrazione secondo l’iter normativamente fissato.

E’ di chiara evidenza come la sentenza impugnata non si sia limitata al mero richiamo al proprio precedente, senza rappresentare l’iter argomentativo seguito in relazione alla fattispecie concretamente esaminata, volta che la pronuncia ha dato conto, nella parte dedicata allo svolgimento e nella prima parte della motivazione, della situazione di specie, delle posizioni delle parti, ed ha enunciato il principio seguito nella precedente sentenza, ritenuto dirimente in relazione alla materia del contendere: la ratio decidendi è incentrata infatti sulla natura provvedimentale a carattere generale del D.M. n. 1170 del 1948, non suscettibile di disapplicazione a seguito di accertamento tecnico nel singolo giudizio.

Pretestuose sono le doglianze relative alla mancata produzione in atti di detto provvedimento e della riferibilità nello stesso della linea limite della zona demaniale al livello altimetrico che il lago di Garda raggiunge in occasione delle piene ordinarie, dato che negli atti di causa era richiamato il D.M., come chiaramente risulta nello svolgimento del processo, tant’è che le ricorrenti ne avevano chiesto la disapplicazione, disposta dal primo Giudice, così come apparteneva alla stessa formulazione della domanda il collegamento tra il livello delle piene ordinarie e la linea limite fissata nel D.M. medesimo.

Ora, è vero che secondo la giurisprudenza di legittimità (vedi tra le ultime Sez. U. 29/4/2009, n. 9941) la natura di atti meramente amministrativi dei decreti ministeriali rende loro inapplicabile il principio “iura novit curia” di cui all’art. 113 c.p.c., da coordinarsi, sul piano ermeneutico, con il disposto dell’art. 1 preleggi (che non comprende, appunto, i detti decreti tra le fonti del diritto), con la conseguenza che, in assenza di qualsivoglia loro produzione nel corso del giudizio di merito, deve ritenersene inammissibile l’esibizione, ex art. 372 c.p.c., in sede di giudizio di legittimità, ed altresì inammissibile il ricorso per cassazione fondato, in punto di diritto, sulla loro pretesa applicazione (così le pronunce 12476/2002 e 8742/2001).

Ciò posto, è a riguardo sufficiente rilevare che nella specie, come sopra già detto, le stesse ricorrenti avevano fatto riferimento al d.m. chiedendone la disapplicazione, come poi ritenuto dal TRAP, nè vi era alcuna incertezza al riferimento fattuale della linea limite della zona demaniale ivi disposta alle piene ordinarie, tant’è che, in aderenza alla prospettazione delle ricorrenti, il TRAP aveva disposto C.T.U. per accertare la quota di piena ordinaria.

Nel resto, non assume alcuna valenza il mancato riferimento da parte della sentenza impugnata alle risultanze peritali, o ad altri rilievi tecnici, stante il carattere assorbente della ratio decidendi adottata (che rende irrilevante altresì la denuncia di ricorso da parte del Giudice alla scienza privata).

3. Col secondo motivo, la ricorrente fa valere errores in procedendo vel iudicando della sentenza impugnata, prospettando la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 2248 del 1865, art. 5, all. E, anche in rapporto all’art. 113 Cost. e all’art. 1, primo protocollo addizionale CEDU, nonchè degli artt. 822 e 943 c.c..

Sostiene la M. la violazione: del potere di sindacato incidentale e di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice ordinario, a nulla rilevando che si tratti di atti ad efficacia generale anzichè particolare; dell’ individuazione nel demanio lacuale, al pari di quello marittimo, dell’alveo e della spiaggia (alveo da individuarsi con riferimento alle piene ordinarie allo sbocco del lago), considerandosi rilevamenti costanti, idonei ad identificare la normale capacità del bacino idrografico; della individuazione della normale capacità di bacino alla quota superata o almeno eguagliata del 75% degli anni di una lunga serie di osservazioni.

Denuncia che deve riconoscersi in capo al giudice ordinario il potere di sindacato incidentale e di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo, e che la diversa interpretazione si porrebbe in violazione dell’art. 113 Cost., nella parte in cui ammette sempre la tutela dei diritti soggettivi, e dell’art. 1, primo protocollo addizionale CEDU, e che la pronuncia impugnata viola anche gli artt. 822 e 943 c.c., il cui combinato disposto consente di ritenere che il demanio pubblico si estende sino all’alveo dei laghi, oltre che della relativa spiaggia, solo fino al limite “che l’acqua copre quando essa è all’altezza dello sbocco”, con esclusione della “terra lungo la riva che l’acqua ricopre nei casi di piena straordinaria” (art. 943 c.c., comma 2).

Nel resto, la ricorrente riporta gli esiti della disposta CTU, che ha escluso l’incidenza nel caso di opere antropiche ed ha fissato il livello dell’alveo in quello di m. 65,05 slm.

Il motivo presenta profili di inammissibilità ed infondatezza.

Va in primis rilevato che i precedenti di questa Corte, relativi allo stesso lago di Garda, del 14/12/1981, n. 6591, del 6/6/1994, n. 5491, del 19/12/1994, n. 10908 e del 26/7/2002, n. 11101 (nel richiamo alla sentenza 10908/1994), riguardano casi in cui nel giudizio di merito era stato disapplicato il D.M. cit. sulla base di consulenze tecniche d’ufficio, che, in applicazione del principio, richiamato dall’art. 943 c.c., secondo cui l’alveo si estende al terreno coperto dalle acque nelle piene ordinarie, avevano fornito concreti elementi per la diversa determinazione dell’altezza idrometrica delimitante l’alveo naturale del lago.

Successivamente, pronunce del Giudice delle Acque hanno desunto dalla natura provvedimentale avente carattere generale del D.M. del 1948, emanato a seguito di un complesso iter procedimentale tecnico disposto dalla P.A., ed inteso a tutelare interessi generali, come lo stesso non possa essere disapplicato sulla base di un accertamento tecnico nelle singole fattispecie(in tal senso, le pronunce dello TSAP 19/9/2015, n. 215, richiamata quale precedente nella pronuncia oggetto del ricorso che qui interessa, e 19/12/2016, n. 342/2016).

La pronuncia dello TSAP 215/2015 è stata oggetto di ricorso per cassazione, respinto con la sentenza di queste Sezioni Unite del 22/6/2017, n. 15487.

Detta sentenza, esaminando il primo ed il secondo motivo di ricorso sovrapponibili, nel nucleo centrale, a quanto fatto valere dall’odierna ricorrente, ha ritenuto:

a) che il D.M. cit. ha determinato “in concreto” il livello raggiunto dalle acque allo sbocco del lago durante le piene ordinarie, come risulta dalla ricostruzione operata nella pronuncia Cass. Sez. U. 19/12/1994, n. 10908, in conformità al disposto ex art. 943 c.c., applicandone il principio con l’integrazione della nozione di piena ordinaria sulla base di dati tecnici;

b) che il Giudice d’appello aveva individuato l’area demaniale in considerazione della piena ordinaria, ritenendo adeguatamente svolta la misurazione in concreto della quota altimetrica del lago compiuta dal D.M., per cui, nella sostanza, col motivo di ricorso si intendeva aggredire inammissibilmente un accertamento di fatto;

c) che era intesa a proporre una diversa lettura delle risultanze processuali, e quindi inammissibile, la doglianza rivolta nei confronti del Giudice del merito, di essersi sottratto al dovere di pronunciarsi sulla domanda, sostenendo di non potere disapplicare il D.M. n. 1170 del 1948.

Ora, se va dato seguito a detto recente arresto quanto all’esclusione della violazione dell’art. 943 c.c., anche tenendosi conto della ricostruzione oeprata nella pronuncia 10908/1994, per avere la sentenza impugnata individuato il livello altimetrico che il lago di Garda raggiunge in occasione delle piene ordinarie come fissato in via generale dal D.M. n. 1170 del 1948, deve peraltro specificarsi e contenersi il riferimento al piano del fatto, con ciò pervenendosi altresì alla corretta individuazione della ratio decidendi della pronuncia impugnata, che, anche a ragione di un sintetico riferimento alla precedente sentenza 215/2015, è stata intesa dalla ricorrente come limitativa del potere di sindacato incidentale e di disapplicazione degli atti amministrativi da parte del giudice ordinario, a ragione dell’efficacia generale dell’atto.

Va a riguardo rilevato che la sentenza impugnata, nel richiamare il proprio precedente del 2015, e quindi il collegamento tra l’iter procedimentale tecnico e la fissazione della quota altimetrica del lago di Garda, ha affermato la non disapplicabilità del D.M. del 1948 alla stregua di un accertamento tecnico disposto nella singola causa, e quindi facendo valere il mero fatto del diverso, in tesi, livello altimetrico raggiunto in occasione delle piene ordinarie.

Nell’impianto complessivo della motivazione della pronuncia impugnata, il riferimento alla valenza generale del D.M. del 1948 non costituisce pertanto la ragione della non disapplicabilità, che consegue al motivo, tutto di merito, fatto valere dalla ricorrente, ma giustifica la specifica regolamentazione che consente alla P.A. di delimitare i bacini idrografici nazionali nell’esercizio del relativo potere discrezionale, che, come rilevato dalla sentenza del TRAP 215/2015, “può consistere anche nella scelta di non modificare la quota altimetrica del decreto del 1948, con il limite dell’eccesso di potere, sindacabile dal giudice della tutela degli interessi legittimi – alla luce di valori costituzionali – artt. 2, 9 e 42 in relazione alla tutela del paesaggio (S.U. 3665 del 2011), valutando le concrete condizioni geografiche ed idriche anche a seguito delle modifiche verificatesi nel corso degli anni, e determinando il nuovo assetto generale”.

3. Conclusivamente, va respinto il ricorso.

Le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso; condanna la ricorrente alle spese, liquidate in Euro 8000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2018

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