Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29331 del 13/11/2019

Cassazione civile sez. III, 13/11/2019, (ud. 03/07/2019, dep. 13/11/2019), n.29331

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27867-2017 proposto da:

D.V.L., D.V.G., D.M.I.,

DE.VE.GI., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA BARBERINI 29,

presso lo studio dell’avvocato MANFREDI BETTONI, che li rappresenta

e difende unitamente all’avvocato ANNA PAOLA TOMASSETTI;

– ricorrenti –

contro

GENERALI ITALIA SPA, in persona del procuratori speciali Dott.

C.P. e Dott. P.M., elettivamente domiciliata in

ROMA, LUNGOTEVERE DELLA VITTORIA 9, presso lo studio dell’avvocato

GIOVANNI ARIETA, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato MATTEO MUNGARI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3296/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 18/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/07/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso p.q.r;

udito l’Avvocato MANFREDI BETTONI;

udito l’Avvocato ANTONIO PERELLI;

udito l’Avvocato GIAMPAOLO RUGGIERO per delega;

udito l’Avvocato FRANCESCA ERRICO per delega;

udito l’Avvocato GIOVANNI ARIETA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. D.V.G. e D.M.I., in proprio e quali rappresentanti legali dei propri figli minori Gi. e D.V.L., convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Rieti, l’Azienda Unità Sanitaria Locale di Rieti, il Dott. M.L. e l’ostetrica Ca.Be., chiedendo che fossero condannati in solido al risarcimento dei danni, a titolo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, per aver determinato o comunque concorso a determinare i gravissimi danni subiti dal piccolo Gi. in occasione della sua nascita, avvenuta presso l’Ospedale (OMISSIS).

A sostegno della domanda esposero, tra l’altro, che la D.M., recatasi in ospedale alle ore 6,30 per la prematura rottura delle membrane verificatasi alla trentaquattresima settimana di gravidanza, aveva partorito alle ore 20,30 di quello stesso giorno. Il neonato, dopo alcuni giorni in incubatrice, era stato dimesso con diagnosi di prematurità e crisi di cianosi; ma dopo circa un anno una diversa struttura sanitaria aveva diagnosticato al bambino un ritardo neuromotorio associato ad ipertono con esiti di leucomalacia periventricolare; e poi, dopo un altro anno circa, vi era stata la diagnosi definitiva di paralisi cerebrale infantile e displegia spastica, considerata collegata al parto.

Gli attori identificarono la responsabilità dei convenuti nel non aver praticato il taglio cesareo, lasciando che il parto avvenisse dopo oltre dodici ore dal ricovero, nell’aver trascurato i segni della sofferenza fetale e nel non aver allertato il reparto di neonatologia dell’ospedale per gli accertamenti e le cure urgenti.

Si costituirono in giudizio i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda. La ASL, in particolare, chiese di poter chiamare in manleva la sua società assicuratrice, cioè la s.p.a. Assitalia, la quale pure si costituì chiedendo il rigetto della domanda.

Espletate due distinte c.t.u., il Tribunale rigettò la domanda nei confronti del Dott. M. e dell’ostetrica Ca., mentre accolse in parte quella contro la ASL, che fu condannata al pagamento della somma di Euro 100.000, con parziale compensazione delle spese di lite, con contestuale accoglimento della domanda di manleva proposta dalla ASL nei confronti della s.p.a. Assitalia.

2. La pronuncia è stata impugnata in via principale da D.V.G. e D.M.I. e in via incidentale dalla ASL reatina e dalla società di assicurazione, e la Corte d’appello di Roma, dopo aver disposto un’ulteriore c.t.u., con sentenza del 18 maggio 2017, in riforma di quella del Tribunale, ha accolto l’appello incidentale, ha respinto quello principale e ha di conseguenza rigettato in toto la domanda risarcitoria avanzata dai genitori, contestualmente condannandoli alla restituzione della somma incassata a seguito della pronuncia della decisione di primo grado, il tutto con compensazione integrale delle spese dei due gradi di giudizio.

Ha osservato la Corte territoriale che, alla luce del contenuto della nuova c.t.u. disposta in appello, affidata ad un collegio di professori, doveva essere confermata la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda nei confronti del medico e dell’ostetrica. Non vi era, infatti, alcun elemento di criticità nel percorso che aveva condotto la gestante al parto, nè dati clinici dai quali emergeva una ridotta disponibilità di ossigeno intrauterino nel corso del travaglio del parto, nè indicazioni di sorta per la necessità di un parto cesareo. Anche l’assistenza resa al bambino dopo la nascita era da ritenere adeguata; pur essendo documentato che il neonato aveva presentato alcuni tremori nei giorni successivi alla nascita, non era infatti possibile affermare con certezza che tali tremori fossero invece delle convulsioni, anche se sarebbe stato auspicabile che venisse eseguito un encefalogramma che avrebbe coadiuvato nella diagnosi di convulsioni.

Sulla base di tale c.t.u. la Corte romana ha accertato che l’origine della condizione patologica manifestata dal piccolo già alla nascita non poteva considerarsi conseguente a negligenze o imperizie dell’ospedale reatino, essendo palese che “il danno accertato ex post si collegasse direttamente ad un insulto ipossico-ischemico già insorto nel feto prima della nascita e prima dell’arrivo della partoriente presso il nosocomio”. Il danno ipossico-ischemico aveva infatti generato la leucomalacia periventricolare, patologia che insorge solitamente tra la ventottesima e la trentatreesima settimana di gravidanza. Richiamati i profili pediatrico-neonatologici e medico-legali della suindicata c.t.u., la Corte ha osservato che la patologia di base era quindi insorta prima del ricovero in ospedale e che, pur potendo in apparenza emergere “alcuni profili di apparente negligenza dei sanitari nella fase post-partum, per non avere indagato la natura dei “tremori” che presentava il neonato dopo la nascita”, gli stessi consulenti tecnici avevano “escluso che si potesse valutare come ricorrente il nesso di causa tra una diversa condotta dei sanitari e il danno cerebrale accertato nel neonato”.

L’unico dubbio, secondo la Corte, era costituito dalla difficoltà di interpretazione di quei tremori; i quali, se fossero stati vere e proprie convulsioni, avrebbero preteso un diverso trattamento che non era stato adottato, costituito da un pieno accertamento diagnostico con elettroencefalogramma e cura con i barbiturici. Tuttavia a tale conclusione non poteva giungersi, perchè non vi era “certezza della effettiva esistenza della sindrome convulsiva nè della durata della stessa, nè della tipologia, in assenza di un encefalogramma eseguito in prossimità dell’evento”, posto che quest’ultimo esame era stato invece eseguito, per la prima volta, solo quando il neonato aveva raggiunto il nono mese di vita. Per cui, in assenza di certezza circa la situazione concretamente esistente nei giorni successivi alla nascita, doveva essere esclusa ogni responsabilità anche della struttura ospedaliera; tanto più che, ove anche fosse stato seguito il diverso percorso terapeutico suindicato, era praticamente impossibile stabilire in quale misura tale terapia avrebbe potuto ridurre le conseguenze del danno cerebrale che, pacificamente, si era determinato ben prima della nascita.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma propongono ricorso D.V.G. e D.M.I. con unico atto affidato a cinque motivi.

Resistono con separati controricorsi la Generali Italia s.p.a., l’Azienda sanitaria locale di Rieti e il Dott. M.L..

Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione dell’art. 1176 c.c., comma 2, artt. 1218,1223,1228,2236 e 2697 c.c., in relazione agli artt. 40 e 41 c.p. ed ai criteri di ripartizione dell’onere della prova sulla responsabilità dei sanitari e sul nesso causale tra la loro condotta e l’evento.

I ricorrenti osservano che la sentenza impugnata avrebbe deciso in modo difforme rispetto ad alcuni principi pacifici enunciati in giurisprudenza; in particolare, quello secondo cui, in ipotesi di danni conseguenti ad interventi di non difficile esecuzione, sussiste una presunzione di colpa del debitore, e quello secondo cui il nesso causale tra il comportamento del medico e l’evento dannoso va ritenuto esistente ogni volta che questi sia incorso in qualche inadempimento degli obblighi professionali a suo carico. Nella specie, sia dalla c.t.u. di primo grado che da quella di secondo grado emergono, secondo i ricorrenti, due gravi omissioni che integrano ipotesi di colpa: da un lato, per avere omesso di eseguire un corretto monitoraggio cardiotocografico del neonato (nelle quattordici ore intercorse tra il ricovero ed il parto risulta, infatti, che il monitoraggio fu eseguito per un totale di circa due ore); dall’altro, per aver trascurato, o comunque non adeguatamente indagato, i tremori che il neonato aveva manifestato nei giorni successivi, tremori che avrebbero dovuto essere indagati con un elettroencefalogramma ed eventualmente trattati con terapia farmacologica. Di fronte a due omissioni tanto significative, la sentenza è pervenuta ad una pronuncia assolutoria di tutti i presunti responsabili, sulla base dell’impossibilità di dimostrare con certezza la derivazione causale del fatto dannoso dal comportamento omissivo, in tal modo ponendo a carico dei danneggiati l’incertezza rispetto al nesso di causalità, senza considerare che quell’incertezza derivava proprio dall’omesso svolgimento di esami necessari.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione dell’art. 1176 c.c., comma 2, artt. 1218 e 2697 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte d’appello recepito passivamente il contenuto della c.t.u. svolta in secondo grado, senza motivare le ragioni di detta scelta.

I ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata avrebbe motivato la decisione ritrascrivendo intere parti della c.t.u. resa in appello, senza alcuna considerazione nè valutazione autonoma. Tale assenza di motivazione sarebbe evidente anche in relazione al contenuto della c.t.u. svolta in primo grado, la quale aveva posto in luce alcune censure all’operato dei sanitari che non sono state affatto prese in considerazione. Nel recepire, poi, le indicazioni dei consulenti di appello, la Corte di merito non avrebbe considerato le evidenti manchevolezze dei sanitari che risultavano anche da tale consulenza, in particolare quanto alla mancata esecuzione di un costante monitoraggio e di un elettroencefalogramma del neonato. La motivazione della sentenza, poi, sarebbe lesiva dei principi affermati dalla giurisprudenza in ordine alla responsabilità civile; la domanda, secondo i ricorrenti, è stata respinta per mancanza di una prova certa del nesso di causalità, mentre si sarebbe dovuto fare applicazione della regola del più probabile che non sulla quale si costruisce la responsabilità civile.

3. Il primo e il secondo motivo, benchè tra loro differenti, possono essere trattati congiuntamente per la stretta connessione tra loro esistente e sono entrambi privi di fondamento.

3.1. Osserva la Corte, innanzitutto, che la sentenza impugnata, con un accertamento in fatto supportato da adeguata motivazione e fondato in larga misura sulle conclusioni emerse dall’ulteriore consulenza tecnica (collegiale) svolta in grado di appello, è pervenuta alle seguenti conclusioni: 1) nessuna imputazione di responsabilità poteva essere mossa a carico della struttura ospedaliera e, direttamente, del medico Dott. M. per tutto ciò che riguardava l’assistenza al parto, sia nella fase del travaglio che in quella immediatamente successiva alla nascita, dal momento che non vi era alcun elemento dal quale poter dedurre una ridotta disponibilità di ossigeno intrauterino nel corso del travaglio ovvero altre indicazioni di sorta per la necessità di un parto cesareo; 2) la patologia dalla quale il minore era affetto (leucomalacia periventricolare) doveva ritenersi insorta, sulla base dei dati a disposizione e della letteratura scientifica in argomento, in un momento precedente alla nascita (precisamente, tra la ventottesima e la trentatreesima settimana di gravidanza, quando il parto era avvenuto alla trentaquattresima settimana); 3) poteva al più sussistere qualche dubbio in ordine al corretto trattamento dei tremori manifestati dal neonato nei primi giorni di vita, che avrebbero forse dovuto essere indagati con un elettroencefalogramma in vista di un trattamento farmacologico, ma si trattava al massimo di un’ipotesi, non suffragata da elementi certi, senza contare che era almeno dubbio che il trattamento farmacologico potesse dare risultati significativi.

3.2. Tali accertamenti di fatto sono insindacabili in questa sede ed è da qui che occorre partire per valutare la fondatezza delle censure.

E’ innanzitutto chiaro che l’esclusione di ogni negligenza nella gestione del parto rende inutile la discussione sulla responsabilità del Dott. M., la cui opera si è conclusa nel momento in cui il piccolo è venuto alla luce.

E’ evidente, poi, che non è fondato il secondo motivo nella parte in cui rimprovera alla Corte di merito di essersi appiattita sulle conclusioni dei consulenti tecnici senza uno specifico vaglio critico; da un lato, infatti, è costante insegnamento di questa Corte il principio per cui il giudice di merito non è tenuto a giustificare le ragioni per le quali ha ritenuto di seguire le conclusioni dell’ausiliare, per di più nominato appositamente in grado di appello; da un altro, poi, la sentenza non si è limitata a trascrivere parti della relazione dei consulenti, ma ha intervallato i brani trascritti con considerazioni dalle quali risulta in modo pacifico che la Corte di merito ha condiviso e fatto proprie le conclusioni del collegio peritale (le quali, sia detto a margine, appaiono ampiamente motivate).

E’ poi ugualmente infondata – sempre in riferimento al secondo motivo – la censura relativa alla presunta mancata considerazione delle manchevolezze dei sanitari nella fase pre-partum (mancata esecuzione di un costante monitoraggio e di un elettroencefalogramma del neonato), perchè la sentenza ha risposto su questi punti nei termini suindicati e ogni ulteriore valutazione si risolverebbe nell’indebita sollecitazione di questa Corte ad una nuovo sindacato del merito.

Restano da affrontare, quindi, soltanto le censure, contenute sia nel primo che nel secondo motivo, aventi ad oggetto le ipotizzate manchevolezze in ordine ai tremori manifestati dal neonato; si tratta, in altri termini, di stabilire se, data per certa l’esistenza della patologia al momento del ricovero ed anche la correttezza del trattamento sanitario dall’ingresso in ospedale fino al momento del parto, sia o meno imputabile alla struttura sanitaria una qualche omissione nei giorni successivi, in ordine al problema suindicato.

La sentenza ha affrontato e risolto questo problema escludendo che si potesse valutare come esistente il nesso di causalità tra la condotta dei sanitari e il danno cerebrale sofferto dal neonato. A tale conclusione la Corte d’appello è giunta, come si è detto, perchè non vi era alcuna certezza sull’effettiva esistenza di una crisi convulsiva, per cui era impossibile stabilire se realmente la terapia con i barbiturici fosse da praticare e se, una volta ipoteticamente praticata, essa avrebbe avuto o meno un qualche esito di attenuazione del danno neurologico.

3.3. Il problema giuridico sul quale occorre soffermarsi è quello, posto nel primo motivo, relativo al riparto dell’onere della prova del nesso di causalità. Il ricorso, come si è detto, imputa alla sentenza di avere sostanzialmente posto a carico dei danneggiati l’incertezza rispetto al nesso di causalità; mentre la difesa della società Assitalia ha sostenuto che è a carico dei danneggiati l’onere di dimostrare il contratto o il contatto sociale, l’aggravamento della patologia e il nesso di causalità.

Su questo problema la più recente giurisprudenza di questa Corte ha chiarito e in parte modificato i principi in precedenza affermati. E’ stato infatti stabilito dalla sentenza 26 luglio 2017, n. 18392, parzialmente innovativa rispetto ai precedenti, che in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari; mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza. La sentenza citata ha illustrato come nella materia in esame esista “un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante”. Il secondo ciclo causale, però, “acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che la patologia sia riconducibile, ad esempio, all’intervento chirurgico, la struttura sanitaria deve dimostrare che l’intervento ha determinato la patologia per una causa, imprevedibile ed inevitabile, la quale ha reso impossibile l’esecuzione esperta dell’intervento chirurgico medesimo”.

Le affermazioni ora riportate hanno trovato puntuale conferma nella giurisprudenza successiva (v. le sentenze 7 dicembre 2017, n. 29315, 15 febbraio 2018, n. 3704, nonchè le ordinanze 20 agosto 2018, n. 20812, e 23 ottobre 2018, n. 26700). Da queste pronunce si trae anche la conclusione secondo la quale, ove permanga il dubbio sulla sussistenza del nesso di causalità tra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e la condotta dei sanitari, la mancanza della prova si risolve contro il danneggiato, la cui domanda deve essere respinta facendo applicazione delle regole generali sull’onere della prova (art. 2697 c.c.). Ed è questa, a ben vedere, la più importante affermazione che si trae dalla giurisprudenza citata, alla quale la pronuncia odierna intende dare ulteriore continuità; ove permanga un dubbio insuperabile sul nesso di causalità fra l’evento dannoso e la condotta del debitore, ciò si traduce nel rigetto della domanda risarcitoria, senza che venga in esame il c.d. secondo ciclo causale (per usare la terminologia della sentenza n. 18392 del 2017).

Ed è proprio tale situazione che si è verificata nel caso in esame.

La Corte d’appello, in sostanza, non ha negato l’astratta possibilità di un’omissione dei sanitari in ordine al trattamento dei tremori che il neonato aveva manifestato; quanto, piuttosto, ha escluso che vi fosse una prova pacifica sull’esistenza di un fenomeno convulsivo – che avrebbe imposto accertamenti diversi e più approfonditi – e che un diverso trattamento (anche farmacologico) avrebbe potuto condurre a risultati diversi. Ciò significa, inquadrando tali affermazioni nel contesto giurisprudenziale che si è ricostruito, che è mancata – o è rimasta almeno dubbia – la prova dell’esistenza del nesso di causalità tra la presunta omissione e l’aggravamento delle condizioni del neonato.

Ne consegue, tirando le fila del ragionamento svolto fin qui, che nessuna violazione di legge si riscontra nella decisione impugnata, la quale è in linea con i principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte; per cui il primo ed il secondo motivo di ricorso devono essere respinti.

4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione dell’art. 1176 c.c., comma 2, artt. 1218,1223,1228,2236 e 2697 c.c., anche in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte d’appello omesso di accertare e dichiarare che l’erronea tenuta della cartella clinica costituiva di per sè un elemento di inadempimento e una presunzione di esistenza del nesso eziologico.

Osservano i ricorrenti che la sentenza non avrebbe rispettato il principio, enunciato da una consolidata giurisprudenza, secondo il quale l’omessa o imperfetta compilazione della cartella clinica è un indice sintomatico dell’inadempimento dei sanitari. Tali manchevolezze erano state ben evidenziate dal c.t.u. di primo grado, ma la sentenza di appello non ne avrebbe tenuto conto, giungendo ad affermare l’errato principio per cui l’omissione della diligente tenuta della cartella non può essere di per sè fonte di responsabilità medica.

4.1. Il motivo non è fondato.

La giurisprudenza di questa Corte, correttamente richiamata nel controricorso della società di assicurazione, ha affermato, con un orientamento al quale va data ulteriore continuità, che in tema di responsabilità professionale sanitaria, l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido legame causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione (sentenze 12 giugno 2015, n. 12218, e 21 novembre 2017, n. 27561).

Nella specie, anche volendo trascurare la ragione di inammissibilità della doglianza conseguente all’evidente profilo di merito della stessa, non ricorre una fattispecie analoga a quella di cui ai precedenti richiamati. Come si evince dalla lettura del ricorso, le presunte manchevolezze sono state segnalate pressochè esclusivamente in relazione alla fase pre-partum, richiamando i tracciati cardiotocografici ritenuti insufficienti; ma si tratta di una doglianza infondata, perchè i dati a disposizione hanno comunque consentito ai consulenti, in particolare a quelli nominati in grado di appello, di escludere ogni responsabilità dei sanitari per tutta la fase dal ricovero fino al parto ed anche per i giorni immediatamente successivi.

5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione dell’art. 1176 c.c., comma 2, artt. 1218,1223 e 2697 c.c., anche in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte d’appello omesso di accertare e dichiarare la responsabilità della struttura sanitaria a prescindere dalla sussistenza di una responsabilità dei sanitari, e tanto a causa dell’incompleta dotazione di apparecchiature e strumenti e per l’omissione di esami diagnostici sul neonato, da ritenere assolutamente necessari.

Secondo i ricorrenti, nella determinazione del gravissimo danno al neonato avrebbero rivestito un ruolo importante “le macroscopiche mancanze della struttura sanitaria”. Ciò risulterebbe evidente, oltre che dal già rilevato omesso continuo monitoraggio della gestante e del feto, anche dal fatto che la donna non fu mai visitata nelle lunghe ore del ricovero, che non furono eseguiti sul neonato esami che il c.t.u. di primo grado aveva definito basilari e che la tenuta della cartella clinica fu gravemente manchevole. La conferma dell’inadeguatezza della struttura ospedaliera rispetto alla concreta situazione della gestante e del neonato risulterebbe, secondo i ricorrenti, dalla motivazione della sentenza di primo grado, la quale aveva condannato l’ospedale proprio per essere venuto meno ai suoi obblighi derivanti dal contratto di spedalità.

5.1. La censura è inammissibile per una serie di concorrenti ragioni.

Rileva il Collegio, innanzitutto, che dal tenore del ricorso non è dato dedurre con certezza che una simile prospettazione della domanda sia stata già proposta in sede di merito; il che equivale a dire che la questione ha alcuni evidenti profili di novità.

Tanto premesso, si osserva che la censura – la quale si risolve comunque nella sollecitazione di questa Corte a compiere un nuovo ed inammissibile esame del merito – risulta in parte anche ripetitiva delle precedenti ed è perciò da ritenere assorbita alla luce di tutte le considerazioni già svolte a proposito dei precedenti motivi.

6. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione degli artt. 299 e 300 c.p.c., dell’art. 125 disp. att. c.p.c. e dell’art. 1722 c.c., n. 4), per avere erroneamente la Corte d’appello ritenuto non valida la procura rilasciati dai genitori per conto del figlio minore nel giudizio di appello.

I ricorrenti contestano l’affermazione della Corte di merito secondo cui, essendo il figlio Gi. divenuto maggiorenne e non essendosi il medesimo costituito in giudizio, in grado di appello erano presenti soltanto i suoi genitori. L’appello, secondo i ricorrenti, era stato proposto in data 16 luglio 2011, momento in cui Gi. era ancora minorenne, per cui il giudizio doveva ritenersi correttamente proseguito nei confronti delle parti originarie.

6.1. Il motivo è inammissibile in quanto privo di rilevanza.

Alla luce dell’esito complessivo del ricorso, infatti, non ha alcuna importanza verificare quale delle parti fosse realmente costituita in fase di merito.

7. In conclusione, il ricorso è rigettato.

In considerazione della natura della causa e degli esiti alterni dei giudizi di merito, ritiene la Corte che vadano integralmente compensate le spese del giudizio di cassazione.

Sussistono tuttavia le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2019

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