Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29367 del 28/12/2011

Cassazione civile sez. II, 28/12/2011, (ud. 02/12/2011, dep. 28/12/2011), n.29367

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.M., rappresentata e difesa per procura in calce al

ricorso dall’Avvocato Brami Ferdinando, elettivamente domiciliata

presso lo studio dell’Avvocato Antonio D’Agostino in Roma, via Carlo

Mirabello n. 6.

– ricorrente –

contro

O.G., residente in (OMISSIS), rappresentato e difeso

per procura in calce al controricorso dall’Avvocato Benedetto Dini

Dino, elettivamente domiciliato presso lo studio del dott. Stefano

Cortesini in Roma, via M. Tamburini n. 8.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1620 della Corte di appello di Firenze,

depositata l’8 novembre 2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 2

dicembre 2011 dal consigliere relatore dott. Mario Bertuzzi;

udite le difese svolte dall’Avv. Francesco Bauro, per delega

dell’Avv. Ferdinando Brami, per la ricorrente;

udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale dott. RUSSO Libertino Alberto, che ha chiesto che il ricorso

sia dichiarato inammissibile o rigettato.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

G.M., premesso di avere acquistato da O. G. un appezzamento di terreno sito in (OMISSIS) e che, avendo provveduto a recintarlo, aveva subito un’azione possessoria da parte di alcuni vicini, S.D. e Go.Ev., per la riapertura del passaggio da loro utilizzato per accedere ad una sorgente sita all’interno della sua proprietà, dalla quale partivano alcune tubature che portavano l’acqua ai fondi limitrofi, convenne in giudizio l’ O. chiedendo che, previo accertamento dell’esistenza a carico del fondo compravenduto di una servitù di acquedotto, questi fosse condannato al risarcimento dei danni.

Il Pretore di Arezzo rigettò la domanda, rilevando che la richiesta di accertamento della servitù, non essendo stata proposta dal soggetto titolare del diritto reale nè nei confronti di quello passivo, era inammissibile. Interposto gravame da parte dell’attrice, con sentenza n. 1620 dell’8 novembre 2005 la Corte di appello di Firenze confermò, sia pure sulla base di diverse argomentazioni, la statuizione di rigetto della pronuncia di primo grado. In particolare, la Corte territoriale affermò che la domanda di accertamento della servitù esistente sul fondo venduto era ammissibile, risolvendosi in un accertamento incidenter tantum, e che l’azione proposta andava inquadrata nell’ambito della previsione di cui all’art. 1489 cod. civ., ma che essa doveva essere respinta per non avere la parte fornito prova dell’effettiva sussistenza della servitù, non essendo sufficiente a tal fine il fatto che sul fondo esistessero opere permanenti per l’esercizio della servitù, nè che fosse stato introdotto, da parte di terzi, un giudizio possessorio a tutela della servitù medesima, che peraltro si era concluso con la declaratoria di cessazione della materia del contendere.

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 22 marzo 2006, ricorre G.M., affidandosi a tre motivi.

Resiste con controricorso O.G..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso denunzia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, assumendo che la Corte fiorentina ha omesso di valutare le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, che aveva accertato l’esistenza di fatto di una servitù di elettrodotto a carico del fondo compravenduto, che essendosi protratta nel tempo, era stata usucapita da parte del terzo proprietario del fondo dominante. La decisione impugnata è incorsa in contraddizione, atteso che da un lato ha riconosciuto la presenza sul fondo dell’attrice di opere necessarie e stabili all’esercizio della servitù di acquedotto, dall’altra ha affermato che la parte istante non aveva provato la sussistenza del relativo diritto in re aliena.

Il secondo motivo di ricorso denunzia falsa applicazione di norme di diritto, assumendo che la Corte territoriale ha errato nell’inquadrare e qualificare la domanda dell’attrice nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 1489 cod. civ.. Ed invero la G. non aveva chiesto nè la risoluzione del contratto nè la riduzione del prezzo, ma il risarcimento dei danni per non avere la parte venditrice adempiuto allo specifico obbligo assunto in contratto con il quale aveva garantito che il bene venduto non era assoggettato a pesi e oneri reali, sicchè la sua responsabilità a rifondere i danni derivanti dal pregiudizio esistente sul bene avrebbe dovuto essere ricondotta alla norma generale in materia di inadempimento (art. 1218 cod. civ.) ed alle disposizioni particolari in tema di responsabilità del venditore per vizi e difetti della cosa (art. 1494 cod. civ.). Con l’ulteriore conseguenza che l’attrice non aveva nessun onere di provare l’effettiva esistenza di una servitù di elettrodotto, ma solo di dimostrare l’esistenza di fatto di un diritto apparente di servitù, spettando alla controparte dimostrare di avere ignorato senza colpa l’esistenza degli oneri sulla cosa venduta.

Con altro motivo di ricorso, denominato “Il motivo processuale”, la ricorrente lamenta la violazione del principio di cui all’art. 112 cod. proc. civ., assumendo che, inquadrando la domanda proposta nella fattispecie di cui all’art. 1489 cod. civ., il giudice di appello è anche incorso nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, travisando il contenuto della pretesa dell’attrice e quindi pronunciandosi su una domanda diversa da quella effettivamente proposta in giudizio.

I motivi, anche per come risultano formulati, in quanto privi di una compiuta delimitazione delle censure tra l’uno e l’altro, vanno esaminati congiuntamente. Va premesso che la Corte di merito ha inquadrato l’azione proposta dall’attrice nell’ambito della fattispecie prevista e disciplinata dall’art. 1489 cod. civ., la quale prevede la responsabilità del venditore se la cosa venduta è gravata da oneri o diritti reali o personali non apparenti che ne diminuiscono il libero godimento, se essi non sono stati indicati in contratto ed il compratore non ne era a conoscenza, precisando che in tal caso il compratore può agire per la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo “secondo la disposizione di cui all’art. 1480”.

Il ricorso contesta tale qualificazione della domanda, assumendo che l’attrice aveva proposto richiesta di risarcimento del danno a mente della regola generale posta dall’art. 1218 cod. civ. e non, ai sensi dell’art. 1489, la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo. Aggiunge, inoltre, che del danno la parte venditrice avrebbe dovuto rispondere ai sensi dell’art. 1494 cod. civ., che ha riguardo alla responsabilità del venditore per i vizi della cosa venduta. Il richiamo a tale ultima disposizione, in particolare, appare funzionale, nel percorso argomentativo della ricorrente, a sostenere che nel caso di specie ella non avrebbe dovuto, così come ritenuto dal giudice a quo, fornire la prova rigorosa dello ius in re aliena, ma soltanto di un fatto, quale è appunto il vizio o difetto del bene, consistente nell’esercizio materiale da parte di un terzo di un’attività sul proprio fondo corrispondente ad un peso, in grado di pregiudicarne il libero e pieno godimento del bene.

Queste argomentazioni non meritano di essere condivise e sono inficiate da una non corretta interpretazione degli articoli del codice civile in esse richiamati. Al riguardo va invero precisato che l’attrice, con la propria domanda, come risulta dall’esposizione dei fatti narrati dalla sentenza e dallo stesso ricorso, ha lamentato la presenza sul terreno acquistato di un diritto di servitù di elettrodotto a favore di un fondo vicino. La domanda è stata pertanto correttamente inquadrata nell’ambito della fattispecie prevista dall’art. 1489 cod. civ., che, come sopra precisato, disciplina proprio il caso in cui la cosa venduta risulti gravata da diritti reali. Nessun pregio ha invece il richiamo all’art. 1494 cod. civ., che ammette il venditore a chiedere il risarcimento del danno per i vizi della cosa venduta. I vizi della cosa consistono infatti in un difetto materiale o funzionale del bene, situazione affatto diversa da quella in cui la cosa sia gravata da diritti, reali o personali, altrui. Quest’ultima ipotesi, come si è detto, è disciplinata specificatamente dall’art. 1489 e ciò è sufficiente ad escludere l’applicabilità della richiamata disposizione di cui all’art. 1494 cod. civ..

Nè ad una conclusione diversa può giungersi osservando, come fa il ricorso, che l’attrice, avendo chiesto il risarcimento del danno, si era volontariamente e consapevolmente posta al di fuori dell’ambito di efficacia di tale disposizione, atteso che essa contempla, quali rimedi, le sole domande di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo. L’argomentazione non ha pregio in quanto la domanda di risarcimento del danno non è affatto incompatibile con l’applicazione della disposizione in questione, ma anzi da essa espressamente prevista come forma di tutela. Sul punto questa Corte ha invero già avuto modo di precisare che, nell’ipotesi di vendita di cosa gravata da diritti o da oneri ai sensi dell’art. 1489 cod. civ., l’acquirente ha diritto, oltre alla risoluzione del contratto o alla riduzione del prezzo, secondo quanto stabilito dall’art. 1480 cod. civ., anche al risarcimento del danno, fondato sulle norme generali degli artt. 1218 e 1223 cod. civ., in base al richiamo di quest’ultima disposizione da parte dell’art. 1479 cod. civ., a sua volta richiamato dall’art. 1480 cod. civ., cui rinvia ancora il citato art. 1489 (Cass. n. 4786 del 2007; Cass. n. 16053 del 2002).

Ciò posto, appare tuttavia evidente che, a mente dell’art. 1489, anche la richiesta di risarcimento del danno, al pari di quella diretta ad ottenere la risoluzione o la riduzione del prezzo, resti ancorata ai presupposti di fatto e di diritto richiesti dalla legge per poter affermare la responsabilità del venditore. Occorre, in particolare, che il bene compravenduto sia effettivamente gravato da un diritto reale da parte di un terzo; non è pertanto sufficiente una situazione di fatto in astratto corrispondente ad un diritto altrui, ma è necessario che ricorrano le condizioni per poter affermare l’effettiva esistenza di esso. Ciò perchè il venditore può essere chiamato a rispondere di pretese giuridiche che un terzo ritenga di poter vantare sul bene, non già a pretese di fatto, a cui il compratore a sua volta, in quanto titolare del bene, è perfettamente in grado di reagire. La delimitazione della responsabilità del venditore con riferimento ai soli casi in cui i terzi pretendano di vantare diritti nei confronti del bene è coerente, da un lato, con l’oggetto giuridico del trasferimento (il diritto di piena proprietà del bene, privo di vincoli e diritti altrui non apparenti e non dichiarati nell’atto), dall’altro con la situazione di possesso che, per effetto dello stesso, viene trasferita all’acquirente, in forza della quale questi può reagire a molestie di fatto; quest’ultima facoltà, del resto, è dalla legge riconosciuta anche nella diversa ipotesi in cui il contratto trasferisca la mera detenzione, sia pure qualificata, del bene, escludendosi anche in questo caso che il concedente possa rispondere delle molestie di fatto dei terzi (art. 1585 cod. civ.). Ne deriva che la responsabilità, anche solo risarcitoria, del venditore, ai sensi dell’art. 1489 cod. civ., richiede la dimostrazione dell’esistenza di un diritto altrui sul bene, prova che non può che essere posta a carico di chi da tale situazione ritenga di far discendere propri diritti (Cass. n. 276 del 1979).

Sul punto la Corte di appello ha affermato che l’attrice non aveva assolto al proprio onere probatorio, non potendo la prova richiesta rinvenirsi nè nella presenza di opere destinate all’esercizio della servitù, nè nel procedimento possessorio intentato dal terzo nei confronti dell’attrice; nel primo caso, perchè le suddette opere non costituiscono prova del diritto di servitù, ben potendo essere state realizzate in assenza di tale diritto e quindi illegittimamente; nel secondo caso, attesa la natura stessa del giudizio possessorio, che tutela situazioni di fatto e non di diritto, e considerato anche il suo esito nella vicenda de qua, essendo esso terminato senza un pronuncia sul ricorso, ma con la cessazione della materia del contendere.

In entrambi i casi la motivazione è assolutamente condivisibile, dovendosi ribadire, da un lato, che la prova deve consistere nell’esistenza del diritto altrui e non in una mera situazione di fatto in astratto corrispondente ad esso e, dall’altro, che la pendenza d’un giudizio possessorio, atteso il suo ambito di tutela, è di per sè insufficiente a tale fine, come si ricava del resto facilmente dal disposto dell’art. 1485 cod. civ. (richiamato dall’art. 1489), che opera un chiaro riferimento alla necessità d’un giudizio petitorio e riconosce, in tale ambito, una inderogabile garanzia in favore del venditore al fine di assicurane la sua partecipazione nel giudizio (Cass. n. 3309 del 1979).

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza, della ricorrente.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 2.700, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2011

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