Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29315 del 07/12/2017


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Cassazione civile, sez. III, 07/12/2017, (ud. 13/09/2017, dep.07/12/2017),  n. 29315

Fatto

FATTI DI CAUSA

L.M., A., G. e R. agirono nei confronti di Z.L. e dei figli T.G., P. e A., tutti quali eredi di T.A., nonchè della Gestione Liquidatoria della USL TA/5 per ottenere il risarcimento dei danni conseguiti alla morte del padre L.R., che era avvenuta presso l’Ospedale SS. Annunziata di Taranto e che assumevano causata da condotta colposa del dott. T., aiuto presso il reparto di Anestesia e Rianimazione.

Si costituirono in giudizio sia gli eredi del T. che la Gestione Liquidatoria; quest’ultima chiamò in causa la UNIPOL per esserne manlevata.

A seguito della sottoposizione della Gestione a liquidazione coatta amministrativa, il giudizio venne interrotto e successivamente riassunto dagli attori nei confronti della Liquidazione Coatta della Gestione Liquidatoria, che si costituì in giudizio eccependo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a conoscere del credito azionato dai L..

Pronunciando nei confronti degli eredi del T. e della Gestione Liquidatoria, il Tribunale di Taranto rigettò la domanda degli attori e dichiarò la cessazione della materia del contendere fra la Gestione Liquidatoria e la UNIPOL.

La Corte di Appello ha rigettato il gravame dei L., con condanna degli stessi al pagamento delle spese di lite nei confronti degli eredi T. e della UGF Assicurazioni s.p.a. (già UNIPOL).

Hanno proposto ricorso per cassazione i L., affidandosi a sei motivi; ha resistito la Z., anche in veste di procuratrice dei figli. Hanno depositato memoria sia i L. che la Z..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 161 cod. proc. civ. “stante l’evidente error in procedendo di aver considerato parte la Gestione Liquidatoria ed aver omesso qualsiasi pronunzia riguardante la L.C.A., subentrata alla Gestione a seguito della riassunzione”: i ricorrenti rilevano che la circostanza del subentro era stata del tutto ignorata dal Tribunale (che aveva pronunciato la decisione nei confronti della Gestione e non della L.C.A.) e assumono la nullità della sentenza impugnata per il fatto che anche la Corte aveva considerato ancora parte in causa la Gestione Liquidatoria anzichè la L.C.A..

1.1. Il motivo è inammissibile per difetto di adeguato inquadramento della questione, giacchè i ricorrenti non sottopongono adeguatamente a critica l’affermazione del giudice di prime cure (contenuta nella parte della sentenza dedicata allo “svolgimento del processo”), secondo cui “la liquidazione coatta amministrativa della Gestione Liquidatoria della USL TA/5 non aveva legittima giuridica esistenza, sicchè non poteva essere parte del giudizio” (e ciò – per quanto emerge dalla memoria depositata dalla Z. – a seguito della sentenza n. 25/2007 con cui la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa regionale che presupponeva l’assoggettamento alla procedura di liquidazione coatta amministrativa delle gestioni liquidatorie delle USL); affermazione che è del tutto compatibile con l’emissione della pronuncia nei confronti della Gestione Liquidatoria e che – in difetto di argomentata contestazione – non consente alcun rilievo officioso della nullità della sentenza impugnata per il fatto di non essere stata emessa nei confronti della L.C.A..

2. I motivi terzo, quarto e quinto censurano – sotto i profili della “violazione di legge per l’omesso esame di un fatto decisivo” e della violazione e falsa applicazione di legge “riferita all’art. 116 c.p.c.” – l’affermazione circa il difetto di prova sul nesso di causa fra le condotte sanitarie e il decesso del L.; più precisamente, i ricorrenti assumono che la Corte aveva riconosciuto la “validità del principio che la prova liberatoria dell’inadempimento deve essere fornita dall’obbligato”, ma aveva contraddittoriamente negato, nello specifico, la sussistenza del nesso di causalità; aggiungono che il giudice di appello non aveva tenuto conto dei risultati della c.t.u., che aveva accertato una responsabilità “diffusa” in capo ai sanitari e aveva ritenuto, “in via di presunzione”, che l’inadeguata condotta dei sanitari avesse “concorso a determinare in maniera più o meno rilevante, ulteriori aggravamenti delle già precarie condizioni di salute del L., riducendo le sue già compromesse possibilità di sopravvivenza”.

2.1. I motivi, che investono il tema del nesso di causa, sono infondati, in quanto compiono un’impropria commistione fra il profilo della condotta colposa e quello della sua efficienza causale e presuppongono un’erronea individuazione del riparto degli oneri probatori.

2.2. Va innanzitutto chiarito che nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, così come in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa tra questa e il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti concettualmente distinti, cosicchè la sussistenza della prima non comporta, di per sè, la dimostrazione del secondo e viceversa.

2.3. Quanto alla distribuzione degli oneri probatori, deve rilevarsi che la previsione dell’art. 1218 cod. civ. solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento.

Al riguardo, deve infatti considerarsi che:

la previsione dell’art. 1218 cod. civ. trova giustificazione nella opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente o non esattamente adempiente l’onere di fornire la prova “positiva” dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento, sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla (cfr. Cass., S.U. n. 13533/2001);

tale maggiore vicinanza del debitore non sussiste – evidentemente – in relazione al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale non ha dunque ragion d’essere l’inversione dell’onere prevista dall’art. 1218 cod. civ. e non può che valere – quindi – il principio generale sancito dall’art. 2697 cod. civ., che onera l’attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il creditore in sede contrattuale) della prova degli elementi costitutivi della propria pretesa;

ciò vale, ovviamente, sia in riferimento al nesso causale materiale (attinente alla derivazione dell’evento lesivo dalla condotta illecita o inadempiente) che in relazione al nesso causale giuridico (ossia alla individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli dell’evento lesivo); trattandosi di elementi egualmente “distanti” da entrambe le parti (e anzi, quanto al secondo, maggiormente “vicini” al danneggiato), non v’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una “prova liberatoria” rispetto al nesso di causa (a differenza di quanto accade – come detto – per la prova dell’avvenuto adempimento o della correttezza della condotta);

nè può valere, in senso contrario, il fatto che l’art. 1218 cod. civ. faccia riferimento alla causa, laddove richiede al debitore di provare “che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”: infatti, come condivisibilmente affermato, di recente, da questa Corte (Cass. n. 18392/2017), la causa in questione attiene alla “non imputabilità dell’impossibilità di adempiere”, che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione (costituenti “tema di prova della parte debitrice”) e concerne un “ciclo causale” che è del tutto distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto;

da ciò discende che, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento (onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno), con la conseguenza che, se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (cfr. Cass. n. 975/2009, Cass. n. 17143/2012, Cass. n. 4792/2013, Cass. n. 18392/2017);

a ben vedere, una siffatta conclusione non si pone in contrasto con quanto affermato da Cass., S.U. n. 577/2008, secondo cui “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”; tale principio venne infatti affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento “qualificato” allegato dall’attore (ossia l’effettuazione di un’emotrasfusione) era tale da comportare – di per sè, ed in assenza di fattori alternativi “più probabili”, nel caso singolo di specie – la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta (sì che la prova della prestazione sanitaria conteneva in sè quella del nesso causale), con la conseguenza che non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione, secondo il criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., comma 2 (e non – si badi – la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 cod. civ.).

2.4. Tanto premesso, deve ritenersi che il ricorso non colga nel segno, sia perchè, insistendo sulla responsabilità dei sanitari (per incompletezza e inadeguatezza dell’assistenza prestata), mostra di non tenere distinti – come necessario – il profilo della colpa da quello della causalità, sia perchè non tiene conto che la Corte, valorizzando alcuni passaggi della relazione di c.t.u. e attingendo – come ben poteva – agli esiti peritali emersi nel procedimento penale, è pervenuta alla conclusione dell’esistenza di una insuperabile “incertezza” sul nesso di causa, da cui ha correttamente fatto discendere il rigetto della domanda attorea.

3. Il secondo motivo (che censura la sentenza della Corte per avere affermato che il Tribunale aveva correttamente interpretato la domanda di risarcimento del danno morale come proposta iure successionis, ritenendo pertanto inammissibile, in quanto nuova, la richiesta di risarcimento iure proprio svolta soltanto in sede di precisazione delle conclusioni) resta assorbito dal rigetto dei motivi attinenti al nesso di causa (che comporta l’esclusione della possibilità di riconoscere un qualsiasi risarcimento).

4. Il sesto motivo – che denuncia la violazione dell’art. 91 cod. proc. civ. e censura la sentenza per avere condannato gli appellanti al pagamento delle spese di lite, pur sussistendo ragioni che avrebbero potuto giustificare la compensazione – è inammissibile, in quanto non è censurabile in sede di legittimità il mancato esercizio del potere di compensare le spese (cfr. Cass., S.U. n. 14989/2005).

5. A fronte dell’esistenza di orientamenti non univoci sul tema del riparto degli oneri probatori in punto di nesso causale, sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del presente giudizio, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo anteriore alle modifiche introdotte a partire dalla L. n. 263 del 2005(applicabile ratione temporis, poichè la causa è stata avviata nell’anno 2001).

6. Trattandosi di ricorso proposto successivamente al 30.1.2013, sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese di lite.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 13 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2017

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