Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29252 del 20/10/2021

Cassazione civile sez. I, 20/10/2021, (ud. 23/06/2021, dep. 20/10/2021), n.29252

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16551/2018 proposto da:

Pepati S.r.l. in Liquidazione, in persona del liquidatore pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, piazza del Fante n. 10,

presso lo studio dell’avvocato De Jorio Filippo, rappresentata e

difesa dall’avvocato De Scrilli Fernanda, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

C.P.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 535/2017 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

pubblicata il 11/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/06/2021 dal consigliere Dr. Vella Paola.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La società Pepati S.r.l. ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo emesso dal Giudice del lavoro del Tribunale di Ascoli Piceno per l’importo di Euro 36.000,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria, a titolo di compenso (deliberato in data 03/11/2004) per l’attività di amministratore unico svolta dalla signora C.P. dal 10/11/2003 al 24/11/2005.

1.1. Disposto il mutamento del rito, da lavoro a societario, ex D.Lgs. n. 5 del 2003, il tribunale ha rigettato l’opposizione e confermato il decreto ingiuntivo, pur dando atto dell’ammanco di cassa addebitabile alla C. – per Euro 24.800,75 – accertato con sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 745 del 2009.

1.2. La Corte d’appello di Ancona, dopo aver dichiarato inammissibili le istanze istruttorie reiterate dalla società appellante ed ammissibile, invece, la produzione della sopravvenuta sentenza della Corte d’appello di Ancona n. 353 del 2016 (confermativa della sopra menzionata sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 745 del 2009), ha respinto l’appello proposto dalla società.

1.3. In particolare, la corte territoriale ha: 1) rigettato i primi due motivi di appello, sulla pretesa nullità del decreto ingiuntivo perché emesso dal giudice del lavoro, in quanto mera questione di rito e non di competenza; 2) rigettato anche il terzo, il quarto e il quinto motivo (quest’ultimo poi dichiarato altresì assorbito, perché aspecifico) con i quali si deduceva: l’omesso esame dell’eccezione di inadempimento ex art. 1218 c.c.; l’erronea affermazione della natura non contrattuale del rapporto tra amministratore e società; l’omessa considerazione dei plurimi inadempimenti imputabili alla C. e della sua sistematica violazione dei doveri di amministratore, risultante dalla copiosa documentazione prodotta; 3) dichiarato infondati e inammissibili (perché aspecifici) il sesto e settimo motivo d’appello sulla omessa pronuncia circa la tardiva costituzione della C. e l’inammissibilità della domanda subordinata di rideterminazione giudiziale del compenso, trattandosi di semplice emendatio libelli, poiché la delibera assembleare costituiva la prova del credito vantato dalla C. e la causa petendi era il diritto al compenso ex art. 2389 c.c. nascente dal rapporto organico; iv) rigettato l’ottavo motivo, dovendosi il petitum individuare nelle conclusioni riformulate dalla società con l’atto di riassunzione ex D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 7 e non nelle originarie conclusioni dell’atto di opposizione a decreto ingiuntivo; v) rigettato il nono motivo d’appello, sull’omesso esame della domanda subordinata di rideterminazione del compenso alla luce dell’ammanco di cassa e dell’insussistenza di attività per circa dodici mesi, in quanto la delibera assembleare del 3 novembre 2004 aveva fissato il compenso di Euro 18.000,00 annui e il compenso è un diritto che nasce ex art. 2389 c.c. con l’assunzione della carica, restando irrilevanti “sia la dedotta assenza di attività d’impresa sino all’agosto 2004, sia l’inerzia della C. nel periodo intercorrente tra le proprie dimissioni e la nomina del nuovo amministratore”.

2. Avverso detta decisione la Pepati s.r.l. in liquidazione ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi, corredato da memoria. L’intimata C. non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2.1. Con il primo motivo si lamenta la violazione degli artt. 1460 e 1218 c.c., art. 2392 c.c., comma 1 e art. 2393 c.c., nonché artt. 3 e 24 Cost., per non essere stato riconosciuto il diritto della società di limitarsi a sollevare l’eccezione di inadempimento per paralizzare la pretesa di compenso dell’amministratore, senza dover necessariamente proporre un’azione di responsabilità nei suoi confronti, di natura contrattuale.

2.2. Il secondo mezzo denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., art. 115 c.p.c. e D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 10, comma 2-bis, in ordine alla ripartizione dell’onere della prova e all’onere di specifica contestazione a fronte dell’eccezione di inadempimento o non corretto adempimento sollevata dalla società e provata per tabulas (come da documenti allegati all’opposizione a decreto ingiuntivo, riportati da pag. 14 a pag. 19 del ricorso).

2.3. Il terzo denuncia la violazione dell’art. 426 c.p.c., art. 427 c.p.c., commi 1 e 5, per l’erroneo mutamento del rito (da lavoro a societario) senza annullamento del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo concesso da un giudice incompetente, o comunque secondo un rito sbagliato; in subordine si deduce che l’errore sulla scelta del rito da parte dell’attore in sede monitoria e la conferma del decreto ingiuntivo, oltre ad incidere sulle spese legali (liquidate da un giudice incompetente), avrebbero “precluso alla società opponente (tra l’altro) l’immediata proposizione della deliberata azione di responsabilità avverso l’ex amministratore (azione di spettanza della società, anche nelle s.r.l.)”.

2.4. Con il quarto si adduce la nullità della sentenza, ex art. 360 c.p.c., n. 4, con riferimento all’art. 112 c.p.c., poiché il secondo motivo di appello sarebbe stato meramente enunciato ma non anche esaminato.

2.5. La stessa censura di nullità (o in subordine la violazione del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 9, comma 1) è veicolata dal quinto motivo, con riguardo alla “erronea individuazione delle conclusioni dell’esponente”.

2.6. Il sesto mezzo denunzia, infine, la violazione degli artt. 1460,1218 e 2697 c.c., con riferimento alla mancata valutazione dell’inerzia della C. nel periodo intercorrente tra le sue dimissioni e la nomina del nuovo amministratore, quantomeno ai fini della riduzione quantum del compenso invocato.

3. I primi due motivi, che in quanto connessi possono essere esaminati congiuntamente, sono fondati, con assorbimento del sesto.

3.1. La questione principale posta con il ricorso è se la società possa opporsi al decreto ingiuntivo ottenuto dal suo ex amministratore, a titolo di compenso per l’incarico svolto, allegandone – in via di eccezione – l’inadempimento o il non corretto adempimento, pur senza aver proposto azione di responsabilità ex art. 2476 c.c., comma 1.

3.2. Secondo i giudici di appello, considerando che tra l’amministratore e la società sussiste un rapporto di immedesimazione organica (non già contrattuale) e che non è emersa l’esistenza di un rapporto parallelo tra la C. e la Pepati S.r.l., qualificabile come prestazione di lavoro subordinato, parasubordinato o autonomo (Cass. Sez. U, 1545/2017), la sentenza di primo grado sarebbe corretta “nella parte in cui ha escluso l’inversione dell’onere probatorio derivante dalla tesi contrattualistica a fronte dell’eccezione di inadempimento sollevata dalla società debitrice (sul) diritto al compenso, ed in definitiva ha escluso l’operatività delle eccezioni (sia ex art. 1460 c.c. che nei sensi dell’art. 1218 c.c.) impeditive della pretesa creditoria, in assenza di una azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore”, il quale “vanta nei confronti della società un diritto soggettivo perfetto al compenso, salvo che si accerti una sua responsabilità per danni”.

3.3. Tale statuizione merita di essere riformata.

4. La configurazione del rapporto che lega l’amministratore alla società di capitali e, soprattutto, le plurime implicazioni – di carattere sostanziale e processuale – discendenti dalla sua natura, hanno da sempre registrato, in dottrina e giurisprudenza, analisi tanto complesse quanto variegate negli approdi risolutivi.

4.1. E’ noto come in dottrina si siano sempre fronteggiate la teoria cd. contrattualistica (per cui il conferimento all’amministratore del potere rappresentativo della società deriva non dalla legge o dallo statuto, bensì dal regolamento negoziale tra i due soggetti, costituenti autonomi centri di interessi, talora contrapposti) e la teoria cd. organica o unilateralistica (per cui l’immedesimazione dell’organo nella persona giuridica, che rappresenta, esclude la configurabilità di un rapporto negoziale intersoggettivo, fonte di reciproci diritti e obblighi).

4.2. E’ noto altresì che, nell’ambito della prima teoria, si distinguono diverse tesi, le quali declinano il predetto rapporto negoziale ora come “mandato” (per le similitudini evocate dagli artt. 2475-ter, 2476,2476 e 2479 c.c.), ora come “contratto di amministrazione” sui generis, ora come “prestazione d’opera professionale”, ovvero di “lavoro subordinato” o, più genericamente, “rapporto di para-subordinazione”.

4.2. Nella giurisprudenza di legittimità, un risalente arresto nomofilattico sostenne che, nei rapporti societari interni, la posizione dell’amministratore di una società di capitali fosse “simile a quella del mandatario” e che – sotto il profilo processuale – “la controversia nella quale l’amministratore di una società di capitali, o ente assimilato, chieda la condanna della società stessa al pagamento di una somma dovuta per effetto dell’attività di esercizio delle funzioni gestorie, è soggetta al rito del lavoro ai sensi dell’art. 409 c.p.c., n. 3, atteso che, se verso i terzi estranei all’organizzazione societaria è configurabile, tra amministrazione e società, un rapporto di immedesimazione organica, all’interno dell’organizzazione ben sono configurabili rapporti di credito nascenti da un’attività come quella resa dall’amministratore, continua, coordinata e prevalentemente personale, non rilevando in contrario il contenuto parzialmente imprenditoriale dell’attività gestoria e l’eventuale mancanza di una posizione di debolezza contrattuale dell’amministratore nei confronti della società” (Cass. Sez. U, 10680/1994).

4.3. Dopo quasi cinque lustri lo stesso organo nomofilattico nell’affrontare (risolvendola positivamente) la questione della pignorabilità del compenso dell’amministratore di una s.p.a. “senza i limiti previsti dall’art. 545 c.p.c., comma 4” – ha corretto quella impostazione, sul rilievo che “il rapporto fra l’amministratore e la società debba essere ricondotto nell’ambito dei “rapporti societari, ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario” cui fa riferimento il D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 3, comma 2, lett. a) per l’individuazione della competenza per materia del tribunale delle imprese. Rendendo così irrilevante” – a tali fini – “la distinzione fra l’attività a rilevanza esterna degli amministratori e il rapporto di natura obbligatoria di questi ultimi con la società”. Di qui la massima per cui “l’amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una s.p.a. sono legati alla stessa da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c.” (Sez. U, 1545/2017).

4.4. In realtà, l’arresto del 2017 – che ha affrontato il tema della qualificazione del rapporto tra amministratore e società di capitali sotto lo specifico angolo visuale della sua sussumibilità nei rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c., n. 3), ai fini della perimetrazione della pignorabilità del compenso in relazione all’art. 545 c.p.c., comma 4, ha sconfessato solo alcuni degli enunciati del precedente del 1994 (segnatamente quelli afferenti la qualificazione del rapporto come parasubordinato e la sua riconducibilità all’art. 409 c.p.c., n. 3), aderendo invece (dichiaratamente) alla premessa per cui “l’esistenza di un rapporto organico, in virtù del quale l’amministratore impersona la società all’esterno, non esclude la configurabilità, nei rapporti interni, di un vincolo di natura obbligatoria tra l’amministratore stesso e l’ente da lui gestito, né la conseguente distinzione, in quest’ambito, di due centri d’interesse contrapposti facenti rispettivamente capo alle parti di tale ultimo rapporto”, enunciato sul quale ha “senz’altro concordato (seppure con i limiti dei quali si dirà in seguito), nella considerazione che l’immedesimazione organica può aver rilievo nei rapporti con i terzi, ma nei rapporti interni effettivamente sussiste una relazione obbligatoria tra soggetti affatto distinti tra loro”.

4.5. In particolare, pur ricomprendendo tra i “rapporti societari” ex D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 3 quello intercorrente tra società ed amministratori – “data l’essenzialità del rapporto di rappresentanza in capo a questi ultimi come rapporto che, essendo funzionale, secondo la figura della c.d. immedesimazione organica, alla vita della società, consente alla stessa di agire”, in modo “non assimilabile, in quest’ordine di idee, né ad un contratto d’opera (in questo senso, cfr. già Cass. 22046/2014), né tanto meno ad un rapporto di tipo subordinato o parasubordinato (Cass. 14369/2015)” – le Sezioni Unite del 2017 hanno ritenuto “indispensabile precisare che tutto quanto finora affermato concerne la figura dell’amministratore societario nelle sue funzioni tipiche di gestione e rappresentanza dell’ente, ossia come soggetto che, immedesimandosi nella società, le consente di agire e raggiungere i propri fini imprenditoriali. Non è escluso, però, che s’instauri, tra la società e la persona fisica che la rappresenta e la gestisce, un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assuma, secondo l’accertamento esclusivo del giudice del merito, le caratteristiche di un rapporto subordinato, parasubordinato o d’opera”.

4.6. Detto orientamento è stato ripreso, in alcune sue sfaccettature, da successive pronunce di questa Corte, nelle quali la questione ha invero continuato ad essere dipanata per lo più in chiave processualistica – ai fini del riparto di competenza tra giudice del lavoro e sezione specializzata in materia di impresa – o in ottica lavoristica, con affermazione, tra l’altro, dei seguenti principi: 1) “il rapporto intercorrente tra la società di capitali ed il suo amministratore è di immedesimazione organica e ad esso non si applicano né l’art. 36 Cost. né l’art. 409 c.p.c., comma 1, n. 3); ne consegue che è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni” (Cass. 285/2019); 2) “il giudice del lavoro è competente funzionalmente a decidere in merito alla domanda di riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato, parasubordinato o d’opera, presentata dall’amministratore unico di una società, che abbia ad oggetto l’accertamento e l’esecuzione di un rapporto di lavoro che si sostanzia in attività estranee alle funzioni inerenti il rapporto organico” (Cass. 12308/2019); 3) “l’amministratore unico e il consigliere di amministrazione di una società per azioni sono legati alla stessa da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso fra quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c., con la conseguenza che, in questa ipotesi, la cognizione della vertenza relativa all’azione di responsabilità esercitata contro di essi spetta alla sezione specializzata in materia di impresa di cui al D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 3. Peraltro, ciò non esclude che, tra la detta società e la persona fisica che la rappresenta e gestisce, possa instaurarsi un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assuma le caratteristiche di quello subordinato, parasubordinato o d’opera, con l’effetto che, in tali situazioni, la competenza a conoscere della medesima azione va riconosciuta al giudice del lavoro” (Cass. 345/2020). Non si registra, invece, una particolare elaborazione della giurisprudenza di legittimità (diversamente da quella di merito) sullo specifico tema – qui in disamina – dei rimedi azionabili giudizialmente, in via di azione o eccezione, nelle pur possibili controversie tra società a responsabilità limitata e amministratori in punto di compenso spettante a questi ultimi, in correlazione ai doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società, la cui eventuale inosservanza li rende solidalmente responsabili verso la società dei danni ad essa derivanti (art. 2476 c.c.).

4.7. Una particolare menziona merita, ai fini del decidere, l’orientamento espresso dalla prima sezione di questa Corte, la quale, muovendo dalla negazione della natura subordinata o para-subordinata del rapporto tra società e amministratori – in forza di quello stesso principio di immedesimazione organica che avrebbe avuto di lì a poco l’avallo delle sezioni unite – ha affermato: 1) che “va attribuita alla cognizione della sezione specializzata in materia di impresa la controversia introdotta da un amministratore nei confronti della società e riguardante le somme da quest’ultima dovute in relazione all’attività esercitata, poiché la formulazione del D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 3, comma 2, lett. a), facendo riferimento alle cause ed ai procedimenti “relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario”, si presta a ricomprendere, quale specie di questi, tutte le liti che vedano coinvolti la società ed i suoi amministratori, senza poter distinguere fra quelle che riguardino l’agire degli amministratori nell’espletamento del rapporto organico ed i diritti che, sulla base dell’eventuale contratto stipulato con la società, siano stati da quest’ultima riconosciuti a titolo di compenso” (Cass. 2759/2016, 13956/2016); 2) che “le controversie tra amministratori e società, anche se specificamente attinenti al profilo “interno” dell’attività gestoria ed ai diritti che ne derivano agli amministratori (quale, nella specie, quello al compenso), sono compromettibili in arbitri, ove tale possibilità sia prevista dagli statuti societari” (Cass. 2759/2016).

4.8. Si tratta di un approdo importante poiché, ferma restando la riconduzione dei rapporti tra società e amministratori – caratterizzati, nella dimensione esterna, dal fenomeno intrasoggettivo della immedesimazione organica – al genus dei “rapporti societari” (e perciò attribuiti alla competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa), dischiude icasticamente lo scenario – che nella dimensione interna appare indubitabilmente intersoggettivo – delle possibili controversie sui rapporti patrimoniali tra la società e la persona fisica investita delle funzioni dell’organo amministrativo cui è preposta, avuto riguardo non solo all’entità e disponibilità del diritto al compenso, ma anche ad ulteriori aspetti (si pensi, e.g., all’indennizzo per anticipata cessazione del rapporto, ex art. 2383 c.c.).

4.9. Viene così in rilievo una dicotomia tra i poteri e le funzioni dell’amministratore, che discendono direttamente dalla legge e dal contratto sociale (da un lato) e gli eventuali diritti connessi allo svolgimento dell’attività gestoria, con le correlate responsabilità (dall’altro). Dicotomia che, a ben vedere, rappresenta un ulteriore sviluppo logico della possibilità, ribadita dalle Sezioni Unite del 2017, che nei rapporti interni tra società e amministratori si ingeneri “una relazione obbligatoria tra soggetti affatto distinti tra loro”, capace in ultima analisi di integrare quella dualità di posizioni – tipica dei contratti sinallagmatici – che risulta invero testimoniata in modo cristallino da numerose norme dello stesso titolo V del libro V del codice civile, nelle quali le posizioni soggettive dell’amministratore e della società risultano chiaramente contrapposte (si pensi, a titolo esemplificativo, all’art. 2475-ter in tema di conflitto di interessi, all’art. 2476 in tema di responsabilità degli amministratori verso la società, agli artt. 2485 e 2486 in tema di responsabilità degli amministratori per i danni subiti dalla società al verificarsi di una causa di scioglimento).

5. Tra i suddetti diritti viene qui in emersione, in particolare, il diritto al compenso spettante agli amministratori per la gestione dell’impresa, la quale nelle s.r.l. è affidata – salvo diversa disposizione dell’atto costituivo – a uno o più soci, e deve essere svolta “nel rispetto della disposizione di cui all’art. 2086, comma 2”, attraverso il compimento delle “operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale” (art. 2475 c.c., comma 1, come novellato dal D.Lgs. n. 14 del 2019, art. 377 – CCII- a far tempo dal 16 marzo 2019).

5.1. Al riguardo si rammenta che il legislatore della riforma societaria del 2003 ha soppresso il rinvio all’art. 2389 c.c. contenuto nell’originario art. 2487 c.c., comma 2, senza introdurre in altro luogo (né nell’art. 2475 c.c., sull’amministrazione della società, né nell’art. 2479 c.c., sulla competenza dei soci alla nomina degli amministratori), una disciplina specifica sul compenso degli amministratori.

5.2. Ferma restando la preminenza di eventuali disposizioni dettate sul punto nell’atto costitutivo o nello statuto, il conseguente dubbio che detta abrogazione avesse fatto venir meno la presunzione di onerosità della funzione di amministratore di s.r.l. (tipica invece della s.p.a.) è stato superato sia dalla dottrina, sia dalla giurisprudenza di merito, che da quella di legittimità: la prima con richiamo alle norme del codice civile in tema di mandato (anche per il rinvio contenuto nell’art. 2260 c.c. sulle società di persone) o di società per azioni (nonostante l’abrogazione del pregresso rinvio all’art. 2389 c.c.); la seconda anche con riferimento alla fonte normativa di cui agli artt. 2230 e 2233 (sulla disciplina del compenso nel contratto di prestazione d’opera intellettuale); la terza esclusivamente in direzione della persistente applicabilità della disciplina dettata per le società per azioni dagli artt. 2364 (per cui l’assemblea ordinaria determina il compenso se non stabilito dallo statuto) e 2389 (per cui i compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti all’atto della nomina o dall’assemblea) del c.c. (Cass. 28911/2018).

5.3. In tal senso questa Corte ha affermato che il diritto alla percezione del compenso origina direttamente dall’accettazione della carica di amministratore, quale “diritto soggettivo perfetto” ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli (Cass. 28911/2018, 15382/2017, 16764/2005, 1647/1997, 1554/1981), sebbene disponibile (Cass. 12592/2010) e perciò derogabile da una clausola dello statuto o da una delibera assembleare che sancisca la gratuità dell’incarico, così come rinunciabile attraverso una remissione del debito, anche tacita, purché idonea a rivelare inequivocabilmente la sottesa volontà abdicativa (Cass. 3657/2020, 28911/2018, 16530/2018, 15382/2017, 4261/2009, 16125/2006).

5.4. Inoltre, si è detto, il diritto al compenso può ben essere fatto valere in giudizio dall’amministratore, non solo in difetto di una specifica delibera assembleare che disponga la liquidazione del compenso, ma anche a fronte di una delibera che vi provveda in misura non adeguata, potendo in tal caso ricorrersi alla determinazione, anche equitativa, del giudice (Cass. 28911/2018, 8897/2014, 1676/2005), purché venga allegata e provata la qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte (Cass. 28911/2018, 23004/2014) e senza che l’esercizio di tale diritto sia subordinato a una richiesta da rivolgere alla società amministrata durante lo svolgimento dell’incarico (Cass. 24139/2018).

5.5. Quest’ultima pronuncia merita una particolare segnalazione, poiché con essa la prima sezione di questa Corte, nell’affermare, in tema di s.r.l., che “l’amministratore di una società, con l’accettazione della carica, acquisisce il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli”, ha espressamente precisato “che, secondo i principi del sistema vigente, quello di amministratore di società è contratto che la legge presume oneroso (cfr., la norma dell’art. 1709 c.c. dettata con riferimento allo schema generale dell’agire gestorio e senz’altro applicabile anche alla materia societaria, come pure posta a presupposto delle previsioni dell’art. 2389 c.c., specificamente scritte per il tipo società per azioni)” (v. Cass. 24139/2018 cit., in motivazione); in tal guisa si è evocata, legittimandola, una visione di tipo contrattualistico, che il collegio condivide, riferita al tema del diritto al compenso dell’amministratore di società.

5.6. Può quindi dirsi che quel diritto al compenso origina autonomamente nell’ambito del rapporto di immedesimazione organica – proprio del contratto associativo (in base al quale gli atti compiuti dall’amministratore vengono imputati direttamente alla società di capitali per la quale egli agisce, nei confronti dei terzi, in forza della rappresentanza generale sancita dall’art. 2475-bis c.c.) dando vita ad un diverso rapporto, non formalmente contrattuale ma di tipo contrattuale, in seno al quale è ravvisabile un nesso sinallagmatico di corrispettività con gli obblighi che l’amministratore medesimo deve osservare in base alla legge e all’atto costitutivo, i quali, se violati, ne generano la responsabilità (anche) verso la società, ai sensi degli artt. 2476,2485 e 2486 c.c..

6. Ebbene, che quella appena menzionata sia una responsabilità di tipo contrattuale costituisce un approdo assodato in dottrina e giurisprudenza, con tutte le conseguenze che ne discendono, specie in tema di distribuzione dell’onere probatorio.

6.1. Anche di recente questa Corte ha ribadito la natura contrattuale della responsabilità dell’amministratore di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata, con la conseguenza che quest’ultima – o il curatore, nel caso in cui l’azione sia proposta ex art. 146 L. Fall. – può limitarsi “ad allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri”, dovendo solo “provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestati, l’osservanza dei doveri” (Cass. 12567/2021), nonché “l’adempimento degli obblighi loro imposti” (Cass. 2975/2020; conf. Cass. 15470/2017, 22911/2010).

6.2. In applicazione di tale principio si è ad esempio statuito che, a fronte di disponibilità patrimoniali pacificamente fuoriuscite dall’attivo della società, ovvero con riguardo all’improprio utilizzo di giacenza di magazzino, la società che agisca per il risarcimento del danno nei confronti dell’amministratore – danno che comprende sia le perdite subite (danno emergente) che il mancato guadagno (lucro cessante) può limitarsi ad allegare l’inadempimento, consistente nella distrazione delle suddette risorse, mentre compete all’amministratore la prova del suo adempimento, consistente nella destinazione delle attività patrimoniali all’estinzione di debiti sociali, ovvero, rispettivamente, nella puntuale utilizzazione delle merci nell’esercizio dell’attività di impresa (v. Cass. 17441/2016, 16952/2016).

6.3. Sul punto, il nesso con l’ammanco di cassa per Euro 24.800,75 addebitato alla C. – accertato dallo stesso Tribunale di Ascoli Piceno con sentenza n. 745/2009, confermata dalla Corte d’appello di Ancona con sentenza n. 353/2016 – risulta evidente.

6.4. La natura pacificamente contrattuale della responsabilità degli amministratori (così come dei sindaci) verso la società comporta, tra l’altro, l’indubbia applicazione della regola posta dall’art. 1218 c.c. in tema di onere della prova della non imputabilità del fatto dannoso al fine di escludere la responsabilità per i danni cagionati (Cass. 25056/2020), il cui regime di favor creditoris è notoriamente ispirato al principio di cd. persistenza del diritto (derivante dall’art. 2697 c.c., comma 2, che include l’adempimento tra le cause estintive dell’obbligazione) e di cd. vicinanza della prova.

6.5. Specularmente, la medesima natura contrattuale è stata attribuita alla responsabilità della società per azioni, ex art. 2383 c.c., in caso di revoca dell’amministratore, con recesso dal rapporto di amministrazione senza giusta causa, proprio avuto riguardo al “lucro cessante per i compensi residui non percepiti” (Cass. 2037/2018). Ciò rappresenta un’ulteriore conferma del nesso sinallagmatico rilevabile tra l’adempimento dei doveri gravanti sull’amministratore e la maturazione del diritto al compenso.

7. Dal quadro normativo e giurisprudenziale sopra delineato emerge dunque l’esistenza – in seno al rapporto tipicamente associativo che origina dal contratto di società ex art. 2247 c.c. – di un rapporto di tipo contrattuale a prestazioni corrispettive, caratterizzato dal sinallagma tra l’obbligo dell’amministratore (inteso quale persona fisica investita delle funzioni dell’organo amministrativo cui è preposto) di rispettare i doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società – con conseguente diritto della società di agire per il risarcimento dei danni in caso di loro violazione – ed il suo diritto (sia pure disponibile e rinunciabile) a conseguire dalla società amministrata il compenso per l’attività svolta, parimenti azionabile in via giudiziale sia in punto di an che di quantum.

7.1. Ciò non significa ricondurre quel “rapporto societario” ravvisato dalla giurisprudenza di questa Corte nella relazione organica tra amministratore e società (come tale non qualificabile come rapporto di lavoro subordinato o para-subordinato, o di mandato o di prestazione d’opera intellettuale ex art. 2230 c.c.) ad un contratto atipico, che pure sarebbe astrattamente configurabile – in ossequio al principio di autonomia negoziale ex art. 1322 c.c. – quantomeno per i profili non coperti dalla disciplina del titolo V del libro V del codice civile (in dottrina si segnalano i cd. directorship o management agreements frequenti nella prassi negoziale di origine anglosassone, ma anche possibili patti di non concorrenza, destinati ad operare dopo la cessazione dell’incarico gestorio).

7.2. E’ infatti sufficiente leggere quel segmento di corrispettività, che si genera nel più ampio ambito del rapporto associativo, alla luce dell’autorevole insegnamento delle sezioni unite di questa Corte, per cui “la responsabilità nella quale incorre “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta” (art. 1218 c.c.) può dirsi contrattuale non soltanto nel caso in cui l’obbligo di prestazione derivi propriamente da un contratto, nell’accezione che ne dà il successivo art. 1321 c.c., ma anche in ogni altra ipotesi in cui essa dipenda dall’inesatto adempimento di un’obbligazione preesistente, quale che ne sia la fonte”, potendo “discendere anche dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni (non già di contratto, bensì) di semplice “contatto sociale”, ogni qual volta l’ordinamento imponga ad un soggetto di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento”; con la precisazione che anche la categoria delle “obbligazioni ex lege” (spesso ricondotta agli “altri atti o fatti idonei” a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico, cui allude l’art. 1173 c.c.) è soggetta a un regime che non si discosta da quello delle obbligazioni contrattuali in senso stretto, mentre le obbligazioni integranti la cd. responsabilità da fatto lecito (come la gestione di affari altrui e l’arricchimento senza causa) non presuppongono l’inesatto adempimento di un obbligo precedente (di fonte legale o contrattuale che sia), né dipendono da comportamenti illeciti dannosi (Cass. Sez. U, 14712/2017; conf. Cass. Sez. U, 12477/2018; cfr. ex multis Cass. 25644/2017, in termini di “contatto qualificato” e Cass. 4153/2019, sulle prestazioni accessorie a obblighi legali).

7.3. Una volta riscontrata, nei termini sopra esposti, una relazione di tipo contrattuale e di natura corrispettiva (sia pure originata all’interno di un rapporto di natura associativa) tra il diritto al compenso dell’amministratore di società e l’obbligo da egli assunto di rispettare i doveri posti dalla legge e dal contratto sociale (statuto e atto costitutivo), non può non discenderne l’applicazione delle regole dettate dal codice civile in punto di responsabilità del debitore “che non esegue esattamente la prestazione dovuta” (art. 1218 c.c.) e di possibilità per il debitore di sollevare l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), la quale include anche quella di inesatto adempimento (Cass. 9439/2008), in corrispondenza delle due figure della exceptio inadimpleti o non rite adimpleti contractus.

8. Orbene, secondo l’indirizzo consolidatosi a partire da Cass., Sez. U, 13533/2001, in tema di eccezione di inadempimento, il creditore che agisca per l’esecuzione del contratto, la sua risoluzione o il risarcimento dei danni subiti, ha solo l’onere di provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento del convenuto, cui spetta invece l’onere di provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ovvero il mancato adempimento per causa a sé non imputabile. Tuttavia, qualora il convenuto frapponga l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., viene riversato sull’attore l’onere di neutralizzare l’eccezione, provando il proprio adempimento (Cass. 3232/1998); in tal caso risultano quindi invertiti i ruoli delle parti, poiché il convenuto eccipiente può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento, mentre è il creditore-attore a dover dimostrare il proprio adempimento, ovvero il difetto di influenza del proprio operato sul nesso eziologico o sulla produzione del danno (ex plurimis Cass. 3373/2010, 23759/2016, 18858/2018, 3587/2021, 12719/2021).

8.1. In effetti, a fronte della exceptio inadimpleti contractus, il criterio di distribuzione dell’onere della prova rimane oggettivamente identico ma soggettivamente invertito nei ruoli, poiché, come detto, chi solleva l’eccezione può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento, essendo l’originario attore a dover dimostrare, a sua volta, di avere adempiuto (Cass. 15328/2018, 826/2015). Ciò perché entra in gioco ancora una volta il principio di diritto vivente (ispirato all’art. 24 Cost.) della cd. riferibilità o vicinanza della prova – nel caso di specie utile ad ovviare alla difficoltà di fornire la prova di un fatto negativo, come l’inesattezza della prestazione – in base al quale la distribuzione degli oneri probatori supera l’orizzonte discretivo tra fatti costitutivi ed estintivi o impeditivi del diritto, per tener conto della effettiva disponibilità dei mezzi di prova – intesa come concreta possibilità di dimostrare il fondamento della propria pretesa – affinché l’esercizio dei diritti non risulti impossibile o eccessivamente difficoltoso.

8.2. Sempre secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c., al pari di ogni altra eccezione, non richiede l’adozione di forme speciali o formule sacramentali, né l’espressa invocazione della norma in questione, essendo sufficiente che la volontà della parte di sollevarla (onde paralizzare l’avversa domanda di adempimento) sia desumibile, in modo non equivoco, dall’insieme delle sue difese e, più in generale, dalla sua condotta processuale, secondo un’interpretazione del giudice di merito che non è censurabile in sede di legittimità, purché risulti ancorata a correnti canoni di ermeneutica processuale (Cass. 20870/2009; 11728/2002).

8.3. In particolare, in tema di procedimento monitorio si è affermato che integra eccezione d’inadempimento ex art. 1460 c.c. l’opposizione avverso un decreto ingiuntivo emesso per il pagamento di una somma a titolo di corrispettivo contrattuale con cui la parte ingiunta si limiti a chiedere la revoca del decreto e, in via riconvenzionale, la pronuncia della risoluzione del contratto per l’altrui inadempimento, con la conseguenza che grava, in quel caso, sull’opposto l’onere di provare il proprio esatto adempimento (Cass. 22666/2009).

8.4. Inoltre si è detto che, sebbene la mancanza di gravità dell’inadempimento renda l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. contraria a buona fede (Cass. 12791/2021, 22626/2016, 8880/2000), a rigore ciò non deve indurre a ritenere che la gravità idonea a compromettere il rapporto sinallagmatico fra le contrapposte prestazioni, ex art. 1460 c.c., debba essere tale da giustificare la risoluzione del contratto (Cass., 5232/1985), poiché la gravità dell’inadempimento è un presupposto specificamente previsto dalla legge per la risoluzione e trova ragione nella radicalità e definitività di tale rimedio, non ricorrente nell’eccezione di inadempimento, che non estingue il contratto (Cass. 1690/2006).

9. Nel caso in esame, può innanzitutto ritenersi superata l’obbiezione per cui l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. non sarebbe applicabile al contratto di società, in quanto contratto associativo (nel quale il sinallagma è sostituito dalla comunione di scopo, ossia la collaborazione tra i soci per conseguire un risultato comune) e non a prestazioni corrispettive, come formalmente richiede la norma; come visto, infatti, il diritto al compenso dell’amministratore di società – per vero nemmeno contemplato dalle norme codicistiche in tema di s.r.l. – va ricondotto non tanto alla causa concreta del contratto di società (al cui interno pur si inscrive), quanto al rapporto sinallagmatico che si instaura tra amministratore e società, che prende origine dal rapporto di immedesimazione organica, ma se ne distacca concettualmente nel momento in cui il primo, con l’accettazione della nomina, assume verso la seconda l’obbligo di adempiere ai propri doveri, secondo il paradigma legale o pattizio del rapporto sociale cui corrisponde la responsabilità contrattuale verso la società per il caso di inadempimento o non corretto adempimento delle correlate prestazioni – e matura al tempo stesso nei confronti della seconda il diritto al compenso, secondo un nesso di corrispettività rispetto all’attività gestoria svolta.

9.1. In effetti, la situazione evoca quella partitamente declinata, sempre nel campo dei rapporti associativi, per le società cooperative, in relazione alle quali si è affermato che “Il principio secondo il quale i rimedi generali dettati in tema di inadempimento contrattuale (risoluzione del contratto, “exceptio inadimpleti contractus” ecc.) non sono utilizzabili nel diverso ambito dei contratti societari (per essere questi ultimi caratterizzati non già dalla corrispettività delle prestazioni dei soci, bensì dalla comunione di scopo, sicché i rimedi invocabili sono quelli del recesso e dell’esclusione del socio) non si applica alle società cooperative, nelle quali il rapporto attinente al conseguimento dei servizi o dei beni prodotti dalla società ed aventi ad oggetto prestazioni di collaborazione o di scambio tra socio e società si palesa ulteriore rispetto a quello relativo alla partecipazione all’organizzazione della vita sociale ed è caratterizzato non dalla comunione di scopo, ma dalla contrapposizione tra quelle prestazioni e la retribuzione o il prezzo corrispettivo. In particolare, nell’ambito delle cooperative edilizie, un tale rapporto economico – giuridico, distinto da quello sociale, instaurandosi tra società e socio prenotatario a seguito dell’attribuzione dell’unità immobiliare costruita, caratterizza l’attribuzione come atto traslativo della proprietà a titolo oneroso, per cui riprendono vigore i rimedi generali volti a mantenere o ristabilire l’equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni. il rapporto attinente al conseguimento dei servizi o dei beni prodotti dalla società ed aventi ad oggetto prestazioni di collaborazione o di scambio tra socio e società si palesa ulteriore rispetto a quello relativo alla partecipazione all’organizzazione della vita sociale ed è caratterizzato non dalla comunione di scopo, ma dalla contrapposizione tra quelle prestazioni e la retribuzione o il prezzo corrispettivo” (Cass. 26222/2014, 694/2001).

9.2. Anche la pretesa inconciliabilità dell’art. 1460 c.c. – in quanto rimedio di carattere sospensivo e conservativo del contratto – con la proposizione dell’eccezione di inadempimento in un momento in cui il rapporto è già concluso, risulta superabile alla luce delle esposte considerazioni. Invero, se – come sostenuto da parte della giurisprudenza di merito anche dopo l’arresto di Cass. Sez. U, 1595/2017) – la remunerazione dell’amministratore si pone in rapporto di dipendenza diretta con il corretto espletamento delle funzioni determinate dalla legge e dal contratto sociale, il pagamento del compenso non può ontologicamente restare indifferente alle possibili anomalie nell’adempimento dei relativi obblighi di fonte eterodeterminata, dovendosi perciò escludere ogni preteso automatismo nel suo riconoscimento. In tal senso risulta giustificata l’estensione, al rapporto remuneratorio intercorrente tra amministratore e società, del rimedio che l’art. 1460 c.c. ha istituito per rafforzare l’obbligo di adempimento delle obbligazioni nei contesti di corrispettività, anche se solo di natura lato sensu contrattuale.

9.3. Pertanto, il giudice è tenuto a procedere ad una valutazione comparativa dei comportamenti delle parti contrapposte tenendo conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche (e soprattutto) dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute, e della loro incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto (Cass. 12978/2002).

9.4. In quest’ottica si comprende perché solo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica – nei quali l’esecuzione avviene mediante coppie di prestazioni in corrispondenza di tempo – la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che il sinallagma, alla cui tutela è preposto il rimedio ex art. 1460 c.c., va considerato separatamente per ciascuna coppia di prestazioni, con la conseguenza che l’eccezione d’inadempimento può essere sollevata unicamente rispetto alla prestazione corrispondente a quella richiesta all’eccipiente, restando escluse, ai sensi dell’art. 1458 c.c., comma 1, le prestazioni che siano state già (correttamente) eseguite (Cass. 7550/2012).

9.5. Deve infatti ritenersi che, quand’anche l’amministratore sia (come nel caso di specie) già cessato dall’incarico, persista l’interesse della società a rifiutare il pagamento del compenso, facendo appunto valere l’eccezione ex art. 1460 c.c. con riguardo alle prestazioni non correttamente eseguite, sia pure limitatamente al corrispettivo maturato nello specifico periodo di riferimento per il quale sussistano i lamentati inadempimenti. Diversamente, la società resterebbe ingiustamente soggetta al criterio del “so/ve et repete”.

9.6. Il quadro fattuale della vicenda – e, segnatamente, il più volte menzionato ammanco di cassa addebitato all’amministratrice – induce all’ulteriore precisazione che, in caso di responsabilità contrattuale (come quella ex art. 2476 c.c.), ben diverse sono – quanto a presupposti, funzione e distribuzione dell’onere probatorio le possibili eccezioni di compensazione e di inadempimento: la prima rilevando quale fatto estintivo dell’obbligazione, in presenza di due soggetti obbligati l’uno verso l’altro in forza di reciproci crediti e debiti (con conseguente onere della parte che la invoca di provare l’esistenza del proprio controcredito); la seconda integrando, invece, un fatto impeditivo dell’altrui pretesa di pagamento, avanzata nell’ambito di un contratto a prestazioni corrispettive nel concomitante inadempimento del creditore, nel qual caso il debitore può limitarsi ad allegare detto inadempimento, mentre grava sul creditore stesso l’onere di provare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione (v. Cass. Sez. U, 13533/2001; Cass. 23759/2016).

10. Un ultimo e decisivo aspetto viene in rilievo sotto il profilo processuale.

10.1. L’affermazione del giudice a quo per cui la società non potrebbe sollevare le eccezioni di inadempimento ex artt. 1218 e 1460 c.c. senza aver esercitato l’azione di responsabilità ex art. 2476 c.c., è destituito di fondamento; invero, ciò che può farsi valere in via di azione non può non farsi valere anche in via di eccezione – secondo il brocardo “plus semper in se continet quod est minus” – sicché appare pienamente legittima un’eccezione riconvenzionale che faccia valere la dedotta responsabilità dell’amministratore nei limiti della pretesa creditoria ex adverso azionata.

10.2. Al riguardo questa Corte ha già avuto occasione di affermare che “la parte evocata in giudizio per il pagamento di una prestazione rientrante in un contratto sinallagmatico può, invero, non solo formulare le domande ad essa consentite dall’ordinamento in relazione al particolare negozio stipulato, ma anche limitarsi ad eccepire – nel legittimo esercizio del potere di autotutela che l’art. 1460 c.c. espressamente attribuisce al fine di paralizzare la pretesa avversaria chiedendone il rigetto – l’inadempimento o l’imperfetto adempimento dell’obbligazione assunta da controparte, in qualunque delle configurazioni che questo può assumere, in esse compreso, quindi, il fatto che il bene consegnato in esecuzione del contratto risulti affetto da vizi o mancante di qualità essenziali” (Cass. 23345/2009).

10.3. Ancor più pregnante, ai fini del decidere, risulta l’orientamento di questa Corte che, in tema di opposizione allo stato passivo contro l’esclusione di un credito relativo a compensi derivanti dalla carica di componente del consiglio di amministrazione (nonché del collegio sindacale) di una società poi fallita, dà rilevanza, ai fini del rigetto della domanda, alla prova fornita dalla curatela fallimentare in relazione all’eccezione di inadempimento dei doveri inerenti alla carica, formulata ai sensi dell’art. 1460 c.c. (Cass. 25584/2018; cfr. Cass. 13207/2021 per il compenso professionale del sindaco di società di capitali).

11. Va conclusivamente affermato il seguente principio di diritto:

“In tema di compenso spettante all’amministratore di società a responsabilità limitata, la società può far valere in via di eccezione riconvenzionale, ai sensi degli artt. 1218 e 1460 c.c., l’inadempimento o il non corretto adempimento degli obblighi assunti dall’amministratore in osservanza dei doveri imposti dalla legge o dall’atto costituivo, la cui violazione integra la responsabilità di tipo contrattuale ex art. 2476 c.c., comma 1, non venendo in rilievo, a tali fini, il rapporto societario di immedesimazione organica esistente, verso l’esterno, tra amministratore e società, bensì il nesso sinallagmatico, tipico del rapporto contrattuale, intercorrente tra il corretto svolgimento dell’attività di gestione dell’impresa e la maturazione del diritto al compenso in capo all’amministratore medesimo.”

12. I restanti motivi terzo, quarto e quinto sono affetti da profili di inammissibilità e infondatezza.

12.1. In particolare il terzo, oltre a trascurare che la questione in rilievo non è di competenza, bensì di mero rito, risulta generico, per difetto di autosufficienza; vizio che investe ancor più il quarto motivo, il quale, nella sua estrema stringatezza, non riporta nemmeno i contenuti del motivo di appello di cui si lamenta il mancato esame, verosimilmente a causa della mancata comprensione della relativa ratio decidendi della sentenza impugnata; dal medesimo difetto è infine afflitto il quinto motivo, che difetta altresì di conducenza con riguardo all’atto processuale da prendere in considerazione per l’individuazione delle pertinenti conclusioni formulate dalla parte nel giudizio di merito.

13. Per concludere, in accoglimento dei primi due motivi di ricorso, con assorbimento del sesto e rigetto dei motivi terzo, quarto e quinto, la sentenza impugnata va cassata con rinvio, affinché la Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, proceda alla valutazione, iuxta alligata et probata, dell’eccezione di inadempimento sollevata dalla società odierna ricorrente, secondo il principio di diritto sopra enunciato, nonché alla statuizione sulle spese processuali del presente giudizio.

PQM

Accoglie i primi due motivi di ricorso, rigetta il terzo, il quarto e il quinto, dichiara assorbito il sesto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Ancona, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2021

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