Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29388 del 23/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 23/12/2020, (ud. 21/10/2020, dep. 23/12/2020), n.29388

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 80/2014 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

B.C.;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria Regionale di Milano,

n. 98/50/2013, depositata il 31.05.2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 ottobre

2020 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria Regionale di Milano, con sentenza n. 98/50/2013, depositata il 31.05.2013, rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 16/02/12 della Commissione tributaria di Como che aveva accolto il ricorso proposto da B.C. avverso i due avvisi di accertamento relativi alle annualità 2006 e 2007 emessi nei suoi confronti dall’Ufficio che, con l’ausilio del redditometro, ricalcolava il reddito dichiarato dalla contribuente e lo sottoponeva a tassazione. Il giudice d’appello riteneva che la documentazione presentata dalla contribuente – relativa agli estratti conto e agli assegni emessi dal marito per l’acquisto dei due appartamenti (uno quale usufruttuaria ed uno quale nuda proprietaria) – nonostante non avesse rispettato il termine di 20 giorni liberi dalla data della prima udienza, fosse utilizzabile in quanto presentata nel termine di 20 giorni dalla data della seconda udienza di trattazione. Inoltre, il giudice d’appello evidenziava che l’Ufficio non aveva tenuto conto che la proprietà della contribuente fosse condivisa al 50% con il marito e che per l’acquisto dei diritti sugli immobili la contribuente si fosse avvalsa dell’accensione di un mutuo; peraltro, nella compagine familiare la contribuzione di ciascun coniuge doveva essere considerata in base alla propria disponibilità, non dovendo necessariamente essere pari al 50%.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate. 3.Resta intimata la contribuente nonostante la rituale notificazione.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, comma 1 ed in relazione al medesimo D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, nonchè in relazione al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38 ed all’art. 2967 c.c.” in quanto il giudice di appello ha ritenuto utilizzabili i documenti prodotti dalla contribuente in primo grado, in violazione del termine di 20 giorni liberi dalla data della prima udienza stabilito dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, comma 1, poichè presentati, comunque, su richiesta del giudice, entro 20 giorni dalla seconda udienza di trattazione. In realtà, però, tali documenti non sono in alcun modo utilizzabili non essendo stati depositati nel termine perentorio di venti giorni prima dell’udienza di trattazione, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32. Inoltre, il giudice di primo grado non aveva alcun potere di ordinare d’ufficio la produzione di documenti alle parti, essendo stato abrogato il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “omessa motivazione circa un fatto decisivo – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 “, in quanto la prima udienza di trattazione, svoltasi l’8-11-2011, è stata rinviata al 24-1-2012, ed il difensore della contribuente ha depositato i documenti con nota del 28-12-2011. Dal verbale di udienza emerge che la Commissione provinciale si è limitata a rinviare l’udienza, senza ordinare l’esibizione di documenti alle parti.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “omessa pronuncia (art. 112 c.p.c.) – 360 c.p.c., n. 4”, in quanto il giudice di appello non ha fornito risposto al motivo di appello articolato dalla Agenzia, per cui la contribuente non avrebbe potuto produrre in giudizio i documenti che non aveva inteso esibire in risposta al questionario, in relazione alla dimostrazione che le spese per gli incrementi patrimoniali erano state sostenute dal compagno.

3.1. Il terzo motivo, che deve essere esaminato preliminarmente, poichè la preclusione che deriva dall’omesso rispetto del disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, prevarrebbe sulla possibilità di produrre nuovi documenti in appello ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58.

3.2. Invero, anzitutto, si rileva che avendo il giudice di appello rigettato in toto il gravame proposto dalla Agenzia delle entrate, sul motivo articolato con l’appello vi è stato un rigetto implicito.

3.3. Inoltre, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, nella versione all’epoca vigente, prevede che “per l’adempimento dei loro compiti gli uffici delle imposte possono:… 2) invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti… 3) invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a esibire o trasmettere atti e documenti rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti…”.

Al comma 3 si prevede, poi, che ” le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta”.

Al comma 4, quindi, si dispone che “Le cause di inutilizzabilità previste dal comma 3 non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all’atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile”.

Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, poi, dispone che ” è fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”.

Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 8, all’epoca vigente, stabilisce che “le disposizioni di cui al comma 4 si applicano anche quando il contribuente non ha ottemperato agli inviti disposti dagli uffici ai sensi dell’art. 32, comma 1, nn. 2), 3) e 4)”.

Per il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, “l’ufficio, indipendentemente dalle disposizioni recate dall’art. 39, commi precedenti, può, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze quando il reddito complessivo netto accertabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato. A tal fine, con decreto del Ministro delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, sono stabilite le modalità in base alle quali l’ufficio può determinare induttivamente il reddito o il maggior reddito in relazione ad elementi indicativi di capacità contributiva individuati con lo stesso decreto, quando il reddito dichiarato non risulta congruo rispetto ai predetti elementi per due o più periodi di imposta”.

3.4. Per questa Corte, invero, l’omessa o intempestiva esibizione da parte del contribuente di dati e documenti in sede amministrativa è sanzionata con la preclusione processuale della loro allegazione e produzione in giudizio, che prevale rispetto al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, e che non può ritenersi sanata ove l’Amministrazione finanziaria non sollevi la relativa eccezione in sede di udienza di discussione della causa, atteso il carattere perentorio del termine di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 (Cass., sez. 5, 9 novembre 2016, n. 22745).

3.5. Deve, dunque, verificarsi che se sussistano i presupposti per l’applicazione della sanzione della inutilizzabilità di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 3, ai documenti prodotti dalla contribuente per la prima volta in appello,

3.6. Invero, l’omessa esibizione da parte del contribuente dei documenti in sede amministrativa determina l’inutilizzabilità della successiva produzione in sede contenziosa, prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, solo in presenza dello specifico presupposto, la cui prova incombe sull’Amministrazione, costituito dall’invito specifico e puntuale all’esibizione, accompagnato dall’avvertimento circa le conseguenze della sua mancata ottemperanza (Cass., 27 dicembre 2016, n. 27069; Cass., 10670/2018).

Nella specie, non vi è prova che vi sia stato l’ordine di esibizione in relazione alla documentazione delle somme che sarebbero giunte alla contribuente dal marito (o dal compagno) e che vi sia stato anche l’avvertimento in ordine alla mancata ottemperanza. In realtà, dagli atti causa risulta che vi è stata la mancata ottemperanza all’invito a comparire.

Peraltro, si ritiene (Cass., 2 dicembre 2015, n. 24503; Cass., 11 agosto 2016, n. 16960) che la dichiarazione del contribuente di non possedere libri, registri, scritture e documenti, specificamente richiestigli dall’Amministrazione finanziaria nel corso di un accesso, preclude, a norma del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5, la valutazione degli stessi in suo favore in sede amministrativa o contenziosa e rende legittimo l’accertamento induttivo, a condizione che sia, da un lato, non veritiera e, dall’altro, cosciente e volontaria e, cioè, dolosa, diretta ad impedire l’ispezione documentale (Cass., 9 novembre 2016, n. 22743; Cass., sez.un., 25 febbraio 2000, n. 45), mentre, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata e sistematica, il contribuente può sempre contrastare efficacemente i risultati dell’accertamento induttivo con la produzione in giudizio dei documenti che non era stato in grado di esibire in precedenza per causa a lui non imputabile (forza maggiore, fatto del terzo, caso fortuito).

La condotta del terzo, che ritarda nella consegna della documentazione non può certo essere imputata al contribuente, tranne l’ipotesi in cui il terzo sia, in realtà, un ausiliare del contribuente, ai sensi dell’art. 1228 c.c.. Del resto, in materia di Iva il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 53, penultimo comma, prevede che “se l’attestazione non è esibita e se il soggetto che l’ha rilasciata si oppone all’accesso o non esibisce in tutto o in parte le scritture, si applicano le disposizioni del comma 5”; il comma 5 dispone che “i libri, registri e scritture contabili di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa” (Cass., sez. 5, 28 marzo 2019, n. 8645).

Per questa Corte, a sezioni unite, infatti, a norma del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5, perchè la dichiarazione, resa dal contribuente nel corso di un accesso, di non possedere libri, registri, scritture e documenti (compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sia obbligatoria) richiestigli in esibizione determini la preclusione a che gli stessi possano essere presi in considerazione a suo favore ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa, occorre: la sua non veridicità o, più in generale, il suo concretarsi – in quanto diretta ad impedire l’ispezione del documento – in un sostanziale rifiuto di esibizione, accertabile con qualunque mezzo di prova e anche attraverso presunzioni; la coscienza e la volontà della dichiarazione stessa; il dolo, costituito dalla volontà del contribuente di impedire che, nel corso dell’accesso, possa essere effettuata l’ispezione del documento; pertanto non integrano i presupposti applicativi della preclusione le dichiarazioni (il cui contenuto corrisponda al vero) dell’indisponibilità del documento, non solo se la questa sia ascrivibile a caso fortuito o forza maggiore, ma anche se imputabile a colpa, quale ad esempio la negligenza e imperizia nella custodia e conservazione (Cass., sez.un., 25 febbraio 2000, n. 45; Cass., n. 8645/2019; Cass., 21 marzo 2018, n. 7011; Cass., 8 marzo 2017, n. 5914).

Occorre, dunque, una puntuale richiesta dei documenti da parte della amministrazione accompagnata dall’avvertimento in ordine alle conseguenze della mancata ottemperanza (Cass., n. 10670/18).

3.6. Nella specie, i documenti non erano neppure nella immediata disponibilità della contribuente.

3.7. Pertanto, da un lato, non v’è prova (gravante sulla Agenzia delle entrate) che vi sia stato uno specifico ordine di produrre entro un termine preciso specifici documenti, e dall’altro, la mancata produzione dei documenti non è dipesa da un rifiuto della contribuente, ma soltanto dalla necessità di acquisirli, da parte del marito (del compagno), da un istituto di credito, non sussistono i presupposti per ritenere perfezionata la fattispecie della inutilizzabilità dei documenti prodotti in giudizio ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 3, nella versione all’epoca vigente.

3.8. L’invio del questionario, ma anche l’invito a comparire, da parte dell’Amministrazione, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, per fornire dati, notizie e chiarimenti, assolve alla funzione di assicurare – in rispondenza ai canoni di lealtà, correttezza e collaborazione propri degli obblighi di solidarietà della materia tributaria – un dialogo preventivo tra fisco e contribuente per favorire la definizione delle reciproche posizioni, in modo da evitare l’instaurazione del contenzioso giudiziario, rimanendo legittimamente sanzionata l’omessa o intempestiva risposta con la preclusione amministrativa e processuale di allegazione di dati e documento non forniti in fase precontenziosa; a tal fine è necessario che l’amministrazione con l’invio del questionario, fissi un termine minimo per l’adempimento degli inviti o delle richieste, avvertendo delle conseguenze pregiudizievoli che derivano dalla inottemperanza alle stesse, senza che, in caso di mancato rispetto della suddetta sequenza procedimentale (la prova della cui compiuta realizzazione incombe sulla Amministrazione), sia invocabile la sanzione della inutilizzabilità della documentazione esibita dal contribuente solo con l’introduzione del processo tributario, trattandosi di obblighi di informativa espressione del medesimo principio di lealtà, il quale deve connotare – come emerge dagli artt. 6 e 10 dello Statuto del contribuente – l’azione dell’Ufficio (Cass., sez. 5, 22 giugno 2018, n. 16548; Cass., sez. 5, 27 settembre 2013, n. 22126; cass., sez.5, 14 maggi 2014, n. 10489).

4.1. I primi due motivi, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.

4.2. Si premette anche che la sentenza della Commissione regionale è stata depositata il 31-5-2013, sicchè il vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è delineato secondo le modifiche di cui al D.L. n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze pubblicate a decorrere dall’11-9-2012. Tuttavia, benchè il vizio di motivazione sia articolato in rubrica secondo la vecchia disciplina dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel corpo del motivo si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo, costituito dal verbale di udienza di primo grado, appositamente trascritto, nel quale si rileva che il giudice di prime cure si è limitato al rinvio della prima udienza di trattazione, dall’8-11-2011 al 24-12012, senza ordinare l’esibizione o la produzione di documenti alle parti.

4.3. E’ pacifico, quindi, che la contribuente, pur non avendo depositato i documenti nel termine perentorio di venti giorni prima dell’udienza di trattazione ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, ha però provveduto alla produzione dei documenti nel corso del giudizio di primo grado, con nota del 28-12-2011, inserendoli nel fascicolo di parte di primo grado della contribuente.

4.4. Invero, il processo tributario si distingue nettamente dal processo civile ordinario di cognizione, in quanto i fascicoli di parte sono inseriti in modo definitivo nel fascicolo d’ufficio, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 2, sino alla sentenza passata in giudicato. Le parti, quindi, non hanno, come nel giudizio civile, la possibilità di ritirare i rispettivi fascicoli, con autorizzazione del giudice, oppure senza autorizzazione in sede di precisazione delle conclusioni, ai sensi degli artt. 168 e 169 c.p.c., dovendoli restituire, al più tardi, al momento della precisazione delle conclusioni.

Al contrario, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 25, comma 2, dispone che “I fascicoli di parte restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono ad esse restituiti al termine del processo. Le parti possono ottenere copia autentica degli atti e dei documenti contenuti nei fascicoli di parte e d’ufficio”. Pertanto, nel processo tributario le parti hanno solo il potere di ottenere la copia autentica degli atti contenuti nei fascicoli di parte, ma mai la restituzione dei fascicoli in originale, se non dopo il passaggio in giudicato della decisione.

Pertanto, i documenti (assegni emessi dal compagno della contribuente) sono stati prodotti tardivamente oltre il termine di venti giorni di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, ma, ciononostante, proprio per l’inscindibilità dei fascicoli di parte con il fascicolo d’ufficio, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 25, comma 2, allora tali documenti sono entrati automaticamente anche nel procedimento di appello (con il deposito del fascicolo di primo grado in sede di gravame al momento della costituzione) e ben potevano essere utilizzati dalla Commissione Regionale ai fini del decidere.

Per questa Corte, infatti, in tema di contenzioso tributario, il documento irritualmente prodotto in primo grado può essere nuovamente prodotto in secondo grado nel rispetto delle modalità di produzione previste dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 32 ed in forma analoga nell’art. 87 disp. att. c.p.c.; tuttavia, ove il documento sia inserito nel fascicolo di parte di primo grado e questo sia depositato all’atto della costituzione unitamente al fascicolo di secondo grado, si deve ritenere raggiunta – ancorchè le modalità della produzione non corrispondano a quelle previste dalla legge – la finalità di mettere il documento a disposizione della controparte, in modo da consentirle l’esercizio del diritto di difesa, onde l’inosservanza delle modalità di produzione documentale deve ritenersi sanata (Cass., sez. 5, 7 marzo 2018, n. 5429; Cass., 15 ottobre 2010, n. 21309; Cass., 30 novembre 2016, n. 24398).

Del resto, questa Corte, con una successiva pronuncia (Cass., 30 novembre 2016, n. 24398), ha seguito l’orientamento consolidato, premurandosi di aggiungere che “tale principio, cui il Collegio intende dare continuità, si attaglia alla fattispecie in esame dal momento che non è specificamente contestato che la documentazione in oggetto fosse inserita nel fascicolo di parte di primo grado e che questo fosse stato depositato all’atto della costituzione unitamente al fascicolo di secondo grado”.

4.5. Pertanto, il processo tributario, sul punto, si differenzia in modo netto dal processo civile ordinario di cognizione. Invero, nel giudizio di appello ordinario non vale il principio di “immanenza” delle prove, sicchè la parte che ha prodotto un documento nel giudizio di primo grado, deve provvedere a depositarlo di nuovo anche nel giudizio di appello.

Per questa Corte, infatti, il fascicolo di parte che l’attore ed il convenuto debbono depositare nel costituirsi in giudizio dopo avervi inserito, tra l’altro, i documenti offerti in comunicazione, ai sensi dell’art. 165 c.p.c., comma 1 e dell’art. 166 c.p.c., applicabili anche in appello a norma dell’art. 347 dello stesso codice, pur essendo custodito, a norma dell’art. 72 delle disp. att. c.p.c., con il fascicolo di ufficio formato dal cancelliere (art. 168 c.p.c.), conserva, rispetto a questo, una distinta funzione ed una propria autonomia che ne impedisce l’allegazione di ufficio nel giudizio di secondo grado ove, come in quello di primo grado, la produzione del fascicolo di parte presuppone la costituzione in giudizio di questa; ne consegue che il giudice di appello non può tenere conto dei documenti del fascicolo della parte, ancorchè sia stato trasmesso dal cancelliere del giudice di primo grado con il fascicolo di ufficio, ove detta parte, già presente nel giudizio di primo grado, non si sia costituita in quello di appello (Cass., 8 gennaio 2007, n. 78).

Inoltre, il nuovo disposto dell’art. 345 c.p.c. impedisce alle parti la produzione di nuovi documenti.

4.6. Al contrario, nel giudizio di appello, dinanzi alle commissioni tributarie regionali, le parti hanno facoltà, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, di depositare nuovi documenti, a nulla rilevando la eventuale irritualità della loro produzione in primo grado (Cass., 11 novembre 2011, n. 23616).

Per questa Corte, infatti, in tema di contenzioso tributario, il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 58, fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti consentiti dall’art. 345 c.p.c., ma tale attività processuale va esercitata – stante il richiamo operato dal cit. D.Lgs., art. 61, alle norme relative al giudizio di primo grado – entro il termine previsto dallo stesso decreto, art. 32, comma 1, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza con l’osservanza delle formalità di cui all’art. 24, comma 1, dovendo, peraltro, tale termine ritenersi, anche in assenza di espressa previsione legislativa, di natura perentoria, e quindi sanzionato con la decadenza, per lo scopo che persegue e la funzione (rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio) che adempie (Cass., 15 gennaio 2014, n. 655; Cass., 24 febbraio 2015, n. 3661).

Tuttavia, per questa Corte, a Sezioni Unite (Cass., sez.un, 3 novembre 2011, n. 22726) i fascicoli di parte restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono restituiti alle parti al termine del processo, dove l’espressione “termine del processo” va intesa come momento del suo passaggio in giudicato.

Pertanto, al ricorrente non può farsi carico neppure della mancata produzione della copia degli atti e documenti contenuti nel fascicolo di merito della controparte, essendo il meccanismo istituzionale di “acquisizione” connotato da una regola particolare.

Si è precisato, ai fini dell’applicazione del disposto dell’art. 369 c.p.c., comma 3, allora, che nel processo tributario non è applicabile “il principio enunciato da queste Sezioni Unite 7161/2010 e 28547/2008, con le quali s’era affermato che se il documento risulti prodotto nelle fasi di merito dalla controparte, è necessario che il ricorrente…cautelativamente…produca in copia il documento stesso…”, per l’ipotesi che la controparte non si costituisca nel giudizio di legittimità o si costituisca senza produrre il fascicolo o producendolo senza il documento.

Pertanto, nel ricorso avverso le sentenze delle commissioni tributarie, la indisponibilità dei fascicoli delle parti, avvinti ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 25, comma 2, comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata della produzione del proprio fascicolo, contenuto nel fascicolo d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4. Neppure è tenuta la parte ricorrente, per la medesima ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte.

4.7. Pertanto, correttamente il giudice di appello ha utilizzato per la decisione i documenti prodotti dalla contribuente, seppure tardivamente, nel corso del giudizio di primo grado, ed inseriti nel suo fascicolo di parte.

4.8. Quanto al potere del giudice di ordinare alle parti l’esibizione di documenti, emerge dal verbale dell’udienza di primo grado trascritta in atti, che nessun ordine in tal senso è giunto dalla Commissione provinciale.

4.9. Sul punto si precisa che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, al comma 3, fino alla sua abrogazione da parte del D.L. n. 203 del 2005, art. 3 bis, comma 5, convertito in L. n. 248 del 2005, la facoltà per la commissione tributaria di ordinare, in qualsiasi momento, il deposito documenti necessari ai fini della decisione”.

4.10. Questa Corte ha, quindi, affermato che, a seguito dell’abrogazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 3, al giudice di appello non è più consentito ordinare il deposito di documenti, dovendo, invece, essergli riconosciuto il potere di ordinarne “ex officio” l’esibizione ai sensi dell’art. 210 c.p.c. (Cass., 27 dicembre 2018, n. 33506; Cass., 11 giugno 2014, n. 13152). Infatti, si è rilevato che le “nuove prove” che il giudice di appello può disporre ex officio, sono quelle stesse che il giudice di primo grado può ordinare ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, non potendosi ritenere che il giudice di secondo grado abbia poteri istruttori ufficiosi diversi e maggiori rispetto a quelli della Commissione provinciale. Pertanto, dopo l’abrogazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3, nemmeno al giudice di appello è consentito di ordinare il deposito di documenti sollevando la parte dall’onere della prova, residuando soltanto il potere di ordinare l’esibizione ex officio di cui all’art. 210 c.p.c..

4.11. Si è, quindi, precisato che, a seguito dell’abrogazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3, al giudice di appello non è consentito ordinare il deposito di documenti nella materiale disponibilità di una delle parti che non abbia tempestivamente assolto al proprio onere della prova, non potendosi considerare indispensabili, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, quelle prove che non siano state prodotti in giudizio per inadempienza (Cass., 18 dicembre 2015, n. 25464; Cass., 22 giugno 2018, n. 16528). L’unica ipotesi in cui è possibile disporre l’esibizione di documenti d’ufficio ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 1, è quando sussista il presupposto dell’impossibilità di acquisire la prova altrimenti, come nel caso in cui una parte non possa conseguire i documenti in possesso dell’altra (Cass., sez. V, 8 luglio 2015, n. 14244), in situazioni di oggettiva incertezza, in funzione integrativa degli elementi istruttori in atti (Cass., sez. 5, 19 giugno 2018, n. 16171). Al contrario, proprio per la giurisprudenza formatasi per l’applicazione dell’art. 210 c.p.c., non può essere ordinata l’esibizione in giudizio di un documento di una parte o di un terzo, quando l’interessato può di propria iniziativa acquisirne una copia e produrla in causa (Cass., sez. 3, 6 ottobre 2005, n. 19475; Cass., sez. 2, 11 giugno 2013, n. 14656); nè la Guardia di finanza, in quanto soggetto che agisce su delega della Amministrazione finanziaria, può essere destinataria da parte del giudice di una richiesta di documenti ex art. 213 c.p.c., atteso che la stessa può essere disposta solo nei confronti di un soggetto terzo e non anche della parte pubblica in causa (Cass., sez., 5, 30 aprile 2019, n. 11432; per Cass., sez. 5, 22 giugno 2010, n. 14966, si consente l’ordine di acquisizione ex art. 213 c.p.c. rivolto ad altri uffici della pubblica amministrazione).

5. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “omessa motivazione circa un fatto decisivo – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,” in quanto il giudice di appello ha omesso di rilevare se la contribuente avesse dimostrato il “nesso eziologico” tra le disponibilità del compagno della stessa e gli incrementi patrimoniali. Dalla motivazione della Commissione regionale non si comprende l’attinenza degli esborsi del compagno della contribuente agli incrementi patrimoniali.

6. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “art. 360 c.p.c., n. 4, violazione art. 132 c.p.c.”, in quanto è del tutto assente la motivazione.

7. Con il sesto motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, ed all’art. 2697 c.c.”, in quanto il giudice di appello, al fine di considerare come assolto l’onere della prova contraria da parte della contribuente, avrebbe dovuto indicare puntualmente le somme a disposizione del compagno, indicando, poi, quali di esse sarebbero state utilizzate per il sostentamento degli investimenti, individuando il nesso eziologico tra le disponibilità e le spese.

8. Il quinto motivo, che va esaminato prioritariamente, è infondato.

8.1. La motivazione del giudice di appello è graficamente esistente e, pur essendo poco esaustiva, non può essere considerata come meramente apparente, facendo comunque riferimento ad elementi specifici della controversia, come la stipulazione di un mutuo da parte della contribuente e la comproprietà degli immobili con il “marito” o compagno.

9. I motivi quarto e sesto, che vanno trattati congiuntamente per ragioni di connessione, sono fondati.

9.1. Invero, l’oggetto della prova contraria a carico del contribuente riguarda, dunque, da un canto, la disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte) e, dall’altro, l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso. Come questa Corte ha avuto modo di chiarire (Cass., 20 gennaio 2017, n. 1510, Cass. 16 luglio 2015, n. 14885, Cass. 18 aprile 2014, n. 8995, Cass. 26 novembre 2014, n. 25104), pur non prevedendosi esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi siano stati utilizzati per coprire le spese contestate, si chiede tuttavia espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere). Lo specifico riferimento alla prova (risultante da idonea documentazione) della entità di tali eventuali redditi e della “durata” del relativo possesso, va letto, quindi, nel senso che la norma intende opportunamente ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità dei redditi medesimi al fine di ricollegarvi la maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente, escludendo quindi che possano utilizzarsi per finalità non considerate in tema di accertamento sintetico, come per un ulteriore investimento finanziario. In tale ultima ipotesi, infatti, tali ulteriori redditi non sarebbero utili a giustificare le spese o il tenore di vita accertati, che dovrebbero ascriversi, quindi, a redditi non dichiarati.

9.2. Va chiarito, però, che la prova di cui è onerato il contribuente non è tipizzata, sicchè può essere data con qualsiasi mezzo idoneo a dimostrare la provenienza non reddituale dell’elemento accertato dal fisco, e la durata del relativo possesso, tanto che neppure rileva l’eventuale nullità dell’atto dal punto di vista civilistico. Ed infatti, proprio in base a tale premessa, nella giurisprudenza di questa Corte è stata ritenuta prova idonea e sufficiente la documentazione bancaria rappresentativa della “sequenza temporale dell’operazione di accredito e poi di quella di addebito degli assegni circolari utilizzati per l’acquisto” (Cass., 22 marzo 2017, n. 7258); o l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari intestati al contribuente in grado di dimostrare l’entità e la durata del possesso dei redditi, non il loro semplice “transito” nella di lui disponibilità del contribuente (Cass., 12214/2017; vedi anche Cass., 16 maggio 2018, n. 12026 e Cass., 23 marzo 2018, n. 7389).

9.3. Facendo corretta applicazione di tali principi di elaborazione giurisprudenziale di legittimità, la Commissione regionale, nella fattispecie in esame, avrebbe dovuto indicare l’esistenza di elementi idonei a dimostrare che l’entità e la durata del possesso dei redditi da parte del compagno (o marito) della contribuente. Al contrario, il giudice di appello si è limitato ad affermare che “i documenti allegati” attestano “quanto sostenuto dalla contribuente e quanto deciso dai giudici di primo grado”.

10. Inoltre, per questa Corte, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, con riferimento alla determinazione sintetica del reddito complessivo netto in base ai coefficienti presuntivi individuati dai decreti ministeriali previsti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38 (cosiddetti redditometri), la prova contraria ivi ammessa, richiedendo la dimostrazione documentale della sussistenza e del possesso, da parte del contribuente, di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, implica un riferimento alla complessiva posizione reddituale dell’intero suo nucleo familiare, costituito dai coniugi conviventi e dai figli, soprattutto minori, atteso che la presunzione del loro concorso alla produzione del reddito trova fondamento, ai fini dell’accertamento suddetto, nel vincolo che li lega, e non già nel mero fatto della convivenza, così escludendosi la desumibilità da quest’ultima del possesso di redditi prodotti da un parente diverso o da un affine, in quanto tale estraneo al nucleo familiare (Cass., 7 marzo 2014, n. 5365; Cass., 701/2017 in motivazione, in cui si sottolinea che non v’è consequenzialità tra la convivenza e l’imputazione al convivente della capacità contributiva di beni riferibili alla contribuente; Cass., 1332/2016, ove si afferma che, in caso di convivenza, è necessaria anche la prova della disponibilità delle somme, ossia del transito “endofamiliare” delle stesse; Cass., 21224/2006).

11. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

Accoglie i motivi quarto e sesto di ricorso; rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 21 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2020

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