Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29274 del 28/12/2011

Cassazione civile sez. VI, 28/12/2011, (ud. 11/11/2011, dep. 28/12/2011), n.29274

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – rel. Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 14021-2010 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA (OMISSIS), in persona del Presidente del

Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio

dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende giusa

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

T.L. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA COLA DI RIENZO 271, presso lo studio dell’avvocato BALDASSARRE

FRANCESCO, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2188/2009 della CORTE D’APPELLO di LECCE del

6/11/09, depositata il 16/11/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

11/11/2011 dal Consigliere Relatore Dott. SAVERIO TOFFOLI;

è presente il P.G. in persona del Dott. IGNAZIO PATRONE.

Fatto

MOTIVI

La Corte pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. a seguito di relazione ex art. 380-bis.

1. Il Tribunale di Lecce rigettava la domanda proposta da T. L. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta alla declaratoria di illegittimità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro stipulato tra le parti il 6.10.2000 per il periodo dal 9.10.2000 al 31.1.2001 e la causale delle “esigenze eccezionali” conseguenti alla ristrutturazione aziendale.

A seguito di appello del lavoratore, la Corte d’Appello di Lecce accoglieva l’impugnazione, dichiarando la nullità del termine finale apposto al contratto e riconoscendo quindi la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ancora in atto.

Escludeva la configurabilità di una risoluzione del contratto per mutuo consenso, rilevando che la mera inerzia non è, nonostante la percezione del t.f.r.,indicativa della volontà di non proseguire il rapporto, rilevava anche che la parte si era attivata prima del decorso di un quinquennio della cessazione del contratto richiedendo il tentativo di conciliazione.

Accoglieva anche la domanda di risarcimento del danno, rapportato alla retribuzione maturata dalla notifica del ricorso introduttivo.

2. La società ha proposto ricorso con due motivi. L’intimato resiste con controricorso.

3. Il ricorso appare qualificabile come manifestamente infondato.

3.1. Il primo motivo, deducendo violazione dell’art. 1372 c.c., commi 1 e 2, vizi di motivazione e nullità del procedimento, lamenta che il giudice a quo non ha congruamente motivato in ordine alla rilevanza, ai fini della prova di una risoluzione per mutuo consenso, di elementi quali la conclusione del rapporto alla sua naturale scadenza, la mancanza di contestazioni da parte del lavoratore, il percepimento da parte sua delle indennità di fine rapporto, la contestazione della legittimità del termine solo dopo quattro anni dalla conclusione del rapporto. Si deduce anche la circostanza che il ricorrente non si era presentato a riprendere servizio e per tale motivo era stato licenziato con lettera del 8.3.2010.

Premesso che tale ultima deduzione è inammissibile perchè inerente a fatto estintivo – peraltro incongruo rispetto alla stessa cronologia dei fatti di causa – che risulta allegato per la prima volta in questa sede di legittimità, deve rilevarsi che le censure non sono idonee a evidenziare vizi della parte della motivazione in esame, che risulta conforme al principio di diritto secondo cui “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto) per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (Cass. 23554/2004 e numerose altre successive).

3.2. Il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 e segg. c.c. e vizi di motivazione, censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto illegittimamente apposto il termine ai contratti di lavoro e in particolare nella parte in cui ha ritenuto di individuare nella data del 30.4.1998 il preteso termine ultimo di validità ed efficacia temporale dell’accordo integrativo del 25.9.1997, sostenendo con vari argomenti che, in sostanza, se si analizza tanto l’accordo del 25.9.1997 quanto la disciplina collettiva posteriore alla sua stipula, facendo corretta applicazione dei criteri ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c. e segg., è evidente che tali accordi hanno sempre avuto mera natura ricognitiva di una situazione contingente e non fissano alcun termine temporale.

Questo motivo deve essere disatteso, in base all’indirizzo in materia, ormai consolidato, dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al c.c.n.l. del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001).

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2.3.2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4.8.2008 n. 21063, v. anche Cass. 20.4.2006 n. 9245, Cass. 7.3.2005 n. 4862, Cass. 26.7.2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatati, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre, Cass. 4.8.2008 n. 21062, Cass. 23.8.2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23.8.2006 n. 18383, Cass. 14.4.2005 n. 7745, Cass. 14.2.2004 n. 2866).

In particolare, quindi, nella specie, come questa Corte ha più volte affermato e come va enunciato anche in questa sede, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1″ (v., fra le altre, Cass. 1.10.2007 n. 20608, Cass. 27.3.2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

Tale interpretazione degli accordi attuativi (ed in specie dell’ultimo citato) è fondata sul significato letterale delle espressioni usate che è così evidente e univoco (” in conseguenza di ciò e per far fronte alle predette esigenze si potrà procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato fino al 30.4.98″) che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453), mentre, diversamente opinando – ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga – si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, fossero in sostanza “senza senso” (così testualmente Cass, n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Peraltro al riguardo irrilevante è l’accordo del 18 gennaio 2001, invocato dalla società, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga; ed infatti, ammesso che le parti stipulanti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), considerata la indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, deve comunque escludersi che le parti stesse avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

4. Il terzo motivo denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 210 c.p.c. e 421 c.p.c. e conseguente nullità del procedimento. Si lamenta che la Corte d’appello abbia omesso di motivare in relazione all’eccezione di aliunde perceptum e in particolare in merito alla richiesta formulata in entrambi i gradi del giudizio e diretta all’esibizione di documentazione (libretti di lavoro e busta paga) al fine consentire una corretta determinazione degli eventuali corrispettivi percepiti dal lavoratore per attività svolte alle dipendenze o nell’interesse di terzi. Con la memoria difensiva la ricorrente ha poi chiesto l’applicazione dello ius superveniens di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 in materia di conseguenze economiche della declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Circa la rilevanza dell’invocato ius superveniens è opportuno ricordare innanzitutto il principio di diritto secondo cui:

“Nel giudizio di legittimità, lo “ius superveniens”, che introduca una nuova disciplina del rapporto controverso, può trovare di regola applicazione solo alla duplice condizione che, da un lato, la sopravvenienza sia posteriore alla proposizione del ricorso per cassazione, e ciò perchè, in tale ipotesi, il ricorrente non ha potuto tener conto dei mutamenti operatisi successivamente nei presupposti legali che condizionano la disciplina dei singoli casi concreti; e, dall’altro lato, la normativa sopraggiunta sia pertinente rispetto alle questioni agitate nel ricorso, posto che i principi generali dell’ordinamento in materia di processo per cassazione – e soprattutto quello che impone che la funzione di legittimità sia esercitata attraverso l’individuazione delle censure espresse nei motivi di ricorso e sulla base di esse – impediscono di rilevare d’ufficio (o a seguito di segnalazione fatta dalla parte mediante memoria difensiva ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ.) regole di giudico determinate dalla sopravvenienza di disposizioni, ancorchè dotate di efficacia retroattiva, afferenti ad un profilo della norma applicata che non sia stato investito, neppure indirettamente, dai motivi di ricorso e che concernano quindi una questione non sottoposta al giudice di legittimità” (Cass. n. 10547/2006 e, in termini analoghi, Cass. 4070/2004 e 11894/2004;

cfr., con riferimento alla specie, Cass. n. 65/2011). Peraltro, alla mancanza di un motivo del ricorso per cassazione che riapra la discussione sopra gli aspetti della decisione investiti dalla sopravvenuta modifica normativa è equiparabile l’inammissibilità del motivo che astrattamente sia riferibile alle medesime questioni (cfr. Cass. n. 16933/2011). Nella specie è ravvisabile tale situazione di inammissibilità perchè la doglianza relativa al mancato esame delle richieste istruttorie formulate in tema di aliunde perceptum è stata formulata in termini alquanto generici, senza indicazione specifica del preciso contenuto di tale richieste e degli atti processuali con cui esse erano state formulate.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, di cui è stata chiesta la distrazione, sono regolate in base al criterio della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio, liquidate in Euro trenta per esborsi ed Euro duemila per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA secondo legge, distratte all’avv. Francesco Baldassarre.

Così deciso in Roma, il 11 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2011

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