Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29359 del 23/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 23/12/2020, (ud. 18/09/2020, dep. 23/12/2020), n.29359

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angel – M. –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5086/2012 R.G. proposto da

C.A.M., elettivamente domiciliata in Roma, via F. Siacci

n. 4, presso lo studio dell’Avv. Alessandro Voglino che la

rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso

per cassazione;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 193/10/2011 della Commissione Tributaria

Regionale del Lazio, depositata in data 7 luglio 2011;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 settembre

2020 dal Consigliere Dott. Grazia Corradini.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.A.M., esercente la attività di somministrazione di alimenti e bevande in forma ambulante, impugnò gli avvisi di accertamento con cui la Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Roma 3 – a seguito di una verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza e di successivo processo verbale di constatazione nei suoi confronti, attraverso i quali era stata rilevata la omessa contabilizzazione di ricavi ricostruiti con metodologia analitica induttiva sulla base delle rimanenze emergenti dalla contabilità e della ricostruzione della percentuale di ricarico ponderata su un campione, ritenuto significativo, di 51 prodotti rinvenuti sugli automezzi adibiti alla attività, ottenuto mediante il raffronto fra i prezzi di acquisto risultanti dalla contabilità ed i prezzi di vendita forniti dalla contribuente – aveva rettificato il reddito di impresa per gli anni 2003 e 2004, ai fini IRPEF, IRAP ed IVA, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 attraverso la applicazione della percentuale di ricarico così ricostruita al costo del venduto risultante dai dati esposti nella contabilità dell’impresa.

Con il ricorso la contribuente dedusse, per quanto ancora interessa, la illegittimità della pretesa fiscale, contestando il metodo di accertamento e le presunzioni su cui lo stesso si fondava, in particolare sostenendo che sarebbe stato commesso un errore di calcolo del venduto attraverso i rilievi delle merci sui furgoni adibiti alla vendita, senza però ripetere i rilievi sul magazzino, che non si sarebbe tenuto conto dei cali naturali e che il ricarico applicato poteva valere per le zone centrali, mentre la contribuente operava anche in altre zone.

La Commissione Tributaria Provinciale di Roma, con sentenza n. 476/4/2008 (trascritta integralmente nel ricorso per cassazione ed allegata allo stesso), accolse parzialmente il ricorso e rideterminò i maggiori ricavi nella percentuale del 6% rispetto al dichiarato, che la parte contribuente aveva riconosciuto come congrua nel ricorso. All’uopo ritenne che gli accertamenti operati dall’Ufficio fossero inficiati dalla mancata omogeneità del raffronto tra l’acquistato, il venduto e le rimanenze, poichè le verifiche iniziali avevano riguardato il magazzino mentre una terza verifica era stata eseguita sui furgoni autorizzati per il commercio ambulante e che anche la percentuale di ricarico inducesse a perplessità in assenza di altri approfondimenti, per cui, pur essendo consentito l’accertamento induttivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39 stante la non correttezza delle due dichiarazioni annuali presentate dalla contribuente, peraltro non fossero stati riportati con chiarezza quei dati gravi, precisi e concordanti che avrebbero autorizzato una presunzione di maggiori ricavi, sia pure iuris tantum.

Presentò appello la Agenzia delle Entrate lamentando la errata ed illegittima valutazione della metodologia di accertamento formulata dai primi giudici e l’immotivato parziale accoglimento del ricorso.

La Commissione Tributaria Regionale del Lazio, con sentenza n. 193/10/2011, depositata il 7.7.2011, accolse l’appello dell’Ufficio e condannò la contribuente alle spese del giudizio, ritenendo che il metodo di accertamento analitico induttivo, utilizzato dall’Ufficio finanziario sulla base della verifica e conseguente pvc redatto dalla Guardia di Finanza, fosse corretto in quanto: in primo luogo, le rimanenze erano state ricostruite, in un’ottica di continuità aziendale, considerando, ai fini del calcolo del venduto, le giacenze finali esposte nella dichiarazione dei redditi, il che escludeva il preteso errore ritenuto dal primo giudice con riguardo alle merci rinvenute nei furgoni, poichè ai fini del calcolo del venduto erano stati considerati solo i dati risultanti dalla contabilità e dalle dichiarazioni fiscali della contribuente, mentre le merci rinvenute nei furgoni erano state utilizzate per ricostruire la percentuale media dei ricarichi applicata dalla contribuente sulla vendita di quei prodotti; ed inoltre la percentuale di ricarico utilizzata per la ricostruzione dei ricavi era quella risultante dalla media ponderata tra i prezzi di acquisto, rilevabili dalle fatture di acquisto ed i prezzi di vendita forniti dalla stessa contribuente. La CTR rilevò ancora che avevano errato invece i primi giudici a ritenere che la percentuale di ricarico fosse stata ricostruita con riguardo a dati riguardanti annualità diverse, mentre la Guardia di Finanza era pervenuta a risultati certi operando su dati desunti dalla contabilità dell’impresa, che avevano consentito di accertare un rilevante scostamento tra il ricarico medio dichiarato e quello determinato scientificamente secondo la procedura adottata dai verificatori, il che autorizzava l’accertamento analitico induttivo, pur apparendo la contabilità formalmente regolare, in presenza di gravi incongruenze a mezzo di attento e specifico vaglio delle rimanenze, delle merci acquistate e di quelle vendute, in tutti i casi riportandosi a quanto dichiarato e contabilizzato dalla contribuente.

Contro la sentenza di appello, non notificata, ha presentato ricorso per cassazione la contribuente con atto notificato in data 22.2.2012, affidato a due motivi, cui resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.

La contribuente ha presentato una successiva memoria in data 5.12.2018 con cui ha invocato, in via subordinata, la applicazione, quanto alle sanzioni, dello ius superveniens discendente dal D.Lgs. n. 158 del 2015 che aveva ridotto dal 100% al 90% della maggiore imposta la sanzione irrogata per dichiarazione infedele.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo la ricorrente si duole di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 e artt. 2727 e 2729 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 ed in relazione alla denunciata infondatezza ed illegittimità degli accertamenti impugnati per l’incongruità, irrazionalità ed erroneità dei calcoli e risultati ivi riportati e per l’inconsistenza ed illegittimità del metodo di accertamento analitico – induttivo utilizzato nella specie e delle presunzioni si cui esso è fondato.

2. Con il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di insufficiente motivazione della sentenza impugnata con riguardo al fatto controverso e decisivo per il giudizio relativo alla consistenza, qualità, esattezza ed idoneità della percentuale “media” di ricarico che è stata posta a base degli impugnati avvisi di accertamento.

3. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente ripercorre i pretesi errori in cui sarebbero incorsi i verificatori e gli accertatori con riguardo alla ricostruzione delle giacenze, laddove avrebbero preso in esame solo le giacenze rinvenute nei fugoni utilizzati per la vendita, trascurando le precedenti giacenze rilevate nel magazzino ed i cali delle merci e considerando solo i prezzi, più alti, praticati nella “zona centro”, senza considerare i prezzi praticati in altre zone e senza approfondire la situazione, il che rendeva illegittimo l’accertamento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) per mancanza di indizi gravi, precisi e concordanti che avrebbero autorizzato una presunzione, sia pure iuris tantum, idonea a comportare l’inversione dell’onere della prova ed in presenza, al contrario, di una contabilità regolarmente tenuta. La ricorrente sostiene quindi che la sentenza impugnata avrebbe convalidato gli errori dei verificatori ritenendo che il calcolo sarebbe correttamente avvenuto sulla base delle risultanze contabili e che l’accertamento analitico induttivo potrebbe essere fondato su una percentuale di ricarico “media”, così incorrendo in violazione di legge per mancanza di indizi gravi, precisi e concordanti che avrebbe dovuto offrire la Amministrazione Finanziaria che era attore in senso sostanziale, poichè il valore percentuale applicato dall’Ufficio non rappresentava un fatto noto, bensì una mera estrapolazione statistica fondata su elementi parziali ed inattendibili ed inoltre, se pure fosse stata corretta, non avrebbe potuto fondare da sola un accertamento analitico – induttivo.

3.1. Il motivo è inammissibile.

3.2. E’ opportuno premettere che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre, viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, fra l’altro sottratta al sindacato di legittimità e la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8315 del 04/04/2013 Rv. 626129 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015 Rv. 638171 – 01; Sez. 1 -, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017 Rv. 645538 – 03). Alla stregua di tale principio, nella specie non è prospettabile alcuna violazione delle disposizioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, poichè esse disciplinano le condizioni che legittimano la tipologia di accertamento ed i presupposti per la sua emissione (che nella specie non sono in discussione), ma poi demandano all’Ufficio la determinazione del criterio concreto attraverso cui ricostruire i ricavi presunti con il solo limite della congruità della motivazione. Per cui non può essere censurato sotto il profilo della violazione di legge il criterio seguito dall’Ufficio e poi dalla Commissione tributaria in sede di impugnazione, qualora correttamente motivato, come nel caso in esame in cui la CTR ha applicato un criterio ritenuto corretto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte, in virtù del quale il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio in relazione alla legittimazione o meno del potere dell’Ufficio di procedere con la tipologia di accertamento utilizzata (nella specie analitico – induttiva D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d)) e quindi a ricalcolare l’ammontare dei ricavi, pur in presenza di una contabilità formalmente regolare, quando vi sia un “rilevante” scostamento tra il ricarico medio dichiarato e quello calcolato mediante media ponderata secondo un metodo scientifico, come quello ricostruito nel caso in esame dai verificatori, che, nella specie, avevano rilevato la presenza di gravi incongruenze che autorizzavano quella ricostruzione (v., per tutte, Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 18695 del 13/07/2018 Rv. 649714 – 01; Sez. 5 -, Ordinanza n. 19213 del 02/08/2017 Rv. 645288 – 01).

3.3. Infatti la sentenza di appello ha correttamente affermato, al contrario di quanto sostiene la ricorrente, che era stata utilizzato il criterio della “media ponderata” ricavato con metodo scientifico sulla base di un campione significativo dei prodotti maggiormente venduti, quali quelli rinvenuti nei furgoni che venivano utilizzati per la vendita e che la percentuale di ricarico così ottenuta, ragguagliata a quella dichiarata, aveva consentito di accertare rilevanti incongruenze ed un notevole scostamento rispetto alla percentuale dichiarata, il che autorizzava l’accertamento di maggiori ricavi in relazione alla percentuale della media ponderata di ricarico accertata, applicata sulla base delle merci acquistate, di quelle vendute e delle rimanenze risultanti dai dati contabilizzati dalla contribuente.

3.4. Non si rilevano quindi i pretesi errori in cui sarebbero incorsi i verificatori e tanto meno la sentenza impugnata, la quale ha offerto una giustificazione non illogica dell’utilizzo della merce contenuta nei furgoni al fine di estrarre la media ponderata, dimostrando di avere preso in esame le contestazioni mosse dalla ricorrente alle modalità del calcolo giungendo a risultati appaganti con metodo scientifico.

3.5. Ciò comporta la inammissibilità del primo motivo di ricorso poichè, a fronte di una precisa pronuncia del giudice di appello, che ha spiegato l’iter logico giuridico seguito per giungere alla decisione, nonchè il motivo di dissenso rispetto alla sentenza di primo grado (che aveva erroneamente sostenuto che la verifica della Guardia di Finanza sarebbe avvenuta su dati non omogenei, ipotizzando una mancanza di chiarezza e di sufficienza, a tale stregua, degli elementi gravi, precisi e concordanti che avrebbero consentito una presunzione sia pure iuris tantum), in particolare rilevando che “nel procedimento ricostruttivo risultavano utilizzati ai fini del calcolo del costo del venduto i dati rilevati dalla contabilità e dalle dichiarazioni fiscali della stessa contribuente” e che la percentuale di ricarico “era stata determinata con riferimento a dati e fatti dei periodi di imposta oggetto di verifica, non certo su dati riferibili ad annualità diverse”, la contribuente si limita a contrapporre considerazioni generiche, di fatto comportanti una rivalutazione del merito non consentita nel giudizio di legittimità.

3.6. Non è peraltro vero neppure che le estrapolazioni statistiche non possano fondare la presunzione di maggiori ricavi, non costituendo una presunzione dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, come assume la ricorrente, poichè anche in tal caso la tesi della ricorrente si scontra con il principio consolidato per cui, in tema di accertamento dei redditi di impresa, l’Ufficio può procedere a quello analitico-induttivo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 anche in presenza di scritture formalmente regolari, ove la contabilità risulti complessivamente inattendibile sulla base di elementi indiziari gravi e precisi, come il sensibile scostamento delle percentuali di ricarico accertate, che possono essere determinate calcolando la media aritmetica o quella ponderata dei ricarichi sulle vendite, rispetto a quelle dichiarate (v. Sez. 5 -, Ordinanza n. 32129 del 12/12/2018 Rv. 651784 – 01; Sez. 5 -, Ordinanza n. 8923 del 11/04/2018 Rv. 647709 01).

4. Il secondo motivo di ricorso è infondato.

4.1. Con esso si deduce la insufficiente motivazione della sentenza impugnata con riguardo al preteso “fatto” decisivo riguardante la consistenza, qualità, esattezza e certezza della percentuale media di ricarico posta a base degli avvisi di accertamento impugnati, avendo l’ufficio calcolato tale media sulla base di una erronea valutazione delle giacenze, senza tenere conto delle doglianze esposte dalla contribuente. Però, pur tenendo conto che si tratta della formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 precedente alla modifica del 2012, il vizio di motivazione deve riguardare un fatto decisivo per il giudizio, nel senso di un fatto inteso in senso storico – naturalistico e deve consistere in motivazione inesistente o quanto meno obiettivamente carente in ordine all'”iter” logico-argomentativo che ha portato il giudice a regolare la vicenda al suo esame in base alla regola concretamente applicata. Nella specie invece la motivazione è logica e coerente e giustifica i motivi per cui la CTR ha ritenuto che i verificatori avessero determinato la media ponderata, con metodo scientifico, sulla base di un campione significativo di prodotti, con riguardo alla singola annualità di imposta e delle “risultanze contabili espresse dalla contribuente, elaborando gli stessi non già con criteri astratti, bensì concretamente desunti dalla contabilità” ed avessero altresì escluso l’errore sulla valutazione delle giacenze che il giudice di primo grado aveva addebitato ai verificatori.

4.2. Il ricorrente trascura quindi l’articolata motivazione resa sul punto dal giudice d’appello – non cogliendone, apparentemente, la portata complessiva – e comunque, sotto la veste formale di una censura di carente o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, fra l’altro già prima facie completamente destituita di fondamento posto che il ricorso trascrive alcuni stralci della motivazione del tutto eloquenti in merito alle ragioni addotte dal giudice di appello, finisce per invocare una rivalutazione dei fatti sulla cui base determinare la percentuale di ricarico, che non è consentita nel giudizio di legittimità.

5. Il ricorso deve essere quindi rigettato.

6. Con la memoria difensiva in data 5 dicembre 2019 la ricorrente ha richiamato lo ius supervenies, costituito dal D.Lgs. n. 158 del 2015, che ha ridotto la sanzione amministrativa nel caso di presentazione di dichiarazione infedele in materia di imposte dirette, adducendo che ciò comporterebbe la rideterminazione in misura ridotta delle sanzione anche d’ufficio, pure nel corso del giudizio di cassazione.

6.1. La ricorrente invoca in sostanza la applicazione del principio del favor rei di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3 in forza del quale, in materia di sanzioni amministrative per violazioni tributarie: “1. Nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione. 2. Salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato. 3. Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo”. Ed, in proposito, il D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 15 recante Modifiche al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 prevede: “1. Al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, sono apportate le seguenti modificazioni: a) l’art. 1 è sostituito dal seguente: “Art. 1 (Violazioni relative alla dichiarazione delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive). – 1 (omissis) 2. Se nella dichiarazione è indicato, ai fini delle singole imposte, un reddito o un valore della produzione imponibile inferiore a quello accertato, o, comunque, un’imposta inferiore a quella dovuta o un credito superiore a quello spettante, si applica la sanzione amministrativa dal novanta al centoottanta per cento della maggior imposta dovuta o della differenza del credito utilizzato. La stessa sanzione si applica se nella dichiarazione sono esposte indebite detrazioni d’imposta ovvero indebite deduzioni dall’imponibile, anche se esse sono state attribuite in sede di ritenuta alla fonte (omissis)”.

6.2. In proposito occorre premettere che, in effetti, come risulta a pagina 13 degli accertamenti impugnati, già in atti ed allegati comunque anche al ricorso per cassazione per entrambi gli anni di imposta 2003 e 2004, è stata posta a base del calcolo della sanzione applicata secondo il criterio del cumulo giuridico – su cui poi è stato calcolato l’aumento del 20% D.Lgs. n. 472 del 1997, ex art. 12, comma 3, per addivenire infine alla concreta determinazione della sanzione base e alla liquidazione della sanzione pecuniaria unica, determinata in Euro 69.198,00 per l’anno di imposta 2003 ed in Euro 75.441,00 per l’anno 2004 – la misura minima del 100% della maggiore IRPEF, prevista ratione temporis dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, comma 2. In ragione della disposizione sopravvenuta, invece, è stata introdotta una nuova misura minima della predetta sanzione, pari al 90% della maggiore IRPEF e quindi inferiore a quella pregressa.

6.3. Inoltre, “in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, che ha esteso il principio del favor rei anche al settore tributario, sancendone l’applicazione retroattiva, le più favorevoli norme sanzionatorie sopravvenute debbono essere applicate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, e quindi anche in sede di legittimità, all’unica condizione che il provvedimento sanzionatorio non sia divenuto definitivo”. Ciò comporta che, pur non essendo stata nel ricorso per cassazione specificamente contestata la debenza delle sanzioni, peraltro, essendo nel caso in esame in contestazione la sussistenza della violazione tributaria, sussista ancora controversia anche sulla debenza delle collegate e consequenziali sanzioni con conseguente applicazione del più favorevole regime sanzionatorio sopravvenuto (v, per tutte, Cass. n. 23564/2012, n. 8243/2008, n. 18775/2006). Quindi, con specifico riguardo al D. Lgs n. 158 del 2015 in materia di irrogazione di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, nel rispetto del principio del “favor rei”, trova applicazione il trattamento più favorevole di cui al D.Lgs. n. 158 del 2015, la cui utilizzabilità quale “ius superveniens” è assicurata in pendenza di giudizio dall’art. 32, comma 1, (come modificato dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 133), a condizione che vi sia un processo ancora in corso ed il provvedimento impugnato non sia, quindi, divenuto definitivo (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 15978 del 27/06/2017 Rv. 645042 – 01); come, appunto, nel caso in esame in cui il ricorso per cassazione contesta la debenza del maggiore tributo ed in conseguenza delle collegate sanzioni.

6.4. Occorre aggiungere che, in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, è sopravvenuto un recente indirizzo giurisprudenziale secondo cui le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 158 del 2015 non operano in maniera generalizzata in “favor rei”, rendendo la sanzione irrogata illegale, sicchè deve escludersi che la mera deduzione, in sede di legittimità, di uno “ius superveniens” più favorevole, senza specifiche allegazioni rispetto al caso concreto idonee ad influire sui parametri di commisurazione della sanzione, imponga la cassazione con rinvio della sentenza impugnata (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 15828 del 15/06/2018 Rv. 649191 – 01 e successive conformi, da ultimo, Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 29046 del 11/11/2019 Rv. 656117 – 01). Tuttavia nella specie la questione non era deducibile al tempo dell’appello e neppure al momento del ricorso per cassazione che è stato notificato nel 2012, mentre la memoria difensiva ha posto in luce che la sanzione base per dichiarazione infedele era stata applicata nel minimo edittale del 100%, a fronte del minimo ridotto al 90% dalla novella legislativa ed ha altresì trascritto la parte degli accertamenti impugnati contenente il conteggio delle sanzioni presentando i nuovi calcoli in base alla novella legislativa mediante specifiche allegazioni riguardanti il caso concreto. D’altronde le sanzioni erano state applicate negli accertamenti sulla base dei minimi edittali per cui nessuna specifica ulteriore allegazione era imposta alla contribuente in relazione alla rilevanza della condotta, alla valutazione della gravità della violazione e agli elementi di fatto rilevanti per la determinazione al minimo edittale, ai fini della applicazione di una sanzione tributaria inferiore rispetto a quella applicata.

6.5. Orbene, l’avvenuta contestazione, da parte della contribuente, della legittimità degli accertamenti di maggiori imposte, come si è già detto, esclude per ciò solo che sia divenuto definitivo il provvedimento di irrogazione delle sanzioni che da tali accertamenti consegue ex lege ed impone che sia presa in esame la questione prospettata con la memoria difensiva. La sentenza impugnata deve essere in conseguenza cassata quanto alla determinazione in concreto della misura delle sanzioni alla luce della novella legislativa sopravvenuta, con rinvio sul punto alla CTR del Lazio che valuterà se il nuovo valore del minimo sia adeguato alle violazioni.

7. Le spese del presente giudizio devono essere poste a carico della ricorrente soccombente. Non sussistono, invece, ratione temporis, trattandosi di ricorso notificato il 22 febbraio 2012, i presupposti per il raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte, pronunciando sul ricorso, lo rigetta e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 7.830,00 oltre spese prenotate a debito; Cassa la sentenza impugnata sul punto relativo alla determinazione delle sanzioni e rinvia ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale del Lazio.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2020

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