Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2929 del 01/02/2022
Cassazione civile sez. trib., 01/02/2022, (ud. 15/12/2021, dep. 01/02/2022), n.2929
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –
Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 29863/2015 R.G. proposto da:
Lottomatica Videolot Rete s.p.a., rappresentata e difesa dagli Avv.ti
Giuseppe Russo Corvace e Giuseppe Pizzonia, con domicilio eletto in
Roma, via della Scrofa n. 57, presso lo studio, giusta procura
speciale a margine del ricorso.
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura
Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei
Portoghesi n. 12.
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2684/22/15 della Commissione tributaria
regionale del Lazio, depositata il 12/5/2015.
Udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Oronzo De Masi alla
pubblica udienza del 15 dicembre 2021, nella quale il ricorso è
stato trattato in camera di consiglio, mediante collegamento da
remoto, in base alla disciplina dettata dal D.L. n. 137 del 2020,
sopravvenuto art. 23, comma 8-bis, inserito dalla legge di
conversione L. n. 176 del 2020, nonché del D.L. 23 luglio 2021, n.
105, art. 7 conv. con modif. dalla L. 16 settembre 2021, n. 126,
senza l’intervento in presenza del Procuratore Generale, Dott.
Giovanni Giacalone, che ha depositato conclusioni scritte nel senso
dell’accoglimento del quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri,
non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione
orale.
Fatto
FATTI DELLA CAUSA
Con sentenza n. 2684/22/15, depositata in data 12/5/2015, la Commissione tributaria regionale del Lazio ha respinto l’appello col quale Lottomatica Videolot Rete s.p.a. ha censurato la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato legittima la qualificazione, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come cessione di ramo d’azienda, della articolata operazione, qui di seguito descritta, con conseguente liquidazione, con l’impugnato avviso, dell’imposta di registro in misura proporzionale (3%).
L’operazione per cui è causa si è distinta nel seguente modo:
Fox Elettronica s.r.l. ha costituito, in data 30/6/2008, la Topolino Sevice s.r.l., mediante conferimento di un ramo d’azienda; Lottomatica Videolot s.p.a. e Fox Elettronica s.r.l. hanno sottoscritto, in data 10/9/2008, contratto preliminare di cessione della partecipazione societaria detenuta da Fox Elettronica s.r.l. in Topolino Sevice s.r.l.; Fox Elettronica s.r.l., in data 18/12/2008, ha ceduto a Lottomatica Videolot s.p.a. la propria partecipazione, per il corrispettivo di Euro 5.740.000,00, oltre ad un premio da determinarsi entro il 30/10/2010; Lottomatica Videolot s.p.a. ha proceduto, in data 11/12/2009, a incorporare tramite fusione Topolino Sevice s.r.l. ed altre società, quali Lottomatica Videolot Gestione s.p.a. e Royal Gold s.r.l., operanti nel medesimo settore di attività.
Secondo l’Agenzia delle entrate le operazioni societarie devono essere considerate unitariamente, ai fini dell’imposta di registro, in quanto le stesse, attraverso la formazione progressiva del patrimonio della Royal Gold s.r.l., finalizzata alla alienazione, sono orientate a realizzare una cessione d’azienda, per cui dono dovute le imposte previste per una cessione diretta del ramo d’azienda
L’appello erariale è stato accolto dall’adita CTR che ha dichiarato inapplicabile, nel caso di specie, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, commi 4 e 5, essendosi l’Ufficio avvalso del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, ed ha valorizzato la circostanza che “ancor prima della cessione delle quote, avvenuta nel Novembre 2008, sono stati sottoscritti degli accordi per le cessioni convenute con le varie società facenti parte dell’operazione nel suo complesso”, la quale dimostra, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, la sussistenza, tramite il collegamento negoziale, di “una unica fattispecie, a formazione progressiva, produttiva di un unico effetto giuridico finale, da identificarsi nella cessione dell’immobile o dell’azienda previamente conferiti”.
Ricorre, con cinque motivi, la società contribuente per la cassazione della sentenza; l’intimata Agenzia delle entrate ha depositato controricorso e la contribuente memoria.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, si deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 59, comma 1, lett. b), art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giacché la CTR non ha ritenuto di rimettere al primo giudice la causa in ragione del fatto che la sentenza appellata era stata pronunciata in udienza pubblica senza che fosse stata comunicazione della relativa data, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 31.
Con il secondo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 41 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 4, e D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR respinto il motivo di appello afferente la prospettata nullità dell’avviso di liquidazione per violazione del principio del contraddittorio anticipato vigente nell’ambito del procedimento di accertamento tributario. Si eccepisce l’illegittimità costituzionale della norma, in relazione agli artt. 3,24 e 57 Cost., e si richiede, altresì, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’unione Europea ex art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea per incompatibilità del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, con il diritto comunitario.
Con il terzo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza impugnata, giacché la CTR ha omesso di pronunciare sul motivo di doglianza concernente l’illegittimità dell’avviso di rettifica e liquidazione, avuto riguardo al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 176, comma 3, che non consente un sindacato antielusivo.
Con il quarto motivo, formulato per l’ipotesi in cui la Corte ritenga sussistente un implicito rigetto della doglianza, si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 176, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giacché la CTR non ha considerato che, nella fattispecie esaminata, non è consentito un sindacato antielusivo, per cui erra allorché ritiene che il conferimento dei rami d’azienda in Royal Gold s.r.l. e la cessione dell’intera partecipazione detenuta a Lottomatica Videolot s.p.a. debbano essere fiscalmente disconosciuti, in quanto posti in essere con il solo fine di ottenere un indebito risparmio fiscale, integrando, nella sostanza, una cessione di ramo d’azienda.
Con il quinto motivo, si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giacché la CTR ha interpretato la volontà delle parti espressa in ciascun atto sottoposto a registrazione non già attenendosi alle risultanze dell’atto, ma in considerazione del suo contenuto economico, facendo quindi leva su elementi intenzionali desunti aliunde e riferiti al risultato economico complessivamente perseguito, espressione di abuso del diritto, cosa che la richiamata disposizione non consente di fare.
La censura contenuta nel primo motivo di ricorso è infondata. Giova evidenziare che la Contribuente ha prospettato piuttosto genericamente una lesione del diritto di difesa e la nullità della sentenza di primo grado non determina, una volta dedotta e rilevata in appello, la necessaria retrocessione del processo al primo grado, non rientrando l’ipotesi qui considerata tra quelle tassativamente previste dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 59 e costituendo l’appello, anche nel processo tributario, un gravame generale a carattere sostitutivo che impone al giudice dell’impugnazione di pronunciarsi e decidere sul merito della controversia.
La seconda censura del ricorso di Lottomatica Videolot Rete s.p.a., (incorporante Royal Gold s.r.l.), è infondata e non merita accoglimento.
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte ribadito che l’obbligo generale di contraddittorio preventivo esiste unicamente per i tributi armonizzati, mentre per i tributi non armonizzati occorre una specifica previsione normativa (Cass., sez. un. 24823/2015; Cass. n. 11283/2016; n. 6758/2017; n. 313/2018); che il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, concerne l’oggettiva portata effettuale dei negozi e non contiene, quindi, una disposizione antielusiva stricto sensu, come quella del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, sicché l’avviso di liquidazione ex art. 20 non soggiace all’obbligo di contraddittorio preventivo (Cass. n. 15319/2013); che la tassazione dell’imposta di registro in misura proporzionale non deriva dalla individuazione di un “abuso di diritto”, per cui non v’e’ alcuna ragione per estendere alle imposte indirette, difettando di omogeneità le relative discipline normative, una disposizione, quale è il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, dettata in materia di imposte dirette per rendere inopponibili all’Amministrazione finanziaria atti, fatti e negozi che risultassero privi di valide ragioni economiche e diretti solo ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario.
Alla luce di quanto sopra esposto, e di quanto di seguito si dirà, va esclusa la sussistenza di ragioni per interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, avuto riguardo alla normativa nazionale applicabile alla presente causa, così come per dubitare della legittimità costituzionale del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20.
La censura oggetto del quinto motivo di ricorso, assorbite quelle oggetto del terzo e quarto motivo, è invece fondata e merita accoglimento.
Il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 dispone che “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extra testuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”. Il testo attuale della disposizione è frutto delle modifiche introdotte dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), nn. 1) e 2), (di “interpretazione autentica” L. n. 145 del 2018, ex art. 1, comma 1084), che recano l’espressa previsione della irrilevanza degli elementi extra testuali e del collegamento negoziale: il legislatore ha voluto imporre una interpretazione isolata dell’atto da sottoporre a registrazione, fondata unicamente sugli elementi da esso desumibili, ribadendo così la natura 3 d’imposta d’atto dell’imposta di registro, la quale colpisce l’atto sottoposto a registrazione quale risulta dallo scritto.
In effetti, anche nella precedente formulazione della disposizione, in cui non vi era il riferimento esplicito alla irrilevanza degli elementi esterni all’atto, l’art. 20 fondava l’imposizione sugli effetti giuridici dell’atto e sulle conseguenze che questi erano idonei a produrre.
La giurisprudenza di questa Corte, tuttavia, era prevalente orientata nel senso che, ai fini dell’applicazione dell’imposta, dovesse indagarsi la causa reale o concreta dei negozi, dando rilievo al collegamento negoziale tra contratti al fine di valutarne l’effetto finale, ovvero alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali tra loro collegate (Cass. n. 13610/2018).
E’ stato reiteratamente affermato il principio della prevalenza della natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul titolo, sulla forma apparente, indipendentemente dal nomen iuris, prevalenza che vincola l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma e, quindi, il dato giuridico reale conseguente appunto alla natura intrinseca degli atti, ed ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti, con la conseguenza di dover riferire l’imposizione al risultato di un comportamento nella sostanza unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, atomisticamente considerati (tra le tante, Cass. n. 10216/2016, Cass. n. 1955/2015, Cass. n. 14150/2013, Cass. n. 6835/2013).
E’ anche vero che la Corte, sebbene con isolate pronunce, aveva affermato il diverso principio secondo cui l’attività qualificatoria dell’Ufficio, “che non è tenuto ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella “forma apparente” alla quale lo stesso art. 20 (nella formulazione anteriore alla L. n. 205 del 2017) fa riferimento”, incontra il limite dell’insuperabilità della forma e dello schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile, “pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”, per cui, in mancanza di prova, a carico dell’Amministrazione 4 finanziaria, di un disegno elusivo, ricorre piuttosto “un’ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro” (Cass. n. 2054/2017, n. 722/2019) e 6790/2020). Non v’e’ dubbio che il Legislatore sia intervenuto sull’art. 20 “in sostanziale adesione alla giurisprudenza minoritaria della Corte di cassazione”.
Ne’ può dirsi tradita in tal modo la funzione propria delle leggi di interpretazione autentica, dotate – per definizione – di efficacia retroattiva, essendo stato chiarito il senso di una norma preesistente, eliminando oggettive incertezze interpretative e rimediando ad una interpretazione giurisprudenziale non in linea con la politica del diritto voluta dal Legislatore medesimo. Così si è espressa la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 158/2020, allorquando ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, posta da questa Corte di legittimità (ord. n. 23549/2019), in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87 e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084 nella parte in cui prevede che, ai fini dell’imposta di registro, l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione debba avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extra testuali.
Il Legislatore nel riaffermare, con la denunciata norma, la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, ha precisato l’oggetto dell’imposizione, in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, per cui, come nitidamente sottolineato dalla Corte Costituzionale, un’interpretazione della norma in chiave antielusiva provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis consentendo all’Amministrazione finanziaria di operare, appunto, in funzione antielusiva, senza peraltro l’applicazione della garanzia del contraddittorio endoprocedimentale, svincolandosi da ogni riscontro probatorio di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al contribuente ogni legittima possibilità di pianificazione fiscale.
Il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 39/2021, si è nuovamente espresso sulla questione concernente la legittimità dell’intervento legislativo che ha interessato il D.P.R. n. 131 del 1986, più volte citato art. 20, dapprima con la L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), e poi con la L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, ed ha osservato che 5 esso deve essere letto come destinato non già “all’ambito semantico di una singola disposizione”, ma piuttosto “a quello dell’intero “impianto sistematico della disciplina sostanziale e procedimentale dell’imposta di registro”, dove la sua origine storica di imposta d’atto “non risulta superata dal legislatore positivo” (sentenza n. 158 del 2020)”, in quanto risponde all’esigenza di ricondurre in un ambito più ordinato e coerente, rispetto al quadro normativo in forte evoluzione, l’interpretazione anche giurisprudenziale della norma tributaria, e ciò, segnatamente, in considerazione del progressivo consolidarsi di un’organica disciplina dell’abuso del diritto.
All’Ufficio, pertanto, deve ritenersi impedita la riqualificazione di un unico negozio, come di più o meno articolate sequenze negoziali, applicando il più volte citato art. 20, sulla base della valorizzazione di elementi extra testuali.
Tanto è confermato dalla stessa relazione che accompagna l’intervento legislativo in argomento, nella quale si sottolinea come, ai fini della interpretazione degli atti presentati per la registrazione, siano irrilevanti “gli interessi concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte”.
In altri termini, resta ferma la legittimità dell’attività di riqualificazione per via interpretativa dell’atto da registrare soltanto se operata “ab intrinseco”, senza l’utilizzazione di elementi ad esso estranei, in quanto l’interpretazione prevista dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, non può basarsi sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dal singolo atto presentato alla registrazione, essendo viceversa la finalità antielusiva profilo affatto estraneo alla disposizione in esame. A diversi limiti, invece, soggiace la potestà dell’Amministrazione finanziaria quando la riqualificazione è diretta a far valere il collegamento negoziale e, più in generale, qualunque forma di abuso del diritto ed elusione fiscale, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, trattandosi di ipotesi estranea alla ermeneutica dell’atto da registrare.
L’azione accertatrice, in tali casi, si deve attuare mediante apposito e motivato atto impositivo, preceduto – a pena di nullità – da una richiesta di chiarimenti, che il contribuente può fornire entro un certo termine, il tutto da svolgersi all’interno di uno specifico procedimento di garanzia. 6 Inoltre, con la L. n. 205 del 2017 (Legge di Bilancio 2018), è stato integrato – con effetti a decorrere dal 10 gennaio 2018 – il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, inserendo il rinvio alla L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, (“1. Fermo restando quanto previsto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis le attribuzioni e i poteri di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e successive modificazioni, artt. 31 e ss. possono essere esercitati anche ai fini dell’imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale previste dal testo unico di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347”). La L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, infatti, è intervenuto sia sul D.P.R. n. 131 del 1986, sia art. 20, che art. 53-bis rubricati rispettivamente “Interpretazione degli atti” e “Attribuzioni e poteri degli Uffici”, non solo per chiarire la portata applicativa 20 T.U.R., in modo tale da restituire all’imposta di registro l’originaria veste di “imposta d’atto”, ma anche per consentire all’Amministrazione finanziaria, attraverso il richiamo della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis nel corpo dell’art. 53-bis, di riqualificare l’operazione elusiva, mediante atti collegati o elementi extra-testuali, nel caso ravvisi violazione dei principi sull’abuso del diritto.
La Corte Costituzionale, nella prima delle citate pronunce, non ha mancato di osservare che “il censurato intervento normativo appare finalizzato a ricondurre il citato art. 20 all’interno del suo alveo originario, dove l’interpretazione, in linea con le specificità del diritto tributario, risulta circoscritta agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione (ovverossia al gestum, rilevante secondo la tipizzazione stabilita dalle voci indicate nella tariffa allegata al testo unico), senza che possano essere svolte indagini circa effetti ulteriori, salvo che ciò sia espressamente stabilito dalla stessa disciplina del testo unico.”, e che “proprio la clausola finale del censurato art. 20 “salvo quanto disposto dagli articoli successivi” concorre ad avvalorare la suddetta valenza sistematica dell’intervento legislativo del 2017 nell’assetto della disciplina del tributo. Invero, per effetto della novella, le ipotesi riconducibili all’accezione restrittiva generale della nozione di “atto” presentato alla registrazione sono individuabili solo al di fuori di quelle, espressamente regolate dallo stesso testo unico, che ammettono la rilevanza degli effetti di separati atti o fatti collegati o, in altri termini, di vicende rientranti nel complessivo programma di azione costituito da un precedente negozio, che incideranno sul regime fiscale di quest’ultimo o comporteranno trattamenti d’imposta diversificati.”.
Risultano, dunque, prive di rilievo decisivo, nell’applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, le questioni concernenti sia la sussistenza o meno di un intento elusivo o simulatorio in capo alle parti contraenti, che l’Amministrazione non è tenuta a dimostrare, sia – per quanto già detto – il difetto di contraddittorio preventivo in sede di procedimento amministrativo.
Ne’, in senso contrario, appare utile richiamare la previsione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, atteso che, nel caso di specie, la disposizione si applica nel testo vigente prima delle modifiche apportate L. n. 205 del 2017, che, come già detto, ha esteso al campo delle imposte di registro, ipotecaria e catastale le “attribuzioni” ed i “poteri” riconosciuti agli Uffici dal D.P.R. n. 600 del 1973 (e, segnatamente, dai relativi artt. 31, 32 e 33) per l’accertamento delle imposte dirette, ma senza contemplare alcun richiamo alla disposizione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, norma che non riguarda suddette “attribuzioni” e “poteri”, ma incide sull’oggetto dell’imposizione (Cass. n. 15319/2013 cit.).
Per la codificazione dell’istituto dell’abuso del diritto, costruito sulla scorta delle soluzioni definitorie elaborate dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria, bisogna guardare al D.Lgs. n. 128 del 2015, che ha previsto, all’art. 1, una definizione dell’abuso del diritto, e le sue implicazioni in materia fiscale con valenza generale, sia per i tributi armonizzati, per i quali trova fondamento nei principi dell’ordinamento UE, che per quelli non armonizzati, per i quali il fondamento va ricercato nei principi costituzionali, in attuazione della delega fiscale concessa al governo dalla L. 11 marzo 2014, n. 23, artt. 5 e 6 e art. 8, comma 2 al dichiarato intento di “certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente”.
E con detta disposizione che il Legislatore ha aggiunto, dopo l’art. 10 dello Statuto del contribuente (L. 212 del 2000), l’art. 10-bis (testo in vigore dal 1 ottobre 2015), a tenore del quale (comma 1) “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”).
Ed è proprio il predetto art. 10 bis a prevedere che l’accertamento dell’abuso del diritto da parte dell’Amministrazione debba essere obbligatoriamente preceduto da una richiesta di chiarimenti (comma 6), da fornire entro 60 giorni da parte del contribuente, e che l’atto impositivo (comma 8) debba essere sempre specificamente motivato in relazione alla condotta abusiva, alle norme eluse, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati ed ai chiarimenti forniti dal contribuente. E’, infine, la L. n. 205 del 2017, con l’art. 1, comma 87, lett. b), che introduce nel D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, il rinvio alla L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, (testo in vigore dal 10gennaio 2018), e con esso completa il pieno ingresso dell’istituto dell’abuso del diritto nell’ambito specifico della imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale. In conclusione, se una diversa lettura del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, così come risulta autenticamente interpretato dal Legislatore, non appare più consentita dopo la sentenza n. 158/2020 della Corte Costituzionale, ciò non di meno il ricordato principio giurisprudenziale della “prevalenza della sostanza sulla forma” può sempre essere fatto valere dall’Amministrazione finanziaria, sia pure entro i limiti imposti all’attività ermeneutica dalla richiamata disposizione, mentre ove ricorra l’abuso del diritto, mediante l’applicazione dell’art. 10 bis dello Statuto del Contribuente, stante l’espresso richiamo contenuto nel D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, che richiede, per superare la qualificazione formale dell’atto, la prova dell’illegittimo risparmio fiscale, oltre che il rispetto delle garanzie procedimentali di cui si è in precedenza detto.
Con specifico riferimento alla fattispecie per cui è causa, deve ritenersi superato l’indirizzo giurisprudenziale di legittimità, in materia di imposta di registro, seguito dal giudice di appello, stante l’applicabilità retroattiva del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 nel testo novellato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, per effetto della precisazione contenuta nella L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, l’Amministrazione finanziaria non aveva facoltà di riqualificare la sequenza di una pluralità di atti nei termini complessivi ed unitari di cessione (indiretta) di ramo aziendale, dovendo limitarsi a verificare la corretta liquidazione dell’imposta di registro in relazione a ciascuna delle predette operazioni, i cui effetti giuridici dovevano essere singolarmente e separatamente valutati ai fini fiscali qui considerati.
La CTR laziale non ha fatto corretta applicazione del principio sopra enunciato, essendo pacifico che per giungere alla conclusione della “cessione d’azienda”, contro il divieto di legge, l’Agenzia delle entrate ha posto in collegamento tra di loro atti diversi e distinti, non solo per l’oggetto, ma anche per le parti contraenti, valutando l’operazione nel suo complesso, in quanto produttiva di un unico effetto giuridico finale, da identificarsi nella cessione d’azienda, in violazione del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost..
La sentenza impugnata, in conclusione, va cassata e non necessitando di ulteriori accertamenti la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento dell’originario ricorso della società contribuente.
Le spese processuali dell’intero giudizio possono essere compensate in considerazione dell’evoluzione normativa e della incertezza giurisprudenziale risolta solo a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale.
P.Q.M.
La Corte, accoglie il quinto motivo di ricorso, respinge il primo e secondo, dichiara assorbiti i restanti motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al mezzo accolto e, decidendo nel merito, accoglie l’originario della società contribuente. Compensa le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 15 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2022