Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29348 del 28/12/2011

Cassazione civile sez. II, 28/12/2011, (ud. 22/11/2011, dep. 28/12/2011), n.29348

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. NUZZO Laurenza – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

A.M.G. (C.F.: (OMISSIS)) e S.

B. (C.F.: (OMISSIS)), elettivamente domiciliati in Roma,

Viale delle Milizie n. 106, presso lo studio dell’Avvocato FALVO

D’URSO Francesco, dal quale sono rappresentati e difesi, per procura

speciale in calce al ricorso, unitamente all’Avvocato Erica Paganoni;

– ricorrenti –

contro

A.M.G. (C.F.: (OMISSIS)), in proprio e

quale unica erede di D.M.B., elettivamente domiciliata in

Roma, Via Ennio Quirino Visconti n. 20, presso lo studio

dell’Avvocato PACIFICO Antonio, dal quale è rappresentata e difesa,

unitamente all’Avvocato Marco Bonomo, per procura speciale a margine

del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 1418 del 2005,

depositata il 30 maggio 2005.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 22

novembre 2011 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;

sentiti gli Avvocati Francesco Falvo D’Urso, per le ricorrenti, e

Antonio Pacifico, per la resistente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata il 5 maggio 1999, A.M.G. e S.B. convennero in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Sondrio, A.M.G., D.M.B., A. M.G. e V.C., nella loro qualità di comproprietari dei mappali n. 105 e 120, sub 1 a F9 del Comune di Castello Dell’Acqua, chiedendo l’accertamento delle modalità e dei limiti dell’esercizio del diritto di transito in favore del mappale n. 105 confinante con la proprietà di essi attori, con definizione del percorso più breve per accedere alla via pubblica, della sua ampiezza in misura tale da consentire solo il transito pedonale nonchè l’inesistenza di qualsiasi diritto reale o personale gravante sui mappali 106, 107 e 1307 in favore del mappale 120 sub 1, dichiarando il loro diritto di recingere i fondi.

Costituitosi il contraddittorio, A.M.G. e D. M.B. contestarono la domanda, e in via riconvenzionale chiesero che venisse accertato il diritto di utilizzare liberamente, a titolo di proprietà o, in subordine, di servitù, l’andito comune, oltre alla condanna degli attori alla eliminazione dei cordoli in cemento e di ogni altro ostacolo all’uso dell’andito.

Disposta l’estromissione dal giudizio di An.Da. e di V.C., che avevano ceduto le loro quote di comproprietà ad A.M.G., ed espletata una consulenza tecnica d’ufficio, l’adito Tribunale, con sentenza depositata il 25 gennaio 2003, respinse la domanda degli attori e in accoglimento della riconvenzionale condannò questi ultimi alla rimozione dei cordoli e alle spese del giudizio.

Avverso questa sentenza proponevano appello i soccombenti e, ricostituitosi il contraddittorio, la Corte d’appello di Milano, con sentenza resa pubblica mediante deposito il 30 maggio 2005, respingeva l’appello.

Premesso che, ai sensi dell’art. 1117 cod. civ., si presumono di proprietà comune, tra l’altro, gli anditi, i portici e i cortili se il contrario non risulta dal titolo, la Corte d’appello rilevava che nessun titolo contrario, idoneo a comprovare il possesso esclusivo di tali porzioni immobiliari in capo agli appellanti, era stato prodotto in giudizio. La Corte riteneva poi che la disciplina di cui all’art. 1117 cod. civ., dovesse essere applicata nel caso di specie, pur non trattandosi di parti comuni del medesimo edificio, ma di edifici limitrofi e autonomi, destinate stabilmente all’uso o al godimento degli stessi, come nel caso di specie, essendo l’andito oggetto di causa destinato all’accesso dei fabbricati confinanti n. (OMISSIS).

La prova contraria alla presunzione di cui all’art. 1117 cod. civ., non era stata versata in atti, nè poteva ritenersi raggiunta sulla base delle mappe catastali cui si riferivano i titoli di provenienza, risultando le stesse mappe equivoche in relazione allo stato dei luoghi, mentre le prove testimoniali avevano evidenziato la formazione tra i mappali di un andito dal sedime sterrato, destinato all’accesso ai fabbricati confinanti, costituente parte comune tra i proprietari dei medesimi fabbricati.

La Corte d’appello riformava poi la statuizione sulle spese di lite, compensando le spese del doppio grado in ragione della equivocità delle risultanze processuali.

Per la cassazione di questa sentenza hanno proposto ricorso A. M.G. e S.B.; ha resistito, con controricorso, A.M.G., in proprio e quale unica erede di D. M.B..

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 cod. civ., e vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia.

I ricorrenti sostengono che la Corte d’appello avrebbe letto in modo incompleto la sentenza n. 14559 del 2004 di questa Corte, giacchè la estensione della presunzione di comunione anche al caso di parti comuni di edifici limitrofi e autonomi richiede non solo che il cortile consenta l’accesso a tutti i fabbricati che lo circondano, ma anche che lo stesso sia destinato a dare aria e luce ai medesimi fabbricati, laddove, nel caso di specie, tale ultimo requisito, per la stessa ubicazione degli edifici, non sussisteva, con conseguente inapplicabilità della presunzione. Inoltre, per la presunzione di comunione occorrerebbe comunque il requisito della appartenenza originaria del bene ad un unico proprietario.

I documenti versati in atti, inoltre, dimostravano che gli originari costruttori e i successivi proprietari del mappale n. 105, per fornire aria e luce al mappale n. 105, avevano deputato il terreno n. 104, mentre i mappali 107 e 1307 erano legati da vincolo pertinenziale ai fabbricati frontistanti e il mappale 120 non apparteneva ai medesimi soggetti che avevano poi edificato i mappali 105 e 106. In sostanza, la pretesa delle A. e D. di ritenere il terreno graffato al mappale 106 comune anche al mappale 120 era diretta al solo fine di ottenere un diretto collegamento tra i due mappali, ma un simile collegamento sarebbe funzionale solo a dare maggiore comodità alle istanti, non avendo invece la funzione di garantire aria, luce e accesso al loro immobile.

La Corte d’appello, proseguono i ricorrenti, avrebbe altresì errato nel ritenere che non fosse stata offerta la prova di un titolo contrario, atteso che dal contratto 9 luglio 1974 emergeva l’acquisto, in capo a A.M.G., della piena ed esclusiva proprietà del mappale 106 nonchè dei fondi adiacenti contraddistinti con i nn. 107 e 1307, con la consistenza che emerge dalle planimetrie catastali, mentre il fabbricato mappale n. 120 era già esistente quando gli altri fabbricati non erano ancora stati edificati.

Nè poteva ritenersi che le originarie convenute avessero usucapito la parte comune, atteso che non avevano fornito la prova di un possesso ultraventennale, idoneo a fondare l’acquisto del bene per usucapione.

Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano il vizio di motivazione per la mancata, errata o illegittima valutazione delle prove testimoniali, giacchè, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, i testi escussi nel corso del giudizio si erano limitati a fare riferimento al transito e al passaggio sul fondo di essi ricorrenti verso il solo mappale n. 105, ma ciò non perchè il cortile fosse comune, ma solo perchè in passato il mappale n. 105 era intercluso. Inoltre, la Corte d’appello, da un lato, non ha adeguatamente considerato le mappe catastali, dalle quali emergeva l’assenza di qualsiasi commistione tra il terreno di pertinenza del fabbricato di essi ricorrenti e i mappali 120 e 106, e, dall’altro, immotivatamente non ha disposto la richiesta consulenza tecnica d’ufficio al fine della descrizione dei luoghi.

Il primo motivo di ricorso è infondato.

La Corte d’appello ha fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte nell’interpretazione dell’art. 1117 cod. civ., e segnatamente nella parte in cui ha ritenuto applicabile la presunzione di comunione anche con riferimento a parti comuni a edifici diversi.

Questa Corte ha infatti più volte affermato che “la presunzione di proprietà comune di cui all’art. 1117 cod. civ., si applica per analogia anche ai cortili che si trovano fra edifici strutturalmente autonomi ed appartenenti a proprietari diversi e sono obbiettivamente destinati a dare aria e luce ai fabbricati che li fronteggiano” (Cass. n. 7630 del 1991); infatti, “la presunzione legale di comunione di talune parti, stabilita dall’art. 1117 cod. civ., senz’altro applicabile quando si tratti di parti dello stesso edificio, può ritenersi applicabile in via analogica anche quando si tratti non di parti comuni di uno stesso edificio, bensì di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, purchè si tratti di beni oggettivamente e stabilmente destinati all’uso od al godimento degli stessi, come nel caso di cortile esistente tra più edifici appartenenti a proprietari diversi, ove lo stesso sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano” (Cass. n. 14559 del 2004; Cass. n. 17993 del 2010).

Come si desume dalle citate pronunce, la funzione che le parti, delle quali si predica la comunione tra proprietari di edifici diversi, devono assolvere non deve necessariamente essere quella congiunta del dare luce, aria e consentire l’accesso ai detti edifici. Al contrario, è sufficiente che la parte comune sia destinata a dare la utilità che dalla stessa può ricavarsi, secondo la sua struttura e il nesso di collegamento con gli edifici appartenenti a proprietari diversi.

Del resto, proprio con riferimento al cortile, si è avuto modo di precisare che “l’art. 1117 cod. civ., individua i beni, tra i quali ricomprende i cortili, che sono oggetto di proprietà comune per loro natura o destinazione, salvi la vindicatio ex titulo, ovvero l’accertamento della destinazione particolare del bene al servizio di una o più determinate unità immobiliari. Pertanto, non è necessario, ai fini del riconoscimento della proprietà collettiva sul cortile, la dimostrazione della utilità specifica che da esso tragga ciascuna delle unità dell’edificio, dovendo, al contrario, essere dimostrata la destinazione particolare del bene di cui si tratta al servizio di alcune soltanto delle unità al fine di escludere il diritto di tutti i proprietari sul bene stesso. Nè è sufficiente, a tale scopo, il rilievo della mancata fruizione, da parte delle unità immobiliari prive di affaccio sul cortile, delle specifiche utilità di presa d’aria e luce o di accesso, non esaurendo dette utilità le potenzialità di sfruttamento del cortile, attinenti, tra l’altro, al parcheggio di veicoli o al deposito temporaneo di materiali durante i lavori di manutenzione delle singole unità” (Cass. n. 14128 del 2000).

In tale contesto, l’indagine non può che rivolgersi alla utilizzazione che in concreto i proprietari degli edifici limitrofi abbiano fatto dell’area comune, cortile o andito che sia. E nella specie, la Corte d’appello ha accertato, con motivazione immune da vizi logici e supportata dalle risultanze istruttorie, che gli originari convenuti avevano fatto uso dell’andito per accedere a beni loro proprietà esclusiva.

In presenza quindi di una destinazione ad uso comune, incombeva sugli attori l’onere di fornire la prova della esistenza di un titolo che attribuisse loro la proprietà esclusiva dell’area in questione. E tale prova secondo l’insindacabile accertamento del giudice di merito, non è nella specie stata fornita.

In particolare, la Corte d’appello ha escluso che i titoli di acquisto versati in atti dagli appellanti fossero idonei a dimostrare la loro proprietà esclusiva; e a tale conclusione è motivatamente pervenuta sulla base del rilievo che “le mappe catastali cui si riferiscono tali titoli non appaiono univoche in relazione alla situazione dei luoghi, profondamente trasformati a seguito della costruzione dei fabbricati e della formazione di un terreno sterrato omogeneo”.

Le censure dei ricorrenti non appaiono idonee ad indurre a diverse conclusioni e ad evidenziare vizi logici e giuridici o incongruenze della sentenza impugnata; senza dire che le censure stesse si fondano sulla utilizzazione di frammenti di atti negoziali o registri immobiliari non riprodotti nella loro interezza, sicchè non può ritenersi nella specie rispettato il principio di autosufficienza del ricorso.

Il secondo motivo è inammissibile.

E’ sufficiente infatti rilevare che con il motivo in esame i ricorrenti denunciano la mancata, erronea o illegittima “valutazione” delle prove per concludere che la censura introdotta contrasta con il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui “il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 cod. proc. civ., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (v., da ultimo, Cass. n. 6288 del 2011).

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti, in solido tra loro e in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2011

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