Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29363 del 14/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 14/11/2018, (ud. 16/05/2018, dep. 14/11/2018), n.29363

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – est. Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12139-2016 proposto da:

M.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ODERISI DA GUBBIO

31, presso lo studio dell’avvocato ASSUNTA BORZACCHIELLO,

rappresentato e difeso dall’avvocato MICHELE TRUPPI, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS),

in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati

ANTONIETTA CORETTI, VINCENZO STUMPO, VINCENZO TRIOLO, giusta delega

in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2189/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 11/11/2015 R.G.N. 5077/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/05/2018 dal Consigliere Dott. ROBERTO RIVERSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ Stefano, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli avvocati VINCENZO STUMPO e ANTONIETTA CORETTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1) La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 2189/2015, ha accolto l’appello proposto dall’INPS avverso la sentenza del Tribunale G.L. di Benevento che, ritenendo irrilevante la cessione del ramo d’azienda intervenuta tra il (OMISSIS) ed E.M.C. Colosio s.p.a. con conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro di M.L. con la cessionaria, ex art. 2112 c.c., aveva accolto la domanda del lavoratore tesa ad ottenere la liquidazione da parte del Fondo di Garanzia dei crediti vantati a titolo di t.f.r. per la quota maturata nei confronti della cedente sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, dopo che la domanda di intervento avanzata nei confronti del Fondo all’esito dell’ammissione al passivo del relativo credito, era stata rigettata in ragione del fatto che il rapporto di lavoro del M. non era cessato ma era proseguito, prima della sottoposizione alla procedura della liquidazione coatta amministrativa, a seguito della cessione del ramo d’azienda.

2) La Corte territoriale, ritenendo che, nel caso di specie, non potesse ritenersi integrato alcun accordo, intercorso con le organizzazioni sindacali interessate ai sensi della L. n. 428 del 1990, art. 47 validamente derogatorio della disciplina di garanzia sulla prosecuzione del rapporto di lavoro a seguito della cessazione del rapporto ai sensi dell’art. 2112 c.c., ha rigettato la domanda nei confronti dell’Inps quale gestore del Fondo di garanzia in difetto del presupposto consistente nello stato di insolvenza del datore di lavoro.

3) Avverso tale sentenza ricorre per cassazione M.L. sulla base di tre motivi.

4) Resiste l’INPS con controricorso illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1) Con il primo motivo di ricorso M.L. lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), che ravvisa nella circostanza che l’intervento del Fondo di garanzia era stato riferito al pagamento della quota residua del TFR relativo al periodo compreso tra l’assunzione (22 novembre 1972) e la sottoposizione alla liquidazione coatta amministrativa (19 giugno 1996), con autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’originario datore di lavoro ((OMISSIS)). Tale credito aveva formato oggetto della domanda di insinuazione al passivo ed era stato inserito nello stato passivo, giusta sentenza del Tribunale fallimentare di Benevento n. 408 del 2002, in conformità allo stato passivo depositato l'(OMISSIS). La quota di t.f.r. maturata da tale data al 18 ottobre 2005, momento in cui avvenne la cessione del ramo d’azienda presso il quale era addetto il M., ed il successivo periodo sino al 31 dicembre 2006 era stato invece corrisposto da E.M.C. Colosio s.p.a.

2) Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2112 c.c. che ravvisa nella erronea interpretazione che la Corte territoriale aveva dato di tale norma laddove per effetto della stessa era stato ritenuto che potesse trasferirsi al cessionario anche il t.f.r. oggetto dell’insinuazione al passivo e, dunque, congelato al medesimo passivo della liquidazione.

3) Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 297 del 1982, art. 2 dal momento che, essendosi verificata la cessazione del rapporto di lavoro e l’insolvenza del datore di lavoro, era certo il diritto dell’ assicurato a percepire dal “Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto” gestito dall’Inps, anche la quota di T.F.R. maturata per lo svolgimento di attività lavorativa in favore del datore di lavoro cedente, poi sottoposto alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, per essere stato il relativo credito del lavoratore ammesso al passivo della procedura concorsuale, nonostante la responsabilità solidale ex lege del datore di lavoro cessionario in bonis.

4) I tre motivi, strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente e sono infondati. In fatto, è opportuno ricordare le vicende circolatorie che – come emerge pacificamente dagli atti di parte – hanno interessato l’azienda presso cui M.L. ha prestato la propria attività di lavoro. In data 22 novembre 1972 il rapporto di lavoro ha avuto inizio con il (OMISSIS); successivamente, lo stesso rapporto è proseguito con gli organi dell’esercizio provvisorio della liquidazione coatta dichiarata il 17 giugno 1996; il 18 ottobre 2005 il ramo d’azienda del tabacchificio ove lavorava il M., è stato venduto ad E.M.C. Colosio s.p.a. ed il rapporto di lavoro è continuato sino al 31 dicembre 2006, quando il rapporto è cessato.

5) Il lavoratore, ottenuta l’ammissione al passivo della domanda relativa agli importi del t.f.r. maturati, ha chiesto l’intervento del Fondo di garanzia presso l’INPS per ottenere il pagamento della quota di t.f.r. maturato alle dipendenze della cedente soggetta a liquidazione coatta amministrativa ed a tale domanda è stato opposto un rifiuto motivato con riferimento alla circostanza che con il trasferimento del rapporto di lavoro, avvenuto il 19.10.2005, per effetto del contratto di cessione d’azienda, il cessionario, in bonis, era l’unico obbligato a corrispondere il t.f.r. anche per la parte relativa al cedente.

6) La Corte d’appello di Napoli, con la sentenza impugnata, ha ritenuto che, dalla effettiva ricostruzione della vicenda circolatoria intercorsa tra la gestione provvisoria ed il lavoratore emergeva la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 2112 c.c. e che il datore di lavoro effettivo, cessionario, non era insolvente per cui non poteva farsi leva sul consolidato orientamento secondo cui l’INPS subentra ex lege nel debito del datore di lavoro insolvente, previo accertamento del credito del lavoratore e dei relativi accessori mediante insinuazione nello stato passivo divenuto definitivo e nella misura in cui risulta in quella sede accertato.

7) In termini essenziali, si tratta, ora, di stabilire se l’obbligo del Fondo di garanzia di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2valutate tutte le ricadute sul sistema, possa scaturire, incondizionatamente, dalla sola ammissione al passivo della domanda del lavoratore: anche se, ciò che si è domandato in sede fallimentare è la sola quota di t.f.r. maturata presso il precedente datore di lavoro assoggettato a fallimento, successivamente alla cessione dell’azienda ed a prescindere dalla verifica dell’avvenuta cessazione del rapporto di lavoro intercorso con il cedente.

8) Le questione, ad avviso del Collegio, va affrontata partendo dalle premesse relative alla ricostruzione sistematica dell’istituto di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2. In particolare, deve ricordarsi che secondo il consolidato orientamento espresso da questa Corte di legittimità, cui si intende dare continuità, il diritto del lavoratore di ottenere dall’Inps, in caso d’insolvenza del datore di lavoro, la corresponsione del TFR a carico dello speciale Fondo di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2, ha natura di diritto di credito ad una prestazione previdenziale, ed è, perciò, distinto ed autonomo rispetto al credito vantato nei confronti del datore di lavoro (restando esclusa, pertanto, la fattispecie di obbligazione solidale), diritto che si perfeziona (non con la cessazione del rapporto di lavoro ma) al verificarsi dei presupposti previsti da detta legge (insolvenza del datore di lavoro, verifica dell’esistenza e misura del credito in sede di ammissione al passivo, ovvero all’esito di procedura esecutiva), con la conseguenza che, prima che si siano verificati tali presupposti, nessuna domanda di pagamento può essere rivolta all’Inps, e, pertanto, non può decorrere la prescrizione del diritto del lavoratore nei confronti del Fondo di garanzia” (cfr. in termini Cass. 23 luglio 2012 n. 12852 ed anche nn. 10875, 20675del 2013; 12971 del 2014).

9) Va, tuttavia, rimarcato che gli arresti della giurisprudenza di questa Corte di legittimità appena citati non hanno mai affrontato la specifica questione appena indicata, giacchè non era prospettata in tali occasioni la carenza di taluno degli elementi costitutivi della stessa fattispecie di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2 ma si discuteva della relazione giuridica esistente tra l’obbligo retributivo del datore di lavoro insolvente e l’obbligo del fondo di sostituirsi al medesimo datore di lavoro, con particolare riferimento al regime della prescrizione ed al termine iniziale del suo decorso, alla eventuale soggezione alla decadenza prevista per le prestazioni previdenziali, al regime degli atti interruttivi della prescrizione, alla disciplina degli accessori in caso di ritardo, all’ eventuale regime di solidarietà esistente con il datore di lavoro al fine di fare applicazione dell’art. 1310 c.c. etc…

10) In altri termini, quella giurisprudenza ha operato un inquadramento sistematico della disciplina del Fondo di garanzia che, attraverso il riconoscimento di una finalità esclusivamente assicurativa e previdenziale, funzionale alla pienezza di protezione dei lavoratori dal rischio dell’insolvenza del proprio datore di lavoro, ha avuto il merito di svincolare l’operatività del meccanismo di garanzia dal legame con i presupposti concreti delle obbligazioni retributive rimaste inadempiute a causa dell’insolvenza che, dunque, diventano l’oggetto della diversa ed autonoma prestazione previdenziale. Se questo è il senso ed il contenuto del percorso interpretativo segnato dalle citate pronunce, resta, dunque, da dimostrare che dalla natura autonoma, rispetto all’originario obbligo retributivo datoriale, e previdenziale della prestazione possa ricavarsi anche l’astrazione totale dal separato ed originario credito retributivo fino al punto che, una volta ottenuta l’ammissione al passivo fallimentare, nulla possa più impedire l’obbligo di intervento del Fondo di garanzia.

11) Infatti, mentre è chiaro che la natura autonoma dell’obbligo di corresponsione della prestazione impedisce all’Inps di poter opporre eccezioni derivanti da ragioni interne al rapporto di lavoro che mirino a contestare esistenza ed entità dei crediti in ragione del concreto atteggiarsi delle situazioni giuridiche soggettive del lavoratore e del datore di lavoro, come costantemente affermato da questa Corte di cassazione, non altrettanto agevole è fare derivare dall’autonomia dell’obbligazione assicurativa attribuita al Fondo anche l’effetto di totale inibizione dell’accertamento giudiziale relativo agli elementi soggettivi ed oggettivi al cui ricorrere scatta l’obbligo di tutela assicurativa e che sono interni alla stessa autonoma fattispecie previdenziale.

12) Non può, in particolare, ad avviso del Collegio, trarsi la necessaria conseguenza che una volta ottenuta (a torto o a ragione) l’ammissione della domanda di insinuazione al passivo, ciò determini l’impossibilità per l’INPS, quale gestore del Fondo di garanzia, di contestare la concreta operatività della regola di intervento del Fondo, incentrata sul ricorrere degli elementi previsti dalla stessa fattispecie di cui alla L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 2, ed al D.Lgs. n. 82 del 1990, art. 2 sulla cui autonomia si è fondata la giurisprudenza di questa Corte sopra ricordata.

13) La prima delle citate disposizioni, intitolata Fondo di garanzia, risulta infatti espressamente finalizzata allo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo nel pagamento del trattamento di fine rapporto, di cui all’art. 2120 c.c., spettante ai lavoratori o loro aventi diritto.

14) Pertanto, prevede la disposizione, trascorsi quindici giorni dal deposito dello stato passivo, reso esecutivo ai sensi del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 97 ovvero dopo la pubblicazione della sentenza di cui all’art. 99 stesso decreto, per il caso siano state proposte opposizioni o impugnazioni riguardanti il suo credito, ovvero dalla pubblicazione della sentenza di omologazione del concordato preventivo, il lavoratore o i suoi aventi diritto possono ottenere a domanda il pagamento, a carico del fondo, del trattamento di fine rapporto di lavoro e dei relativi crediti accessori, previa detrazione delle somme eventualmente corrisposte (…)”.

15) Il richiamo all’art. 2120 c.c., dunque, costituisce l’oggetto dell’obbligo assicurativo pubblico mediante rinvio alla disciplina contenuta in tale disposizione e rende palese la necessità, affinchè sorgano i presupposti per l’intervento del Fondo, che: a) sia venuto ad esistenza l’obbligo di pagamento del t.f.r. fissato dall’art. 2120 c.c. in capo al datore di lavoro; b) egli, in tale momento, si trovi in stato di insolvenza. Dunque, sempre ai sensi del disposto dell’art. 2120 c.c.citato è necessario, innanzi tutto, che sia intervenuta la risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò, non solo perchè il t.f.r. non può essere preteso se non alla cessazione del rapporto di lavoro (vd. da ultimo Cass. n. 2827 del 2018) ma anche in quanto è la stessa fattispecie di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2 che include la risoluzione del rapporto, espressamente, fra i presupposti di applicazione della tutela.

16) Recita, infatti, la citata disposizione ai successivi commi 5 e 6 “(…) Qualora il datore di lavoro, non soggetto alle disposizioni del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, non adempia, in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, alla corresponsione del trattamento dovuto o vi adempia in misura parziale, il lavoratore o i suoi aventi diritto possono chiedere al fondo il pagamento del trattamento di fine rapporto,(…) Il fondo, ove non sussista contestazione in materia, esegue il pagamento del trattamento insoluto.

Quanto previsto nei commi precedenti si applica soltanto nei casi in cui “la risoluzione del rapporto di lavoro e la procedura concorsuale od esecutiva” siano intervenute successivamente all’entrata in vigore della presente legge.

17) E’, dunque, testualmente previsto che, perchè si determini l’intervento del Fondo di garanzia, l’insolvenza riguardi il soggetto titolare in atto del rapporti di lavoro, il datore di lavoro, cioè, che è tale al momento in cui avviene la risoluzione del rapporto di lavoro. E’ evidente, infatti, che la disposizione di cui al sesto comma, nello stabilire l’irretroattività della normativa introdotta, si riferisce agli elementi indefettibili della fattispecie (risoluzione del rapporto di lavoro e soggezione del datore di lavoro a procedura concorsuale) intervenuti dopo l’entrata in vigore delle disposizioni in commento.

18) Il dato testuale è, peraltro, coerente con l’interpretazione che delle citate disposizioni deve darsi sul più vasto piano sistematico sia sovranazionale che interno.

19) Quanto al diritto dell’Unione Europea va, infatti, ricordato che la normativa in esame costituisce applicazione, tardiva e travagliata secondo la dottrina, nel diritto dello Stato italiano di quanto fu stabilito dalla Direttiva CE n. 987 del 1980, che concerne il ravvicinamento delle legislazioni degli Stato membri relativamente alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro. Tale direttiva ha voluto garantire ai lavoratori subordinati una tutela minima in caso di insolvenza del datore di lavoro. A tale scopo la direttiva ha delineato un meccanismo di tutela basato sulla creazione di specifici organismi di garanzia, che si sostituiscono al datore di lavoro per il pagamento di taluni crediti dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza di quest’ultimo. In attuazione di detta direttiva, lo Stato italiano ha adottato due testi normativi, la L. 29 maggio 1982, n. 297, che ha istituito all’art. 2, il fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto, ed il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, recante l’attuazione della direttiva 80/987/CEE in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, con il quale la garanzia è stata estesa anche alle ultime retribuzioni (artt. 1 e 2). Successivamente, la disciplina del fondo di garanzia è stata integrata dal D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 186, adottato in attuazione della direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 2002/74/CE del 23 settembre 2002, che ha modificato il D.Lgs. n. 80 del 1992 e la L. n. 297 del 1982, regolamentando le cd. situazioni transnazionali. La direttiva 80/987 è stata poi abrogata dall’art. 16 della direttiva 2008/94/CE, che ne riprende i principi fondamentali. Ai sensi dell’art. 3 della direttiva 80/987: “Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinchè gli organismi di garanzia assicurino, fatto salvo l’art. 4, il pagamento dei diritti non pagati dei lavoratori subordinati, risultanti da contratti di lavoro o da rapporti di lavoro, comprese le indennità dovute ai lavoratori a seguito dello scioglimento del rapporto di lavoro, se previste dal diritto nazionale”.

20) I diritti di cui l’organismo di garanzia si fa carico sono le retribuzioni non pagate corrispondenti a un periodo che si colloca prima e/o eventualmente dopo una data determinata dagli Stati membri. La giurisprudenza della Corte di giustizia, in particolare, ha costantemente affermato che la direttiva 80/987 persegue un fine sociale che consiste nel garantire una tutela minima a tutti i lavoratori subordinati a livello dell’Unione in caso di insolvenza del datore di lavoro mediante il pagamento dei crediti non pagati derivanti da contratti o da rapporti di lavoro e vertenti sulla retribuzione relativa ad un periodo determinato (v., in particolare, sentenze Maso e a., C-373/95, EU:C:1997:353, punto 56; Walcher, C-201/01, EU:C:2003:450, punto 38, nonchè Eimer, C-311/13, EU:C:2014:2337, punto 42).

21) In tale contesto la Corte di Giustizia ha più volte sottolineato che, per loro stessa natura, i crediti retributivi sono di enorme importanza per l’interessato (v., in particolare, sentenza Visciano, C-69/08, EU:C:2009:468, punto 44 e giurisprudenza ivi citata). Il fine sociale che sorregge la ratio dell’intervento del Fondo e circoscrive l’ambito della tutela è indicato mediante il riferimento “a crediti non pagati relativi ad un periodo determinato”, con ciò fissandosi la nozione di “bisogno socialmente rilevante” che è tale perchè collocato all’interno di un ambito temporale definito.

22) Significativamente, in conformità agli obblighi derivanti dalla direttiva 987/80, il D.Lgs. n. 82 del 1990, art. 2 prevede: “Il pagamento effettuato dal Fondo di garanzia ai sensi dell’art. 1 è relativo ai crediti di lavoro, diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro rientranti nei dodici mesi che precedono: a) la data del provvedimento che determina l’apertura di una delle procedure indicate nell’art. 1, comma 1; b) la data di inizio dell’esecuzione forzata; c) la data del provvedimento di messa in liquidazione o di cessazione dell’esercizio provvisorio ovvero dell’autorizzazione alla continuazione dell’esercizio di impresa per i lavoratori che abbiano continuato a prestare attività lavorativa, ovvero la data di cessazione del rapporto dì lavoro, se questa è intervenuta durante la continuazione dell’attività dell’impresa”.

23) La fattispecie in esame, secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata e dal contenuto incontestato degli atti delle parti, si caratterizza in quanto, l’intervento del Fondo di garanzia viene richiesto successivamente allo sviluppo di una complessa vicenda circolatoria che ha interessato l’azienda. Dunque, ciò che va accertato è la compatibilità dell’intervento del Fondo di garanzia anche laddove sia inesistente la relazione causale e temporale tra inadempimento datoriale ed insolvenza dichiarata con procedura concorsuale che costituisce l’ambito applicativo fisiologico dell’intervento del Fondo di garanzia legato allo scopo sociale della normativa Europea.

24) Di fatto, l’intervento del medesimo Fondo finisce per riconnettersi a situazioni in cui il credito del lavoratore non è più relativo al periodo “determinato” che connota lo scopo sociale dell’obbligo di copertura assicurativa, ma viene agganciato, senza limiti temporali e prescindendo dalla attuale individuazione dei soggetti del rapporto di lavoro, ad uno degli ex datori di lavoro, interessati dalle vicende circolatorie pregresse, che viene dichiarato fallito in epoca in cui il rapporto di lavoro non è più in essere nei confronti del lavoratore istante perchè proseguito con altro soggetto, dunque, l’applicazione della L. n. 297 del 1982, art. 2 e del D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 2 si allontana, oltre che dalla lettera delle norme citate, dalla funzione di tutela del bisogno socialmente rilevante indicato dalla direttiva 987/80 e successive modificazioni.

Il risultato di tale interpretazione, dunque, pare porsi in contrasto con l’obbligo di interpretazione conforme che incombe sul giudice nazionale ed, in concreto, pare consentire che il Fondo di garanzia, finanziato dai contributi dei datori di lavoro e dallo Stato (L. n. 297 del 1982, art. 2), possa deviare dai compiti istituzionali con possibili effetti distorsivi, vietati espressamente dallo stesso L. n. 297 del 1982, art. 2, comma 8, secondo cui “Le disponibilità del fondo di garanzia non possono in alcun modo essere utilizzate al di fuori della finalità istituzionale del fondo stesso”.

25) Una simile interpretazione, inoltre, pare non considerare che le tutele dei lavoratori, in ipotesi di trasferimento d’azienda, formano oggetto di altre specifiche previsioni di derivazione comunitaria e che la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (Sez. 6, 28/01/2015, n. 688), interpretando i contenuti della direttiva 2001/23, ha affermato che essa “(…) stabilisce la regola generale secondo cui il cessionario è vincolato ai diritti e agli obblighi che risultano da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente tra il lavoratore e il cedente alla data del trasferimento dell’impresa. Come risulta dalla lettera e dalla struttura dell’art. 3 di tale direttiva, la trasmissione al cessionario degli oneri a carico del cedente al momento del trasferimento dell’impresa, in presenza di lavoratori alle dipendenze del cedente, comprende tutti i diritti di questi ultimi laddove essi non ricadano in una delle eccezioni espressamente previste dalla stessa direttiva (v., per analogia, sentenza Beckmann, C-164/00, EU:C:2002:330, punti 36 e 37). 53. Costituiscono parte integrante di questi oneri non soltanto i salari e altri emolumenti spettanti ai lavoratori dell’impresa in questione, ma anche i contributi al regime legale di previdenza sociale a carico del cedente, in quanto derivanti da contratti o da rapporti di lavoro vincolanti per quest’ultimo. Infatti, come emerge altresì dall’art. 2, paragrafo 1, della direttiva 2001/23, nel disciplinare le condizioni di lavoro, un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro implicano, ai sensi della direttiva in parola, un rapporto giuridico fra i datori di lavoro e i lavoratori (sentenza Kirtruna e Vigano, EU:C:2008:574, punto 41)”.

26) Peraltro, Corte giustizia UE, sez. 3, 22/06/2017, n. 126, ha chiarito, ad ulteriore conferma della integrale copertura garantita al lavoratore interessato dalla cessione della propria azienda, che in relazione all’ipotesi di accordo pre-fallimentare per prosecuzione attività di impresa ad opera di un terzo, la Direttiva 2011/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, deve essere interpretata nel senso che la tutela dei lavoratori garantita dagli artt. 3 e 4 di tale direttiva permane in una situazione in cui un’impresa sia trasferita in seguito ad una dichiarazione di fallimento nell’ambito del pre-pack, preparato anteriormente a detta dichiarazione e realizzato immediatamente dopo la pronuncia di fallimento, nell’ambito del quale, in particolare, un “curatore designato” nominato da un giudice esamini la possibilità di un’eventuale prosecuzione delle attività dell’impresa ad opera di un terzo e prepari azioni da svolgere subito dopo la pronuncia di fallimento per realizzare tale prosecuzione, e inoltre non è rilevante, a tal riguardo, che l’obbiettivo perseguito da tale operazione di pre-pack miri anche a massimizzare gli introiti della cessione per l’insieme dei creditori dell’impresa in oggetto.

27) Anche guardando alle ricadute sul sistema interno, inoltre, trova conferma la necessità di non sottrarre il riconoscimento dell’obbligo di intervento del Fondo di garanzia alla verifica giudiziale. In primo luogo perchè in tal modo si realizzerebbe una palese violazione dell’art. 24 Cost., inibendo ai soggetti interessati, nel caso di specie il Fondo gestito dall’INPS, il diritto alla tutela giudiziaria per preservare il corretto funzionamento del meccanismo assicurativo pubblico di garanzia in forza della semplice ammissione al passivo fallimentare della domanda del lavoratore che finirebbe per assumere una efficacia superiore a quella connessa agli effetti del decreto di approvazione dello stato passivo, il quale, necessariamente non può riguardare gli obblighi del Fondo derivanti dalla L. n. 297 del 1982, art. 2 e dal D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 2 ma ha ad oggetto, esclusivamente, i diritti di credito del lavoratore ed “(…) esclude la possibilità di riproporre, all’interno della detta procedura, ogni questione concernente l’esistenza del credito, la sua entità, l’efficacia del titolo da cui deriva, l’esistenza di cause di prelazione (…)”. (Cass. SS.UU.16508 del 2010).

28) Non pare, inoltre, che Cass. n.19291 del 2011 possa valere a contrastare quanto sin qui affermato perchè nella detta sentenza, con riferimento all’ipotesi della cessione d’azienda, si dice sì che il diritto ai trattamento di fine rapporto ex art. 2020 c.c. matura progressivamente in ragione dell’accantonamento annuale, ma si precisa anche che “l’esigibilità del credito è rinviata al momento della cessazione del rapporto”. Quindi il credito per t.f.r. non è ancora esigibile, tant’è che neppure comincia a decorrere il termine di prescrizione. Alla cessazione del rapporto il datore di lavoro cessionario risponderà per l’intero t.f.r. (in via diretta quanto alla quota di t.f.r. maturata dopo la cessione; in via solidale quanto alla quota maturata precedentemente); invece il datore di lavoro cessionario risponderà solo per la quota di t.f.r. maturata prima della cessione.

29) Questa Corte di cassazione ha confermato ripetutamente tale convincimento, affermando che il diritto al trattamento di fine rapporto (TFR) sorge con la cessazione del rapporto di lavoro (Cass. n.2827/2018, del 10 ottobre 2017; Cass. Cass. n. 9695/2009) ed in quanto credito non esigibile al momento della cessione dell’azienda – quello avente ad oggetto il t.f.r. fino a quel momento maturato – non può essere ammesso al passivo del fallimento del datore di lavoro cedente. Per sostenere il contrario, si dovrebbe applicare estensivamente l’art. 1181 c.c. sulla decadenza dal termine: “il creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore è divenuto insolvente”, ma il credito avente ad oggetto il t.f.r., maturato prima della cessazione del rapporto, non è un credito assoggettato ad un termine di esigibilità poichè la struttura della prestazione vede il decorso del tempo ed il correlato obbligo di accantonamento quali fattori costitutivi interni alla fattispecie e non quali elementi, eventuali, condizionanti soltanto il momento di esigibilità della prestazione stessa.

30) Anche, l’evoluzione legislativa che ha interessato il trattamento di fine rapporto conduce a risultati opposti alla tesi dell’esigibilità frazionata del t.f.r., dal momento che essa lo ha messo in relazione con la previdenza complementare. La Legge Finanziaria n. 296 del 2006, art. unico, commi 755 e 756, ha previsto – come è noto – il conferimento del TFR alla previdenza complementare, dunque, come segnalato da questa Corte di cassazione (Cass. n. 8228 del 2013), ormai, il T.F.R serve ad alimentare la previdenza complementare. Ai sensi di questa norme le quote di T.F.R. maturate dal primo gennaio 2007 vengono versate presso le forme pensionistiche complementari di cui al D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, ove i lavoratori manifestino detta opzione, mentre, in mancanza di opzione, nelle aziende con meno di 50 addetti, il TFR maturando resterà come prima presso i datori di lavoro, mentre nelle aziende con almeno 50 addetti, le quote di TFR non destinate alle forme pensionistiche complementari, confluiranno nell’istituito “Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c.”, che è un fondo a ripartizione, gestito dall’Inps per conto dello Stato.

31) Peraltro, la ricordata direttiva comunitaria n. 80/987/CEE, all’art. 8, assegna agli Stati membri anche il compito di adottare misure idonee per la tutela dei lavoratori subordinati, nel caso di insolvenza dell’impresa, in relazione ai loro diritti, maturati o in corso di maturazione, in ordine alle prestazioni di vecchiaia previste dai regimi previdenziali complementari ed anche se hanno già cessato il loro rapporto con quel datore di lavoro, vengano a trovarsi di fronte all’insolvenza dello stesso. Ciò rende, altresì, ancora più problematica la percorribilità della tesi della scomponibilità del t.f.r. anteriormente alla data di cessazione del rapporto di lavoro e, soprattutto, rende evidente come la tutela di tali diritti dei lavoratori non sia affidata al Fondo di garanzia per il pagamento dei crediti retributivi ma ad altri interventi degli Stati membri. Il nostro legislatore nazionale, in particolare, garantisce l’integrale copertura contributiva al lavoratore danneggiato dall’omissione contributiva del datore di lavoro insolvente attraverso apposito Fondo di garanzia, istituito presso l’Inps ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 5, comma 1, proprio allo scopo di assicurare specifica e idonea tutela al lavoratore danneggiato dalle ipotesi in cui il datore di lavoro non sia in grado di effettuare, in tutto o in parte, i versamenti contributivi dovuti al sistema di previdenza complementare.

Il Fondo è chiamato ad intervenire nel momento in cui, a causa dell’omesso o incompleto versamento dei contributi dovuti dal datore di lavoro insolvente, il lavoratore non può accedere alla correlata prestazione complementare ed interviene a copertura di: contributi del datore di lavoro, contributi del lavoratore trattenuti e non versati da parte del datore di lavoro, quote di Tfr conferite al Fondo trattenute sulla retribuzione dovuta e non versate da parte del datore di lavoro”.

35. In definitiva, va affermato il principio secondo cui, la L. n. 297 del 1982, art. 2 e il D.Lgs. n. 82 del 1990, art. 2 si riferiscono all’ipotesi in cui sia stato dichiarato insolvente ed ammesso alle procedure concorsuali il datore di lavoro che è tale al momento in cui la domanda di insinuazione al passivo viene proposta ed, inoltre, poichè il t.f.r. diventa esigibile solo al momento della cessazione del rapporto, il fatto che (erroneamente) il credito maturato per t.f.r. fino al momento della cessione d’azienda sia stato ammesso allo stato passivo nella procedura fallimentare del datore di lavoro cedente non può vincolare l’Inps, che è estraneo alla procedura e che perciò deve poter contestare il credito per t.f.r. sostenendo che esso non sia ancora esigibile, neppure in parte, e quindi non opera ancora la garanzia della L. n. 297 del 1982, art. 2.

36. Poichè la sentenza impugnata si è attenuta a tale principio, il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità vanno compensate trattandosi di questioni che la giurisprudenza di legittimità ha elaborato solo in tempi molto recenti, antecedenti allo svolgimento del presente giudizio.

Il rigetto del ricorso determina la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; dichiara compensate le spese del giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2018

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