Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29256 del 28/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 28/12/2011, (ud. 15/12/2011, dep. 28/12/2011), n.29256

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2108/2009 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso

lo studio dell’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.A.M., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE

DON MINZONI 9, presso lo studio dell’avvocato AFELTRA Roberto, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ZEZZA LUIGI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

e contro

MO.GA., C.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 40/2007 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 12/01/2007 r.g.n. 606/05 + altre;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/12/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega SALVATORE TRIFIRO’;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per: inammissibilità per M.

e rigetto per gli altri.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di appello di Milano, con sentenza in data 8.11.2006/12.1.2007 confermava la decisione di primo grado che aveva dichiarato la nullità del termine apposto ai contratti stipulati fra le Poste Italiane e C.R. dal 19 ottobre 2000 al 31 gennaio 2001 ed ulteriori, con Mo.Ga. dall’11 novembre 2002 al 31 dicembre 2002, con M.A.M. dal 4 luglio al 30 agosto 2003. Contratti stipulati il primo ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26.11.1994 (“per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”), il secondo “per esigenze tecniche, organizzative e produttive connesse all’attuale fase di riorganizzazione dei Centri Rete Postali, ivi ricomprendendo una più funzionale ricollocazione del personale sul territorio nonchè per far fronte ai maggiori flussi di traffico del periodo natalizio”, il terzo ai sensi del D.L. n. 368 del 2001, art. 1.

Osservava in sintesi la corte territoriale, quanto ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina del D.Lgs. n. 368 del 2001, che gli stessi erano stati stipulati in assenza di alcuna valida autorizzazione da parte della contrattazione collettiva, per la scadenza dei limiti temporali di vigenza degli accordi conclusi dalle parti sociali ai sensi della disposizione della L. n. 56 del 1987, art. 23; quanto ai restanti, che erano stati posti in essere in virtù di una previsione contrattuale caratterizzata da assoluta genericità ed indeterminatezza e, comunque, in assenza di prova della concreta riconducibilità delle assunzioni alle ipotesi negoziali. Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le poste Italiane con undici motivi, illustrati con memoria.

Resiste con controricorso M.A.M..

E’ stato prodotto verbale di conciliazione sindacale intervenuto con M.A.M..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 1372 c.c., osservando come la corte territoriale avesse omesso di pronunciarsi sull’eccezione di risoluzione del contratto per mutuo consenso, per essersi la C. rifiutata di riprendere servizio.

Con i motivi dal secondo al quinto la società ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2, della L. n. 56 del 1987, art. 23, dei criteri di ermeneutica contrattuale in relazione agli accordi collettivi intercorsi, nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), deduce che il potere normativamente attribuito alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle già stabilite dall’ordinamento, poteva essere esercitato senza limiti di tempo, non prevedendosi alcun limite temporale al riguardo, con la conseguenza che agli accordi c.d. attuativi del contratto del 25.9.1997 non poteva che riconoscersi una funzione meramente ricognitiva della permanenza delle esigenze sottese alla necessità di stipulare ulteriori contratti a termine.

Col sesto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la società ricorrente lamenta violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, ed, al riguardo, osserva che la norma non preclude, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte di merito, la possibilità di assunzione a termine con riferimento a più concorrenti ragioni.

Col settimo ed ottavo motivo, proposti con riferimento ad analoga violazione di legge, nonchè per vizio di motivazione, viene censurata la sentenza per aver ritenuto illegittimo il termine apposto al contratto concluso con la M..

Con il nono motivo la società ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione degli artt. 1418, 1419, 1457 c.c., D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, rilevando che la corte territoriale, erroneamente interpretando il D.Lgs. n. 368, art. 1, aveva ritenuto che la violazione di tale norma, per l’ipotesi della conclusione di un contratto a termine sorto in assenza dei relativi presupposti legali, comportasse, in evidente assonanza con quanto previsto dall’abrogata L. n. 230 del 1962, una sanzione (la conversione del contratto a tempo indeterminato) non più prevista dalla legge.

Con il decimo motivo prospetta vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) con riferimento all’eccezione di aliunde perceptum ritualmente proposta nei precedenti gradi di merito.

Con l’ultimo motivo, infine, la società ricorrente censura la sentenza impugnata, prospettando violazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1219, 2094, 2099 c.c., per aver omesso di verificare se vi fosse stata effettiva costituzione in mora da parte degli intimati ed, in particolare, per avere assegnato tale efficacia all’istanza ex art. 410 c.p.c., pur priva di alcuna offerta della prestazione di lavoro.

2. Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti di M.A.M..

Dal verbale di conciliazione del 30.1.2009 prodotto in copia risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo in conformità alle previsioni degli accordi collettivi in tema di consolidamento dei rapporti di lavoro degli assunti a tempo determinato riammessi in servizio per ordine del giudice del lavoro, in esito al quale la M. è stata assunta con contratto di lavoro a tempo indeterminato, rinunciando agli effetti giuridici ed economici della sentenze di riammissione in servizio, nonchè ad azionare ogni rivendicazione ricollegabile ad eventuali ulteriori rapporti intercorsi con la società, seppur diversi da quello preso a riferimento nella sentenza citata nel verbale medesimo, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge e dichiarando che – in caso di fasi giudiziali ancora aperte – le stesse saranno definite in coerenza con il presente verbale.

Osserva il Collegio che il suddetto verbale di conciliazione si palesa idoneo a dimostrare la cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo; alla cessazione della materia del contendere consegue pertanto la declaratoria di inammissibilità del ricorso in quanto l’interesse ad agire, e quindi anche ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione, in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutato l’interesse ad agire (Cass. S.U. 29 novembre 2006 n. 25278, Cass. 13-7-2009 n. 16341).

Spese compensate in parte qua, stante l’esito del giudizio.

3. Il primo motivo (relativo alla posizione della C.) è inammissibile.

Deve, al riguardo, richiamarsi il principio di diritto secondo cui, se è vero che la Corte di Cassazione, allorquando sia denunciato un error in procedendo è anche giudice del fatto ed ha il potere- dovere di esaminare direttamente gli atti di causa, tuttavia, per il sorgere di tale potere-dovere, è necessario, non essendo il predetto vizio rilevabile d’ufficio, che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il fatto processuale di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazione e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (v., per tutte, Cass. n. 14133/2007), con la puntuale trascrizione degli atti difensivi e dei verbali di udienza che siano a tal fine rilevanti. Più in particolare, affinchè possa utilmente dedursi, in sede di legittimità, il vizio di omessa pronuncia, è necessario, da un lato, che al giudice di merito siano state rivolte domande, eccezioni o deduzioni autonomamente apprezzabili, e, dall’altro, che tali domande, eccezioni e deduzioni siano state riportate puntualmente nei loro esatti termini nel ricorso per cassazione, per la rilevanza che assume il principio di autosufficienza, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo o del verbale di udienza nei quali le une o le altre erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, quindi, la decisività (cfr. SU n. 15781/2005).

Condizioni che, nel caso, non sono affatto riscontrabili.

4. Con riferimento, poi, al secondo, terzo, quarto e quinto motivo (pur essi riferibili alla posizione della C.) vanno richiamati i principi elaborati da questa Suprema Corte con riferimento alla disciplina dell’istituto nel sistema vigente anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001.

In primo luogo, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, questa Corte ha affermato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063,v.

anche Cass. 20 aprile 2006 n. 9245, Cass. 7 marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato” (v., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n. 18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866).

In particolare, come questa Corte ha più volte rilevato, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l.

26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608, Cass. 27 marzo 2008 n. 7979; v. da ultimo ad es. Cass. n. 6636/2011; Cass. n. 7502/2011; Cass. n. 6294/2011).

Rilevato, quindi, che, in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, hanno reputato che con tali accordi le parti avessero convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998) della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo.

Questa Corte ha anche osservato che tale interpretazione non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di una più diffusa argomentazione ai fini della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

Inoltre, è stato rilevato che tale interpretazione si palesa rispettosa del canone ermeneutico dell’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi (in considerazione della loro idoneità ad introdurre termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano previsti ex ante), laddove, diversamente opinando, gli stessi risulterebbero “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Infine, corretta è apparsa, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del lavoratore si era già definitivamente perfezionato.

Ed infatti, anche ad ammettere che le parti fossero mosse dall’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni effettuate senza la copertura dell’accordo del 25 settembre 1997 (scaduto in forza delle convenzioni attuative), si dovrebbe, comunque, richiamare la regola dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già acquisiti, con la conseguente esclusione per le parti stipulanti del potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (cfr., per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

In base agli esposti criteri interpretativi, ormai consolidati, ed al valore dei relativi precedenti, devono, quindi, rigettarsi i motivi del ricorso in esame, con assorbimento di ogni ulteriore censura.

5. Quanto al sesto motivo (relativo alla posizione processuale di Mo.Ga.), sebbene evidenzi profili di censura meritevoli di accoglimento, nondimeno, non appare idoneo a determinare di per sè la cassazione della sentenza impugnata.

Per come, infatti, non ha mancato già di sottolineare la giurisprudenza di legittimità, l’indicazione di due o più ragioni legittimanti l’apposizione di un termine ad un unico contratto di lavoro non è di per sè causa di illegittimità della clausola di durata per contraddittorietà o incertezza della ragione giustificativa della stessa, fermo restando la necessità di una valutazione in concreto della effettività e coerenza delle ragioni indicate (cfr. Cass. n. 16396/2008).

Nel caso in esame, tuttavia, la corte territoriale non ha ricollegato l’invalidità della clausola solo all’esistenza di una doppia causale giustificativa, ma ha, altresì, dato rilievo all’assenza di prova in ordine al collegamento funzionale fra la causale indicata e l’assunzione a tempo effettuata.

Il che vale quanto dire che la sentenza impugnata evidenzia una pluralità di ragioni di decisione, tutte autonomamente apprezzabili, e che, nondimeno, le censure mosse dalla società ricorrente non riguardano il complesso di tali ragioni e non risultano, pertanto, idonee a travolgere la decisione contestata nella sua interezza.

E ciò in aderenza al consolidato insegnamento giurisprudenziale per cui, ove una sentenza (o un capo di questa) si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della stessa, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia avuto esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo stesso dell’impugnazione.

Questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza nella sua interezza, o in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che l’una o l’altro autonomamente sorreggono, con la conseguenza che è sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa ad una sola di tali ragioni, perchè il motivo di impugnazione debba essere respinto nella sua interezza (v. ad es. Cass. n. 5902/2002;

Cass. n. 2273/2005; Cass. n. 2811/2006).

6. Il settimo e l’ottavo motivo, in quanto relativi alla posizione della M., che ha conciliato la causa, restano assorbiti nella statuizione di inammissibilità del relativo ricorso.

7. Non meritevole di accoglimento è anche il nono motivo, dovendosi confermare che, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, per come previste dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonchè alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte Cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (così Cass. n. 12985/2008 e ulteriori).

8. Il decimo motivo è, invece, inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., ultima parte.

Con tale motivo, infatti, la ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti processuali controversi e decisivi per il giudizio, senza che, tuttavia, risulti, per come richiesto dalla norma indicata, un quid pluris rispetto all’illustrazione dei motivi, e cioè una autonoma e sintetica rilevazione dei fatti processuali rispetto ai quali si assume il vizio di motivazione.

Deve, infatti, confermarsi, in aderenza a quanto già ritenuto da questa Suprema Corte, come l’onere imposto in parte qua dall’art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non solo illustrando il motivo, ma anche formulando, al termine di esso e, comunque, in una parte del motivo a ciò espressamente dedicata, una indicazione riassuntiva e sintetica che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del ricorso e valga ad evidenziare, in termini immediatamente percepibili, il vizio motivazionale prospettato, e quindi l’ammissibilità del ricorso stesso (cfr. Cass. ord. n. 8897/2008;

Cass. ord. n. 20603/2007; Cass. ord. n. 16002/2007).

10. Con riguardo, infine, all’ultimo motivo la difesa della società ricorrente ha prospettato, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.

In ordine a tale questione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens, che la nuova disciplina del rapporto controverso sia pertinente alle censure formulate col ricorso, tenuto conto della natura del giudizio di legittimità, il cui perimetro, come noto, è limitato dagli specifici motivi del ricorso (cfr. Cass. n. 10547/2006).

In tal contesto, è necessario che il motivo del ricorso, che investa, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia, altresì, ammissibile, secondo la disciplina sua propria.

In particolare, con riferimento alla disciplina invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente presuppone, nel giudizio di cassazione, che i motivi del ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che non siano tardivi, generici, o affetti da altra causa di inammissibilità, ivi compresa la mancata osservanza del precetto dell’art. 366 bis c.p.c., ove applicabile ratione temporis.

In caso di assenza o inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche della clausola di durata, illegittimamente apposta, il rigetto per tali cause dei motivi non può, quindi, che determinare la stabilità e irrevocabilità delle statuizioni di merito contestate.

Premessi tali principi, è da rilevare che, nel caso, la società ricorrente sostiene che, alla luce della regola di corrispettività e sinallagmaticità della prestazione di lavoro, la situazione di mora credendo necessaria per la decorrenza del danno risarcibile nel caso di mancata ripresa del rapporto a seguito della scadenza del relativo termine dichiarato nullo, presuppone l’effettiva ripresa del servizio e, comunque, un formale atto di messa in mora, nella specie non rinvenibile in seno all’istanza ex art. 410 c.p.c., e che, al riguardo, pertanto, era stata omessa alcuna verifica da parte dei giudici di merito.

Il motivo così riassunto conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 366 bis c.p.c.:

“Per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 c.c., e segg.; in ogni caso se la costituzione in mora del datore di lavoro decorre soltanto dalla data di ricezione, da parte del datore di lavoro, dell’atto di costituzione in mora e non dalla (anteriore) data di effettuazione della notifica del medesimo”.

Il quesito descritto, nondimeno, risulta non conforme al precetto dell’art. 366 bis c.p.c., per non ricomprendere il complesso delle censure articolate nel motivo e per risolversi, comunque, nella enunciazione astratta delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.

Il quesito di diritto, che la norma richiede a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve, infatti, essere formulato, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr. ad es. Cass. SU n. 36/2007 e n. 2658/2008), dovendosi ritenere come inesistente un quesito generico, parziale o non pertinente. In proposito, per come rilevato, a fini esemplificativi, da SU (ord) n. 2658/2008, “potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata”, le ragioni della cui erroneità siano adeguatamente illustrate nel motivo medesimo.

Il quesito posto dalla società ricorrente non risulta conforme ai canoni interpretativi indicati perchè – va ribadito – inidoneo ad esprimere, in termini riassuntivi, ma concretamente pertinenti all’articolazione delle censure in relazione alla fattispecie controversa, il vizio ricostruttivo addebitato alla decisione.

11. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Nulla per le spese, non avendo svolto gli intimati C.R. e Mo.Ga. attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto dalle Poste italiane nei confronti di M.A.M. e compensa fra le dette parti le spese; rigetta per il resto il ricorso, nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2011

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