Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29342 del 28/12/2011

Cassazione civile sez. II, 28/12/2011, (ud. 20/10/2011, dep. 28/12/2011), n.29342

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. NUZZO Laurenza – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

L.S. e M.L., rappresentati e difesi, in

forza di procura speciale in calce a ricorso, dail’Avv.to Grimaudo

Salvatore del foro di Palermo ed elettivamente domiciliati presso lo

studio dell’Avv.to Lucia Scalone di Montelauro in Roma, via Cola di

Rienzo n. 162;

– ricorrente –

contro

PAGAM s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, e

T.P., rappresentati e difesi dall’avv.to Evola

Giuseppe del foro di Palermo, in virtù di procura speciale apposta

in calce al controricorso, ed elettivamente domiciliati presso lo

studio dell’Avv.to Giuseppe Baldi in Roma, Lungotevere Flaminio n.

26;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo n. 1343

depositata il 4 novembre 2005;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 20

ottobre 2011 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito l’Avv.to Lucia Scalone di Montelauro (con delega dell’Avv.to

Salvatore Grimaudo), per parte ricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del

terzo e del quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 24 giugno 1999 S. L. e M.L. evocavano, dinnanzi al Tribunale di Palermo, la PAGAM s.r.l. e T.P., quest’ultimo in qualità di fideiussore della prima, esponendo che con contratto preliminare del 23.11.1996 la società convenuta aveva loro promesso in vendita un corpo accessorio su due elevazioni, in catasto alla particella 1485 del foglio 3 del Comune di (OMISSIS), oltre una annessa porzione di terreno di mq. 800 circa, per il prezzo di L. 995.000.000, rilasciata quietanza quanto a L. 825.000.000 per compensazione con pregressi crediti dei promissari acquirenti ed il resto da versare alla stipula dell’atto pubblico da effettuarsi entro il 31.5.1997, mediante accollo di un preesistente debito della PAGAM s.r.l. nei confronti del Banco di Sicilia; aggiungevano che con il medesimo preliminare la società convenuta si era obbligata ad ottenere la sanatoria dell’opera promessa in vendita, ma nonostante i ripetuti solleciti, non si era giunti alla stipula dell’atto pubblico, anche perchè il Comune di Palermo il 14.4.1997 aveva rigettato l’istanza di concessione in sanatoria e pertanto chiedevano dichiararsi risolto il contratto preliminare ex art. 1453 c.c. con condanna dei convenuti alla restituzione del prezzo per cui vi era quietanza. Istauratosi il contraddicono, nella resistenza dei convenuti che deducevano avere assunto nei confronti dei promissari acquirenti il solo obbligo di presentare la domanda di concessione in sanatoria, per cui spiegavano riconvenzionale per ottenere sentenza ex art. 2932 c.c., oltre al risarcimento dei danni per ritardo nella stipula dell’atto pubblico, il Tribunale adito, espletata istruttoria, rigettava sia la domanda attorea sia quella riconvenzionale.

In virtù di rituale appello interposto dai L. – M., con il quale lamentavano che il giudice di prime cure avesse ritenuto non assunto dalla promittente venditrice l’obbligo del buon esito della pratica in sanatoria dell’immobile, la Corte di appello di Palermo, nella resistenza degli appellati, che precisavano essere intervenuto il provvedimento di rigetto dell’istanza di concessione in sanatoria soltanto il 17.1.2001 (oggetto di ricorso al T.A.R. da parte della PAGAM), rigettava l’appello.

A sostegno dell’adottata sentenza, la corte territoriale – preliminarmente ritenuta l’inammissibilità dell’ulteriore produzione documentale degli appellanti – evidenziava che la promittente venditrice nel contratto preliminare dava atto che intendeva avvalersi della procedura di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 13 immobile che veniva venduto nello stato in cui si trovava con assunzione da parte della PAGAM dell’impegno di richiedere il rilascio della concessione in sanatoria con accollo delle relative spese, precisato che il geom. T. non aveva assunto alcuna responsabilità circa la possibilità di potere stipulare l’atto pubblico ove la sola presentazione della richiesta di rilascio della concessione in sanatoria non fosse stata sufficiente. Aggiungeva che entrambe le parti contraenti erano ben a conoscenza della situazione giuridica in cui si trovava l’immobile, nonchè della possibilità che il Comune di (OMISSIS) potesse negare il rilascio della concessione in sanatoria ovvero potesse protrarsi per un tempo indefinibile la procedura, tanto da prevedere in tal caso che l’immobile venisse comunque consegnato ai promissari acquirenti.

Concludeva che nessun inadempimento era configurabile in capo alla PAGAM, la quale aveva inoltrato la domanda di concessione in sanatoria e al mancato rilascio, aveva invitato i promissari acquirenti a prendere in consegna l’immobile.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Palermo hanno proposto ricorso per cassazione i L. – M., che risulta articolato su sei motivi (per mero errore materiale indicato due volte il numero tre), al quale hanno resistito la società PAGAM s.r.l. ed il T. con controricorso.

Hanno presentato memoria illustrativa i ricorrenti.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nonchè la insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per avere la corte di merito errato ritenendo inammissibile la produzione in appello delle copie di provvedimento del Comune di Palermo rilasciate solo il 4.3.2002 e dunque successivamente alla pubblicazione della sentenza di primo grado, indispensabili ai fini della decisione. La questione attiene alla più generale problematica dell’estensione, nel giudizio a cognizione ordinaria, della normativa sul divieto di ammissione di “nuovi mezzi di prova” alle prove costituite, anche con riferimento alle connesse problematiche attinenti all’individuazione dei limiti che la produzione di “nuovi” documenti incontra nel giudizio di appello.

In giurisprudenza, prima delle sentenze della Cassazione a Sezioni Unite nn. 8202 e 8203, del 20 aprile 2005, si riscontrava una diversità di orientamenti sull’interpretazione da dare al disposto dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo sostituito dalla L. n. 353 del 1990, art. 52 applicabile a decorrere dal 30 aprile 1995. Con le predette decisioni la Suprema Corte ha dato una risposta in termini unitari alla tematica della inclusione anche delle prove documentali nell’ambito dei “nuovi mezzi di prova” cui fa riferimento l’art. 345 c.p.c., comma 3, per il rito ordinario. Ciò in rispondenza alle esigenze di particolare celerità e di concentrazione che con il rito introdotto nel 1990 il legislatore ha voluto soddisfare. Del resto era opinione generale che la produzione di nuovi documenti, pur non richiedendo un procedimento di “assunzione” della prova, poteva determinare un prolungamento delle attività processuali.

Le SS.UU. hanno affermato che il legislatore al fine di trovare un punto di equilibrio tra esigenze di efficienza del processo ed il diritto di difesa delle parti in relazione al giudizio di cognizione ordinaria, aveva disciplinato le modalità di produzione dei documenti e la proposizione dei mezzi di prova inserendo la fase delle deduzioni e richieste istruttorie tra la fase di trattazione e quella si assunzione delle prove costituende, facendo ivi scattare per le parti la preclusione in tema di istanze istruttorie. Il superamento della barriera preclusiva di cui all’art. 184 c.p.c. importava, perciò, la decadenza (con effetti irreversibili) dal potere di esibire documenti, salvo che la loro produzione fosse giustificata dallo sviluppo assunto dal processo o che la formazione fosse successiva allo spirare dei termini concessi ex art. 184 c.p.c. ovvero all’ordinanza di ammissione delle prove.

Le medesime argomentazioni valevano per la lettura dell’art. 345 c.p.c., comma 3, laddove la L. n. 353 del 1990 aveva aggiunto, al preesistente divieto di domande nuove, anche quello di nuove eccezioni e di nuovi mezzi istruttori, sì da pervenire alla “pressocchè totale abolizione dello ius novorum”, facendo “assumere all’appello il carattere della revisio prioris istantiae, per essere stati eliminati quegli elementi spuri che permettevano la configurazione del giudizio di gravame come una prosecuzione ed un completamento di quello di primo grado”.

Ne discende che deve affermarsi il principio di diritto secondo cui, nel regime dell’art. 345 c.p.c., comma 3, anteriore alla modifica operata con l’inserimento del riferimento ai nuovi documenti dalla L. n. 69 del 2009, art. 46 (nel quale il generico riferimento ai documenti comunque conferma ed impone la stessa conclusione), l’espressione “nuovi mezzi di prova” comprendeva qualsiasi documento, di modo che nel divieto di produzione di nuovi mezzi di prova doveva ritenersi compresa anche quella di provvedimento adottato da ente locale, che sebbene rilasciato ai ricorrenti solo il 4.3.2002, previa loro richiesta, era acquisitale in data anteriore all’introduzione del presente giudizio, afferendo a procedimento amministrativo del 1997. Nè il documento avrebbe potuto trovare ingresso nel giudizio di appello sotto il profilo della indispensabilità, perchè suscettibile di una influenza causale più incisiva sulla decisione finale della controversia, unica ipotesi in cui sarebbe stata ammissibile detta produzione, pur ferma la circostanza che il rigetto dell’istanza di sanatorie è datato ben un anno e mezzo prima della introduzione del giudizio in primo grado e che, dunque, non è dubbio che avrebbe potuto essere prodotto già prima dell’appello, si osserva che il concetto di indispensabilità del nuovo mezzo di prova si deve ricostruire tenendo conto che, prospettandosi l’esigenza della nuova prova in una situazione in cui nel processo è ormai sopravvenuta la decisione, l’indispensabilità necessariamente deve apprezzarsi in relazione alla decisione stessa ed al modo in cui essa si è formata. Se, dunque, la formazione della decisione è avvenuta in una situazione nella quale lo sviluppo del contraddittorio e delle deduzioni probatorie avrebbero consentito alla parte di valersi del mezzo di prova perchè funzionale alle sue ragioni, automaticamente si deve escludere che la prova sia indispensabile, se la decisione si è formata prescindendone, perchè è imputabile alla negligenza della parte non avere introdotto nel processo la prova che bene avrebbe potuto introdurvi secondo una condotta processuale ispirata all’assicurazione del massimo di possibilità di azione e difesa. In altri termini, non si può prospettare come indispensabile la prova che tale appariva o poteva soggettivamente apparire – al di là della sua concreta efficacia ed utilitas -durante lo svolgimento del contraddittorio in primo grado e prima della formazione delle preclusioni probatorie. Se lo si consentisse, le preclusioni probatorie verrebbero vanificate. L’indispensabilità deve, invece, confrontarsi con il tenore della decisione, nel senso che deve essere soltanto quanto la decisione afferma sul piano probatorio (cioè a commento delle risultanze probatorie acquisite) ad evidenziare la necessità di un apporto probatorio, che, invece, nel pregresso contraddittorio in primo grado e nella relativa istruzione non era viceversa apprezzabile come utile e necessario (v. in tal senso, da ultimo, Cass. 31 marzo 2011 n. 7441).

Ricostruito in questo senso, il concetto di indispensabilità non collide con un impianto processuale imperniato sulle preclusioni e si presenta anzi perfettamente armonico.

Nella vicenda che si giudica la pretesa dei ricorrenti di introdurre in appello il provvedimento di rigetto dell’istanza di sanatoria si collocava del tutto al di fuori dell’ambito della indispensabilità così individuato e del quale la motivazione della sentenza impugnata ha fatto sostanziale applicazione.

Il motivo è, dunque, palesemente infondato.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367, 1370 e 1371 c.c., nonchè la omessa motivazione avendo errato la corte distrettuale nel procedere alla interpretazione del preliminare privilegiando una valutazione deduttiva dell’accordo alla esegesi obiettiva e letterale, assumendo che l’obbligazione assunta dalla PAGAM con il contratto in contestazione non fosse quella di trasferire l’immobile oggetto del negozio, ma soltanto quella di formulare una domanda di sanatoria dell’immobile che si era obbligato a vendere, argomentando tale decisione con motivazione che “faceva astrazione della verità processuale”. In altri termini, secondo l’assunto dei ricorrenti la sentenza avrebbe dovuto affermare che l’obbligazione della promittente venditrice era esclusivamente quello di procedere al trasferimento dell’immobile e non già solo quella di presentare la domanda di sanatoria. Il secondo motivo appare anch’esso infondato.

La Corte di merito, richiamato il percorso logico che ha sorretto la decisione del primo giudice, che ha ritenuto adeguatamente motivata, ne ha quindi confermato la conclusione, rilevando anzitutto che la denuncia con cui gli appellanti, attuali ricorrenti, hanno prospettato una diversa interpretazione dell’atto negoziale non poteva essere condivisa essendo ben consapevoli entrambe le parti contraenti della situazione giuridica in cui si trovava l’immobile al momento della conclusione del preliminare e la PAGAM s.r.l., che intendeva avvalersi della procedura prevista dalla L. n. 47 del 1985, art. 13 “non assume nessuna responsabilità circa la possibilità di potere stipulare il detto atto ove la sola presentazione della richiesta di rilascio della concessione in sanatoria non fosse sufficiente”, prevedendosi, che in ogni caso si sarebbe comunque proceduto alla consegna dell’immobile.

Sulla scorta di tale impostazione, occorre osservare che era esatto ritenere che obbligazione principale fosse quella di trasferire la proprietà del bene nel termine fissato a favore del debitore, seppure tale adempimento fosse condizionato all’ottenimento della sanatoria edilizia L. n. 47 del 1985, ex art. 13 della cui necessità al fine del trasferimento i promissari acquirenti erano a conoscenza.

D’altro canto la parte promittente venditrice, da un lato, aveva tempestivamente osservato l’obbligo assunto di chiederne il rilascio, e, dall’altro, aveva escluso qualsiasi garanzia in caso di mancato rilascio.

I ricorrenti muovono la loro critica avverso questa soluzione in maniera generica. La premessa sulla quale si articola il sillogismo che approda alla conclusione riferita poggia sul rilievo che la domanda formulata nell’atto introduttivo deve essere interpretata, come del resto si era sostenuto nella pronuncia del tribunale, nel senso che essa ha avuto ad oggetto l’adempimento dell’obbligo di trasferimento del bene. La prospettazione del rapporto sotto il diverso profilo dell’impossibilità sopravvenuta del trasferimento a seguito del diniego della concessione in sanatoria nel termine stabilito nel contratto per la stipula del definitivo o in un tempo ragionevole non ha rappresentato oggetto di indagine in quanto non ha formato oggetto di allegazione difensiva, di cui perciò l’organo di gravame non ha tenuto conto. Nel corpo della critica mossa a questa decisione non si rinviene alcuna censura relativa ad un probabile errore d’interpretazione della disciplinare negoziale in cui sarebbe incorso il giudice del gravame, laddove ha escluso in radice l’assunzione di una responsabilità della PAGAM s.r.l. per la stipula del contratto definitivo all’esito della procedura amministrativa di sanatoria dell’immobile, in quanto si deve rilevare che i ricorrenti censurano la decisione impugnata lamentando, al di là dell’enunciazione del vizio di motivazione rappresentato in rubrica, che il tenore letterale delle dichiarazioni contrattuali in esame, non manifestano adeguatamente la volontà delle parti, e che la corte di merito non ha indagato sulla effettiva consapevolezza dei promissari acquirenti circa gli effetti della mancata sanatoria del bene oggetto di compravendita. Insistono nella censura d’illogicità della motivazione, che è altresì, a loro avviso, carente nella parte in cui non ha tenuto conto che con detta interpretazione la promissaria acquirente era autorizzata a tenersi “il denaro ed i beni”, e, ribadiscono, che nessuna analisi sarebbe stata fatta relativamente alla correttezza della formulazione della previsione negoziale ed all’adempimento degli obblighi connessi.

Occorre rilevare che siffatta denuncia non è da accogliere essendo rimasto accertato, a parere dagli organi di merito, con accertamento che non è sindacabile in questa chiave e in questa sede, in quanto suffragato da argomentazione logica ed adeguata, che le espressioni usate nell’atto preliminare di compravendita tenevano conto della possibilità dell’esito negativo della procedura amministrativa, tanto da avere previsto comunque la consegna dell’immobile oggetto del contratto.

I ricorrenti, ravvisando in questa conclusione una carenza motivazionale solo genericamente enunciata, denunciano la violazione dei canoni generali di ermeneutica contrattuale, limitandosi a richiamare la norma contenuta nell’art. 1362 c.c. in maniera oltremodo generica, e proponendo in sostanza la loro lettura, in tesi più corretta, dal testo dell’atto controverso, con cui sollecitano un’indagine che esorbita però dagli stretti margini entro cui deve condursi la verifica sull’atto medesimo in questa sede. Siccome l’interpretazione dei contratti e degli atti negoziali in genere rientra nell’esclusiva competenza del giudice di merito, “essendo il sindacato di legittimità limitato alla sola verifica del rispetto dei canoni legali posti dal codice civile, nonchè alla coerenza e logicità della motivazione, occorre che, laddove venga dedotta violazione dei citati criteri interpretativi, venga però precisato in quale modo il ragionamento del giudice se ne sia discostato, e all’uopo non è sufficiente il generico richiamo ai criteri astrattamente intesi e neppure una critica della ricostruzione della volontà dei contraenti non riferibile a tale violazione, ma consistente nella prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza impugnata. Ove poi la censura riguardi anche il vizio di motivazione, nel quale il giudice sarebbe incorso a prescindere dal rispetto dei citati canoni ermeneutici, essa deve investire l’obiettiva deficienza o la contraddizione del ragionamento su cui si fonda l’interpretazione accolta, potendo il sindacato di legittimità riguardare unicamente la coerenza formale della motivazione ovvero l’equilibrio dei vari elementi che ne costituiscono la struttura argomentativi” (cfr. Cass. 27 gennaio 2006 n. 1754 per tutte).

Alla luce di questo principio cui si presta adesione senza necessità di rivisitazione, perfettamente calzante alla presente fattispecie, appare evidente la genericità della censura in esame, sia in ordine al richiamo della regola astratta posta dall’art. 1362 c.c., sia all’enunciazione del vizio di motivazione, non concretamente relazionato a precisi passaggi dell’apparato motivazionale stesso.

Con il terzo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione di norma di diritto, in particolare degli artt. 1453 e 1458 c.c., e della L. n. 47 del 1985, art. 10 nonchè la omessa ed insufficiente motivazione per avere ritenuto il giudice del gravame adempiente il prominente venditore all’obbligazione principale di trasferire l’immobile oggetto del preliminare per essere stato considerato sufficiente a tal fine l’affermazione di avere inoltrato la domanda di sanatoria dell’immobile. Assumono i ricorrenti che la sentenza affermando che la promittente venditrice aveva osservato l’onere di richiedere la sanatoria non ha considerato che il trasferimento sarebbe potuto avvenire nel termine fissato se quest’ultima avesse provveduto a chiedere il condono L. n. 47 del 1985, art. 31 ed a corrispondere le prime due rate della somma necessaria per tale condono; concludono, altresì, che l’esecuzione dell’obbligazione doveva ritenersi ormai impossibile.

Anche il terzo mezzo è infondato.

La sentenza impugnata ha precisato che l’onere assunto dalla promittente venditrice era quello di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 13 e l’interpretazione conclusivamente accolta dalla Corte di merito viene censurata proponendo una diversa lettura del regolamento negoziale, che si risolve nella pretesa di un suo nuovo apprezzamento, che non è percorribile in questa seda di legittimità.

Il giudice del gravame, che ha esposto la sua conclusione con motivazione congrua ed immune da vizi logici ed errori di diritto, ha ravvisato nella vicenda l’assunzione di un’obbligazione a presentare domanda di sanatoria ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 13 trattandosi di immobile costruito in assenza di concessione edilizia, seppure conforme al piano regolatore, con ciò esprimendo apprezzamento circa la natura dell’obbligo concordato, che non può essere censurato nel merito innanzi a questa Corte.

La censura, poi, nel prospettare la sanabilità dell’immobile avvalendosi della diversa ipotesi di condono, di cui ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 31, introduce una questione nuova che, involgendo anche accertamenti di fatto, è inammissibile in questa sede.

Con il quarto motivo (per mero errore materiale indicato quale terzo) viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1229 e 1418 c.c., oltre alla omessa e contraddittoria motivazione per avere la corte distrettuale ritenuto la validità della clausola di esonero da responsabilità del promittente venditore non rilevando la nullità della stessa.

Il motivo va disatteso.

Occorre qui considerare che la circostanza che l’accordo concluso fra le parti fosse affetto da nullità per invalidità della clausola di esonero da responsabilità della promittente venditrice dovuta a dolo non ha formato oggetto di esame da parte dei giudici di merito, tenuto conto che, secondo quanto ancora risulta dalla predetta decisione, la deduzione di erronea interpretazione del contratto formulata con l’unico motivo di gravame aveva avuto riguardo alla motivazione che aveva ritenuto non inadempiente la PAGAM s.r.l.

proprio alla luce del tenore dell’accordo negoziale.

Tenuto conto che, come si è detto, la questione non risulta trattata dalla decisione impugnata, sarebbe stato onere del ricorrente allegare e dimostrare di averla tempestivamente e ritualmente proposta nel giudizio di merito, invocando l’omesso esame (in tal senso v. Cass. 1 dicembre 2010 n. 24382 per tutte).

In quest’ottica va rimarcato, quanto alla prospettazione della nullità del contratto, che questa Corte ha ripetutamente affermato che il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità di un contratto ex art. 1421 c.c. va coordinato con il principio della domanda fissato dagli artt. 99 e 112 c.p.c., sicchè solo se sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare, in qualsiasi stato e grado del processo, l’eventuale nullità dell’atto. Al contrario, qualora la domanda sia diretta a fare dichiarare la invalidità del contratto o a farne pronunziare la risoluzione per inadempimento, la deduzione (nella prima ipotesi) di una nullità diversa da quella posta a fondamento della domanda e (nella seconda ipotesi) di una qualsiasi causa di nullità o di un fatto costitutivo diverso dall’inadempimento, sono inammissibili; nè tali questioni possono essere rilevate d’ufficio, ostandovi il divieto di pronunziare ultra petita (cfr. ex plurimis: Cass. 6 agosto 2003 n. 11847; Cass. 14 gennaio 2003 n. 435; Cass. 17 maggio 2002 n. 7215).

In altri termini, la lettura dell’art. 1421 c.c. deve essere coordinata con la statuizione dell’art. 112 c.p.c. che, sulla base del principio dispositivo su cui va modellato il processo, impone al giudicante il limite insuperabile della domanda attorea. Così la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto opera quando si chieda l’adempimento del contratto stesso, allorquando, cioè, si vogliano far valere diritti presupponenti la validità del contratto medesimo, in considerazione del potere – dovere del giudice di verificare la sussistenza delle condizioni dell’azione, indipendentemente dalla condotta processuale della parte nei cui confronti si chiede che il contratto spieghi i suoi effetti. Ne consegue che la nullità può essere rilevata d’ufficio solo se si pone – va ancora una volta ribadito – in contrasto con la domanda dell’attore, solo, cioè, se questi ha chiesto l’adempimento del contratto, in quanto il giudicante può sempre rilevare d’ufficio le eccezioni, che non rientrino tra quelle sollevabili unicamente tra le parti e che soprattutto non amplino l’oggetto della controversia, ma che, per tendere al rigetto della domanda stessa, si configurano come mere difese del convenuto, dovendosi di contro pervenire a diverse conclusioni nei casi in cui la nullità si colloca non nell’ambito delle eccezioni ma “nella zona delle difese dell’attore, che l’attore avrebbe potuto proporre, ma non ha proposto”. L’argomento in questione trova ulteriore conferma sulla base del principio del giusto processo e del disposto dell’art. 111 Cost., così come modificato dalla L. 23 novembre 1999, n. 2, art. 1 alla luce del quale si legittima un sistema processuale che obbliga le parti, sin dai loro primi atti difensivi, a compiutamente indicare gli elementi di fatto e di diritto posti a base della loro richiesta, ad assicurare un pieno e completo contraddittorio tra le parti stesse su un piano di assoluta parità, seppure nel rispetto di termini di decadenza e di preclusioni aventi portata acceleratoria del processo (cfr. da ultimo Cass., Sez. Un., 20 aprile 2005 n. 8202 e 8203), ed ad evitare, al di là di precise e certe indicazioni normative, ampliamenti di poteri di iniziativa officiosa suscettibili di tradursi in un soggettivismo giudiziario, capace di incidere con ricadute negative anche sulla certezza del diritto (Cass. 27 aprile 2011 n. 9395).

Nel caso di specie, non è dubbio che il L. ed il M. hanno agito per la risoluzione del preliminare di vendita; la successiva domanda volta ad ottenere la dichiarazione della nullità della clausola di esclusione della responsabilità della promittente venditrice con riferimento alla procedura di condono edilizio per dolo e violazione di legge introduce pertanto, un nuovo thema decidendum che investe l’invalidità del contratto che non è suscettibile di essere rilevata d’ufficio dal giudice,in virtù di quanto affermato dalla giurisprudenza dianzi rammentata (senza incorrere nel vizio di ultra petizione), stante la tardività della nuova domanda.

Con il quinto motivo viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1418 c.c., oltre alla omessa motivazione per non avere la corte di merito rilevato la impossibilità dell’oggetto del contatto preliminare, accertata la intrasferibilità dell’immobile, e conseguentemente omesso di dichiarare la nullità del contratto per impossibilità dell’oggetto.

Anche detta censura introduce una questione nuova, per quanto sopra esposto, e come tale è inammissibile in sede di legittimità.

Inoltre deve osservarsi che nella specie si tratta di contratto non già nullo, ma risolubile per impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione in cospetto di definitivo rigetto da parte della pubblica amministrazione della richiesta di sanatoria edilizia.

Con il sesto ed ultimo motivo viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., anche per difetto di motivazione, per avere condannato i ricorrenti alla rifusione delle spese processuali in conseguenza degli errori sopra esposti.

Il motivo non è fondato poichè rimane ferma la soccombenza del L. e del M.. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di questo giudizio.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2A Sezione Civile, il 20 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2011

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