Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29336 del 22/12/2020

Cassazione civile sez. I, 22/12/2020, (ud. 11/11/2020, dep. 22/12/2020), n.29336

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22531/2016 proposto da:

Arnoldo Mondadori Editore S.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore, S.A., quale direttore

responsabile del settimanale (OMISSIS), elettivamente domiciliati in

Roma, Via G. B. de Rossi n. 32, presso lo studio dell’avvocato Volo

Grazia, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

Sistopaoli Anna, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Sa.Mi., P.S., elettivamente domiciliati in Roma,

Via Silvio Pellico n. 2, presso lo studio dell’avvocato Fiore

Ignazio, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati

Borrè Lorenzo, Fiore Andrea, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1456/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 13/04/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

11/11/2020 dal cons. Dott. TERRUSI FRANCESCO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

il tribunale di Milano, con sentenza depositata il 6-5-2015, accertava l’illiceità della pubblicazione avvenuta il (OMISSIS), sul n. (OMISSIS) del settimanale “(OMISSIS)”, di sette fotografie ritraenti Sa.Mi. e la moglie P.S. a corredo di un articolo, presentato in prima pagina, dal titolo “(OMISSIS). Il riposo del guerriero”; condannava di conseguenza i convenuti Arnoldo Mondadori Editore s.p.a. e S.A., nella rispettiva qualità di titolare e responsabile del trattamento, al risarcimento dei danni (quantificati nella somma di giustizia) per la lesione del diritto alla riservatezza e alla protezione dei dati personali, nonchè per la lesione del diritto all’immagine;

i soccombenti impugnavano la sentenza dinanzi alla corte d’appello di Milano, a misura dei capi e delle statuizioni relative al presunto illecito civile ordinario per danno all’immagine, cumulato a quello relativo al trattamento dei dati personali;

la corte d’appello, con sentenza resa a verbale del 13-4-2016, ha dichiarato inammissibile il gravame poichè il primo giudice – che era stato investito della controversia dopo che il tribunale di Roma, con ordinanza D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 4 aveva dichiarato la propria incompetenza e disposto che la causa fosse riassunta nelle forme di cui all’art. 10 (vale a dire col rito del lavoro) – aveva manifestato semplicemente il dubbio che il cumulo di domande consentisse di far luogo al criterio della prevalenza del rito speciale, ma non aveva sollevato alcun conflitto, e aveva, invece, deciso la causa proprio a norma del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 10; cosicchè il rito applicato era stato infine quello speciale, non contemplante l’appello contro la sentenza di merito;

Arnoldo Mondadori Editore s.p.a. e S.A. hanno proposto ricorso per cassazione deducendo un solo motivo;

gli intimati si sono costituiti resistendo;

le parti hanno depositato memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con l’unico motivo i ricorrenti censurano la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 99,101,112,113,323,339,341 c.p.c., nonchè del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 10 e del D.Lgs. n. 156 del 2003, art. 152 (cd. codice privacy), artt. 24 e 11 Cost.; sostengono che il tribunale abbia esaminato due domande, qualificandole come relative, l’una, alla violazione del codice della privacy e, l’altra, a ulteriori illeciti civili, e che, rilevando di non poter mutare il rito individuato nell’ordinanza di rimessione, abbia anche affermato che il rito non avrebbe potuto incidere sui diversi mezzi di impugnazione previsti per le cause connesse;

a fronte di tanto, lamentano che la corte d’appello abbia erroneamente ritenuto, invece, che il mezzo di impugnazione esperibile fosse determinato giustappunto dal rito, ovvero dal nomen iuris del provvedimento, quando invece l’impugnazione doveva esser retta dalla qualificazione della domanda;

il ricorso è infondato;

l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va fatta in base alla qualificazione giuridica del rapporto controverso operata dal giudice, a prescindere dalla sua esattezza (v. Cass. n. 2948-15, Cass. n. 21520-15);

tanto costituisce applicazione del cd. principio di apparenza (cfr. Cass. n. 20811-10), secondo il quale l’identificazione del mezzo di impugnazione richiede di operare a tutela dell’affidamento della parte con riferimento esclusivo a quanto previsto dalla legge per le decisioni emesse secondo il rito in concreto adottato;

nella concreta fattispecie si comprende dalla sentenza d’appello che il tribunale aveva deciso sul presupposto che il rapporto processuale dovesse essere qualificato come afferente all’illecito trattamento dei dati personali, tanto da aver esplicitamente affermato di giudicare il tutto unitariamente “a norma del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4”;

ciò consente di condividere la declaratoria di inammissibilità dell’appello;

l’assunto dei ricorrenti è nel senso che la fattispecie imponesse l’esperibilità di distinti mezzi di impugnazione in relazione all’avvenuto esame di diverse domande soggette a diverso regime; ma è assertivo sostenere che le domande fossero caratterizzate da distinte causae petendi, in quanto la diversificata modalità di tutela giurisdizionale è in generale da escludere ove le domande siano proposte nel contesto di una situazione illecita postulata in modo unitario;

l’impugnata sentenza – anche sul piano qualificatorio – ha alluso al fatto che i danni risarcibili erano stati prospettati come conseguenza dell’illecita diffusione dei dati acquisiti; e ciò vuol dire che, secondo il giudice del merito, la causa petendi era infine unica e relativa alla violazione del codice della privacy, finanche come specificazione della responsabilità aquiliana;

le spese processuali seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, alle spese processuali, che liquida in 4.200,00 EUR, di cui 200,00 EUR per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella massima percentuale di legge.

Dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello relativo al ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione Prima civile, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2020

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