Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2931 del 01/02/2022
Cassazione civile sez. trib., 01/02/2022, (ud. 15/12/2021, dep. 01/02/2022), n.2931
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –
Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 25586/2015 proposto da:
S.A., c.f. (OMISSIS), nata a (OMISSIS) ed ivi residente in
via (OMISSIS), rappresentata e difesa, anche disgiuntamente tra
loro, giusta procura speciale congiunta alla memoria di costituzione
di nuovo difensore dalla prof. avv. LIVIA SALVINI, c.f. (OMISSIS),
nata a (OMISSIS), del foro di Roma, in sostituzione del deceduto
avv. BRUNO LO GIUDICE, c.f. (OMISSIS), nato a (OMISSIS), e dall’avv.
FRANCO ZANGHERI, c.f. (OMISSIS), nato a (OMISSIS), elettivamente
domiciliata presso lo studio della prima in Roma, piazza Venezia n.
11, c.a.p.00187, indirizzo p.e.c.:
liviasalvini.ordineavvocatiroma.org;
– ricorrente
contro
Agenzia Delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,
elettivamente domiciliata in Roma Via Dei Portoghesi 12 presso
l’Avvocatura Generale Dello Stato che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1502/2015, pronunciata 9 giugno 2015,
depositata l’8 luglio 2015.della COMM.TRIB.REG., Emilia Romagna;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
15/12/2021 dal Consigliere Dott. BALSAMO MILENA;
lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto
Procuratore Generale Dott. Giacalone Giovanni, che ha chiesto il
rigetto del ricorso.
Fatto
RILEVATO
Che:
1. S.A. impugnava l’avviso di liquidazione con il quale l’Agenzia delle Entrate – riqualificato ex art. 20 TUIR l’atto di compravendita concluso nel maggio 2009 relativo al complesso immobiliare sito nel Comune di Cervia quale atto di cessione di area edificabile – aveva applicato l’aliquota dell’8% prevista per la cessione di aree edificabili.
L’avviso opposto si fondava sul rilievo che, con il preliminare di vendita, l’alienante si era impegnata ad ottenere la trasformazione integrale dell’intero complesso edilizio su richiesta della parte acquirente, ottenuta con permesso di demolizione e costruzione di nuovo edificio con ristrutturazione parziale di edificio.
La C.T.P. di Forlì accoglieva il ricorso ed annullava l’atto impositivo impugnato.
Proposto sia appello principale che incidentale avverso la prima decisione, la CTR dell’Emilia Romagna respingeva il gravame proposto dalla contribuente che riproponeva la doglianza sollevata in primo grado, secondo la quale era stato notificato un unico avviso di liquidazione ai tre venditori, benché si trattasse di tre negozi separati sebbene conclusi con un unico atto ed accoglieva quello proposto dall’amministrazione finanziaria, sul rilievo che il contratto preliminare aveva ad oggetto solo il permesso a costruire rilasciato poi effettivamente dall’amministrazione comunale e sulla circostanza che il prezzo della compravendita era notevolmente superiore al valore dell’immobile destinato ad abitazione civile di cat. A/3 con consistenza catastale di cinque vani.
Avverso la sentenza n. 1502/2015 depositata l’8 luglio 2015, propone ricorso per cassazione la contribuente sulla base di quattro motivi.
In data 15.12.2021, la ricorrente depositava ordinanza di questa Corte n. 39687/21, eccependo il giudicato favorevole nei confronti del condebitore in solido.
L’Agenzia, non essendosi costituita nei termini di legge mediante controricorso, ha presentato atto di costituzione al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1.
Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.
Diritto
ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI DIRITTO
2.Con la prima censura si lamenta violazione del D.P.R. n. 131 del 1998, art. 30, ex art. 360 c.p.c., n. 3); per avere la CTR dell’Emilia Romagna assunto a fondamento della statuizione una decisione della corte di cassazione resa in fattispecie non assimilabile, ad avviso della ricorrente, al caso di specie, in quanto la riqualificazione dell’atto negoziale non può avvenire in base ad elementi estranei alla fattispecie, dovendosi considerare il bene materiale o immateriale che forma oggetto della prestazione contrattuale, quale elemento essenziale del contratto.
Secondo l’assunto della ricorrente, l’elemento essenziale del contratto era quello rinvenibile nel contratto definitivo, risultando del tutto irrilevante ogni successiva trasformazione del bene.
3. Il secondo motivo è incentrato sull’omesso esame dei fatti decisivi per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), per non avere il giudicante valutato:- l’anno di conclusione dell’atto di trasferimento negoziale, data rilevante in quanto il relativo contratto venne concluso in epoca antecedente al rilascio del permesso a costruire; circostanza rilevante in quanto la Regionale era convinta che la vendita avesse ad oggetto l’area edificabile in quanto riteneva che fosse stato già rilasciato il permesso a costruire; la circostanza che il permesso concerneva anche la ristrutturazione parziale dell’edificio;- la circostanza che il contratto preliminare era stato ceduto e quello definitivo era stato concluso con un diverso promittente acquirente.
4.Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 2729 c.c.ex art. 360 c.p.c., n. 3), per avere il giudicante statuito sulla base di presunzioni che non presentavano il carattere della gravità, precisione e concordanza di cui alla citata disposizione codicistica.
Al riguardo, si invocano nuovamente gli elementi fattuali sopra descritti e trascurati dal decidente nonché la circostanza che – come allegato nel giudizio di merito – il prezzo di vendita concordato dai contraenti comprendeva il valore dell’area sottostante il fabbricato e comunque le risultanze catastali non rappresentano, com’e’ noto secondo la ricorrente, il valore reale del cespite.
5. Il quarto motivo denuncia violazione di legge per erronea applicazione degli artt. 10 e 20 del TUIR, ex art. 360 c.p.c., n. 3); per avere la Regionale respinto l’appello incidentale proposto dalla contribuente con il quale si riproponeva l’eccezione, già sollevata in primo grado, secondo la quale l’atto impositivo era stato notificato ai tre venditori benché costoro avessero concluso tre negozi separati di vendita.
6. In via preliminare, deve essere disattesa l’eccezione di giudicato.
La questione del giudicato impone di prendere le mosse dai principi enunciati da questa Corte secondo la quale “la sentenza resa tra creditore e condebitore solidale è opponibile al creditore da parte di altro condebitore ove ricorrano le seguenti condizioni: 1) la sentenza sia passata in giudicato; 2) non si sia già formato un giudicato tra il condebitore solidale che intende avvalersi del giudicato e il creditore; 3) ove si tratti di giudizio pendente, la relativa eccezione sia stata tempestivamente sollevata (non dovendo il giudicato essersi formato prima della proposizione del giudizio di impugnazione nel corso del quale viene dedotto); 4) il giudicato non sia fondato su ragioni personali del condebitore solidale” (v. Cass. n. 33436 del 2018; n. 303 del 2019; n. 18154/2019).
La contribuente invoca la estensione del giudicato esterno formatosi nel precedente giudizio (concernente l’anno d’imposta 2011), fra il condebitore in solido e l’Agenzia – definito con sentenza di questa Corte – sopra citata – che, pronunciandosi sulla questione della applicazione dell’applicabilità della imposta proporzionale, ha affermato la nullità dell’avviso di accertamento sulla base della legge interpretativa del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 – in quanto, secondo la prospettazione della ricorrente, si tratterebbe della “medesima questione”, riproposta anche nel presente giudizio, e, dunque, comune ad entrambi i giudizi. La tesi difensiva della ricorrente non è condivisibile, in quanto, nella specie, non può ravvisarsi alcun vincolo di giudicato determinato dalla sentenza della Corte n. 39687/21, in relazione all’interpretazione giuridica della norma tributaria, vale a dire del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20.
Infatti, l’attività interpretativa delle norme giuridiche compiuta dal Giudice, in quanto consustanziale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, non può mai costituire limite alla attività esegetica esercitata da altro giudice, dovendosi richiamare a tale proposito il distinto modo in cui opera il vincolo determinato dalla efficacia oggettiva del giudicato ex art. 2909 c.c. rispetto a quello imposto, in altri ordinamenti giuridici, dal principio dello stare decisis (cioè del precedente giurisprudenziale vincolante) che non trova riconoscimento nell’attuale ordinamento processuale (Cass., sez. 5, 21/10/2013, n. 23723; Cass., sez. 5, 15/07/2016, n. 14509; n. 15215/2021, in motiv.).
Ne discende che la interpretazione ed individuazione della norma giuridica posta a fondamento della pronuncia – salvo che su tale pronuncia si sia formato il giudicato interno – non limitano il giudice dell’impugnazione o di legittimità nel potere di individuare ed interpretare la norma applicabile al caso concreto e non sono, quindi, suscettibili di passare in giudicato autonomamente dalla domanda o dal capo cui si riferiscono, assolvendo ad una funzione meramente strumentale rispetto alla decisione (Cass., sez. 1, 29/04/1976, n. 1531; Cass., sez. L, 23/12/2003, n. 19679; Cass., sez. 3, 20/10/2010, n. 216561).
7. Il quarto motivo di ricorso, con il quale si prospetta la violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 è fondato, con conseguente assorbimento delle altre censure.
Il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 dispone che “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extra testuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”. Il testo attuale della disposizione è frutto delle modifiche introdotte dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), nn. 1) e 2), (di “interpretazione autentica” L. n. 145 del 2018, ex art. 1, comma 1084), che recano l’espressa previsione della irrilevanza degli elementi extra testuali e del collegamento negoziale: il legislatore ha voluto imporre una interpretazione isolata dell’atto da sottoporre a registrazione, fondata unicamente sugli elementi da esso desumibili, ribadendo così la natura d’imposta d’atto dell’imposta di registro, la quale colpisce l’atto sottoposto a registrazione quale risulta dallo scritto.
Si deve ribadire, al riguardo, quanto affermato da codesta S.C., a valle di Corte Cost. 158/2020 e 39/2021, con l’ordinanza Cass. n. 10688/2021, secondo cui, in tema di imposta di registro, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 – nella formulazione successiva alla L. n. 205 del 2017 che, secondo la L. n. 145 del 2018, art. 1 comma 1084, ne ha fornito l’interpretazione autentica e alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 158 del 2020 e n. 39 del 2021 – è legittima l’attività di riqualificazione dell’atto da registrare da parte dell’Amministrazione soltanto se operata ab intrinseco, cioè senza alcun riferimento agli atti ad esso collegati e agli elementi extra-testuali, non potendosi essa fondare sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dall’atto (su cui cfr. anche Cass. n. 9065 del 2021; n. 24647; 25601, 26499, 26503, 26505 27127 del 2021).
Codesta S.C. ha anche affermato – sempre in Cass. 10688/2021 – che “resta ferma la legittimità dell’attività di riqualificazione per via interpretativa dell’atto da registrare soltanto se operata ab intrinseco, senza l’utilizzazione di elementi ad esso estranei, in quanto l’interpretazione prevista dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, non può basarsi sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dal singolo atto presentato alla registrazione”.
In effetti, anche nella precedente formulazione della disposizione, in cui non vi era il riferimento esplicito alla irrilevanza degli elementi esterni all’atto, l’art. 20 fondava l’imposizione sugli effetti giuridici dell’atto e sulle conseguenze che questi erano idonei a produrre.
La giurisprudenza di questa Corte, tuttavia, era prevalentemente orientata nel senso che, ai fini dell’applicazione dell’imposta, dovesse indagarsi la causa reale o concreta dei negozi, dando rilievo al collegamento negoziale tra contratti al fine di valutarne l’effetto finale, ovvero alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali tra loro collegate (Cass. n. 13610/2018).
E’ stato reiteratamente affermato il principio della prevalenza della natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul titolo, sulla forma apparente, indipendentemente dal nomen iuris, prevalenza che vincola l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma e, quindi, il dato giuridico reale conseguente appunto alla natura intrinseca degli atti, ed ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti, con la conseguenza di dover riferire l’imposizione al risultato di un comportamento nella sostanza unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, atomisticamente considerati (tra le tante, Cass. n. 10216/2016, Cass. n. 1955/2015, Cass. n. 14150/2013, Cass. n. 6835/2013).
E’ anche vero che la Corte, sebbene con isolate pronunce, aveva affermato il diverso principio secondo cui l’attività riqualificatoria dell’Ufficio, “che non è tenuto ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella ” forma apparente” alla quale lo stesso art. 20 (nella formulazione anteriore alla L. n. 205 del 2017) fa riferimento”, incontra il limite dell’insuperabilità della forma e dello schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile, “pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”, per cui, in mancanza di prova, a carico dell’Amministrazione finanziaria, di un disegno elusivo, ricorre piuttosto “un’ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro” (Cass. n. 2054/2017, n. 722/2019) e 6790/2020). Non v’e’ dubbio che il Legislatore sia intervenuto sull’art. 20 “in sostanziale adesione alla giurisprudenza minoritaria della Corte di cassazione”.
Ne’ può dirsi tradita in tal modo la funzione propria delle leggi di interpretazione autentica, dotate – per definizione – di efficacia retroattiva, essendo stato chiarito il senso di una norma preesistente, eliminando oggettive incertezze interpretative e rimediando ad una interpretazione giurisprudenziale non in linea con la politica del diritto voluta dal Legislatore medesimo. Il Legislatore nel riaffermare, con la denunciata norma, la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, ha precisato l’oggetto dell’imposizione, in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, per cui, come nitidamente sottolineato dalla Corte Costituzionale, un’interpretazione della norma in chiave antielusiva provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis consentendo all’Amministrazione finanziaria di operare, appunto, in funzione antielusiva, senza peraltro l’applicazione della garanzia del contraddittorio endoprocedimentale, svincolandosi da ogni riscontro probatorio di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al contribuente ogni legittima possibilità di pianificazione fiscale. A diversi limiti, invece, soggiace la potestà dell’Amministrazione finanziaria quando la riqualificazione è diretta a far valere il collegamento negoziale e, più in generale, qualunque forma di abuso del diritto ed elusione fiscale, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, trattandosi di ipotesi estranea alla ermeneutica dell’atto da registrare.
L’azione accertatrice, in tali casi, si deve attuare mediante apposito e motivato atto impositivo, preceduto – a pena di nullità – da una richiesta di chiarimenti, che il contribuente può fornire entro un certo termine, il tutto da svolgersi all’interno di uno specifico procedimento di garanzia.
Inoltre, con la L. n. 205 del 2017 (Legge di Bilancio 2018), è stato integrato – con effetti a decorrere dal 10 gennaio 2018 – il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, inserendo il rinvio alla L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, (“1. Fermo restando quanto previsto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis le attribuzioni e i poteri di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e successive modificazioni, artt. 31 e ss. possono essere esercitati anche ai fini dell’imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale previste dal testo unico di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347”).
La L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, infatti, è intervenuto sia sul D.P.R. n. 131 del 1986, sia art. 20 che art. 53-bis rubricati rispettivamente “Interpretazione degli atti” e “Attribuzioni e poteri degli Uffici”, non solo per chiarire la portata applicativa dell’art. 20 T.U.R., in modo tale da restituire all’imposta di registro l’originaria veste di “imposta d’atto”, ma anche per consentire all’Amministrazione finanziaria, attraverso il richiamo della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis nel corpo dell’art. 53-bis, di riqualificare l’operazione elusiva, mediante atti collegati o elementi extra-testuali, nel caso ravvisi violazione dei principi sull’abuso del diritto.
Ripercorrendo la giurisprudenza di questa Corte va senz’altro ribadito che l’obbligo generale di contraddittorio preventivo esiste unicamente per i tributi armonizzati, mentre per i tributi non armonizzati occorre una specifica previsione normativa (Cass., sez. un. 24823/2015; Cass. n. 11283/2016; n. 6758/2017; n. 313/2018); che il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, concerne l’oggettiva portata effettuale dei negozi e non contiene, quindi, una disposizione antielusiva stricto sensu, come quella del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, sicché l’avviso di liquidazione ex art. 20 non soggiace all’obbligo di contraddittorio preventivo (Cass. n. 15319/2013); che la tassazione dell’imposta di registro in misura proporzionale non deriva dalla individuazione di un “abuso di diritto”, per cui non v’e’ alcuna ragione per estendere alle imposte indirette, difettando di omogeneità le relative discipline normative, una disposizione, quale è il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, dettata in materia di imposte dirette per rendere inopponibili all’Amministrazione finanziaria atti, fatti e negozi che risultassero privi di valide ragioni economiche e diretti solo ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario. Risultano, dunque, prive di rilievo decisivo, nell’applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, le questioni concernenti sia la sussistenza o meno di un intento elusivo o simulatorio in capo alle parti contraenti, che l’Amministrazione non è tenuta a dimostrare, sia – per quanto già detto – il difetto di contraddittorio preventivo in sede di procedimento amministrativo
Con specifico riferimento alla fattispecie per cui è causa, deve ritenersi superato l’indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo cui, in materia di imposta di registro, nel caso di vendita di terreno con sovrastante fabbricato vetusto, la richiesta di concessione edilizia per la costruzione di un nuovo immobile, previa demolizione del fabbricato, comporta la riqualificazione D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 20, dell’atto presentato alla registrazione, quale vendita di terreno edificabile e la conseguente rettifica dell’imposta, dovendo il negozio essere sottoposto a tassazione in ragione degli effetti giuridici che oggettivamente produce (Cass. n. 313/2018, n. 12062/2016, n. 16983/2015, n. 24799/2014). La sopra delineata soluzione interpretativa, peraltro, contribuisce ad avvicinare il trattamento tributario in materia fiscale tra imposte dirette ed indirette, atteso che, come questa Corte ha avuto occasione di affermare, “In tema di IRPEF, ai fini della tassazione separata, quali “redditi diversi”, delle plusvalenze realizzate a seguito di cessioni, a titolo oneroso, di terreni dichiarati edificabili in sede di pianificazione urbanistica, l’alternativa fra “edificato” e “non edificato” non ammette un “tertium genus”, con la conseguenza che la cessione di un edificio, anche ove le parti abbiano pattuito la demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria, non può essere riqualificata dall’Amministrazione finanziaria come cessione del terreno edificabile sottostante, neppure se l’edificio non assorbe integralmente la capacità edificatoria residua del lotto su cui insiste, essendo inibito all’Ufficio, in sede di riqualificazione, superare il diverso regime fiscale previsto tassativamente dal legislatore per la cessione di edifici e per quella dei terreni. (Cass. n. 5088/2019, n. 22409/2019, n. 31602/2018, n. 15629/2014, e circolare dell’Agenzia delle entrate n. 23/2020).
In materia di imposta sui redditi, come risulta dal tenore del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 81, comma 1, lett. b) (ora 67) e art. 16 (ora 17), comma 1, lett. g) bis sono soggette a tassazione separata, quali “redditi diversi”, le “plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione”, e non anche quelle di terreni già edificati (Così statuendo, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha escluso la tassazione separata di una plusvalenza realizzata a seguito di vendita di “capannone ad uso commerciale e relative pertinenze”, censito al catasto fabbricati, ritenendo irrilevante sia l’ulteriore potenzialità edificatoria del terreno su cui esso insisteva, sia l’asserita, ma non dimostrata, intenzione delle parti di demolire il predetto capannone) – (cfr. Cass. n. 4150/2014; Cass. n. 15629/2014, ove si è specificamente ritenuto che la ratio dell’art. 67 TUIR è volta ad “assoggettare ad imposizione la plusvalenza che (…) scaturisce non “in virtù di un’attività produttiva del proprietario o possessore, ma per l’avvenuta destinazione edificatoria in sede di pianificazione urbanistica” dei terreni”).
Pertanto, risultando oggetto dell’atto un fabbricato, e, quindi, un “terreno già edificato”, tale entità sostanziale non poteva essere mutata (con conseguente incongruenza di ogni diversa riqualificazione), in terreno suscettibile di potenzialità edificatoria, sulla base di presunzioni derivate da elementi soggettivi, interni alla sfera dei contraenti ovvero da elementi contenuti in altro atto negoziale (contratto preliminare) e, soprattutto, la cui realizzazione (nel caso in specie attraverso la demolizione del fabbricato) è futura (rispetto all’atto oggetto di tassazione), eventuale e rimessa alla potestà di soggetto diverso (l’acquirente) da quello interessato dall’imposizione fiscale”.
Ad analoghe conclusioni è giunta Cass.n. 7853/2016, prendendo espressamente posizione sul contrasto e sulle ragioni che inducono a considerare preferibile l’ultima opzione esposta dalla giurisprudenza sopra ricordata. Orbene, nel caso di specie la CTR, muovendo dall’esame del contratto preliminare di vendita e dalla richiesta presentata nell’interesse del promittente acquirente di parziale demolizione e ricostruzione, ha erroneamente valorizzato la volontà futura dell’acquirente di demolire in parte il fabbricato procedendo ad una parimenti non corretta riqualificazione dell’atto negoziale quale atto di vendita di terreno edificabile.
Il ricorso, in accoglimento del primo motivo, assorbiti gli altri, va accolto e la sentenza cassata con decisione nel merito di accoglimento del ricorso introduttivo della contribuente.
In considerazione della evoluzione normativa, le spese dell’intero giudizio vanno compensate.
PQM
Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso della contribuente; compensa le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale della quinta sezione civile della Corte di cassazione, il 15 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2022