Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29249 del 28/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 28/12/2011, (ud. 01/12/2011, dep. 28/12/2011), n.29249

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, rappresentata e difesa

dall’Avvocato PETRACCA NICOLA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.P.F., DI.RU.AN.AS., D.

L., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FLAMINIA N.

195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta

delega in atti;

– controricorrenti –

e contro

R.A., DI.RO.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1223/2006 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 28/12/2006 R.G.N. 340/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato GENTILE GIOVANNI G. per delega PETRACCA NICOLA;

udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ROMANO Giulio, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso del

D.P., accoglimento per tutti gli altri.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La s.p.a. Poste Italiane ha proposto ricorso con sei motivi avverso la sentenza della Corte di Appello di L’Aquila depositata il 28-12- 2006 che ha confermato le sentenze del Giudice del lavoro del Tribunale di Teramo del 10-11-2004, con le quali è stata dichiarata la nullità del termine apposto ai contratti di lavoro stipulati (per il periodo 1-7-2000/30-9-2000 e “motivati con la necessità di provvedere alla sostituzione di personale assente per ferie”) con Di.Ru.An.As., D.P.F., A. R.. D.D.R. e Di.Lo. con le pronunce consequenziali.

La Di.Ru., la Di.Lo. e la D.P.F. hanno resistito con controricorso illustrato con memoria.

Il D.R. e la R. sono rimasti intimati.

Anche la società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c., nonchè copia di verbale di conciliazione in sede sindacale concluso in data 12-2-2009 tra la società e la D.P.F..

Infine il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.

Ciò posto in primo luogo il ricorso va dichiarato inammissibile nei confronti della D.P.F..

Dal verbale di conciliazione prodotto in copia risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo concernente la controversia de qua, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge e dichiarando che – in caso di fasi giudiziali ancora aperte – le stesse saranno definite in coerenza con il presente verbale.

Osserva il Collegio che il suddetto verbale di conciliazione si palesa idoneo a dimostrare la cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo; alla cessazione della materia del contendere consegue pertanto la declaratoria di inammissibilità del ricorso in quanto l’interesse ad agire, e quindi anche ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione, in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutato l’interesse ad agire (Cass. S.U. 29 novembre 2006 n. 25278, Cass. 13-7-2009 n. 16341).

In considerazione, poi, dell’accordo complessivo intervenuto, le spese del presente giudizio di cassazione vanno compensate tra la società e la D.P.F..

Passando quindi all’esame del ricorso nei confronti degli altri intimati. osserva il Collegio che con il primo motivo la ricorrente deduce che, stante la “delega in bianco” contenuta nella L. n. 56 del 1987, art. 23 l’autonomia sindacale non incontra limiti ed ostacoli di sorta nella tipologia di nuovi contratti a termine e la norma contrattuale non deve necessariamente prevedere una specificazione della causale collettiva in una causale individuale per rendere legittima l’assunzione a termine.

Con il secondo motivo la società rileva che in virtù della detta “delega in bianco” la norma contrattuale non deve necessariamente avere una efficacia temporale limitata, e che tale termine neppure è stato fissato dalle parti collettive con gli accordi attuativi dell’accordo 25-9-97. avendo gli stessi natura meramente ricognitiva.

Con il terzo motivo la ricorrente deduce che, contrariamente a quanto ritenuto nell’impugnata sentenza, “le esigenze sostitutive connesse al periodo feriale rispetto alle esigenze derivanti dalla ristrutturazione devono intendersi comunque di ipotesi congiunte e concomitanti tra loro e, peraltro, assolutamente inidonee a generare alcuna incertezza”.

Con il quarto motivo, indicato nella rubrica come di omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo, ma in realtà riguardante la asserita violazione di una regola iuris riconducibile all’art. 2697 cod. civ. e attinente all’argomento della detrazione all’aliunde perceptum dal danno da risarcire in conseguenza dell’accertata nullità del termine e della conversione del contratto a tempo indeterminato, la ricorrente lamenta che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere irrilevante la relativa eccezione e censura la sentenza per non avere tenuto conto che “l’aliunde perceptum… non può che essere genericamente dedotto dall’istante. Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste paga)”.

Con il quinto motivo la società censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto la eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito.

Con il sesto motivo la ricorrente, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto la illegittimità del termine “anche sotto un altro, convergente, profilo”, consistito nella mancata prova da parte della società del rispetto della “percentuale ammissibile di assunzioni a tempo determinato, percentuale prevista e pattuita nel 10% dalla contrattazione collettiva (art. 8 del ccnl)”. All’uopo in particolare la società deduce che ” incombeva al lavoratore ai sensi dell’art. 2697 c.c., a sostegno della sua domanda relativa all’illegittimità del contratto a termine per violazione della quota numerica prevista dal CCNL, provare le ragioni della dedotta illegittimità e che comunque la Corte di merito aveva “il potere dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione”.

Partendo dall’esame di quest’ultimo motivo, rivolto contro una chiara autonoma ratio decidendi dell’impugnata sentenza, riguardante la illegittimità del termine apposto ai contratti de quibus, per la mancata prova del rispetto della clausola di contingentamento, osserva il Collegio che la censura è infondata e va respinta.

Come è stato precisato da questa Corte e va qui ribadito, “nel regime di cui alla L. 28 febbraio 1987, n. 56, la facoltà delle organizzazioni sindacali di individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro è subordinata all’art. 23 dalla determinazione delle percentuali di lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti; pertanto, non è sufficiente l’indicazione del numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresì, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità dell’apposizione del termine nei contratti stipulati in base all’ipotesi individuata ex art. 23 citato, l’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, si da potersi verificare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine. L’onere della prova dell’osservanza di detto rapporto è a carico del datore di lavoro, in base alle regole di cui alla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 3 secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro”.

Il rigetto del sesto motivo (rivolto contro la autonoma ratio decidendi, sopra richiamata, idonea a sostenere la impugnata decisione in merito alla nullità del termine) rende superfluo l’esame dei primi tre motivi (riguardanti ulteriori profili di nullità del termine stesso del pari accolti dalla Corte di merito), non potendo la loro eventuale fondatezza comunque portare alla cassazione della sentenza, che rimarrebbe ferma sulla base della argomentazione riconosciuta esatta, v. Cass. sez, 3^ 24-5-2001 n. 7077, Cass. 21-6-2004 n. 11505, Cass. 6-6-2003 n. 9131, Cass. sez. I 18-5-2005 n. 10420, Cass. sez. 3^ 20-1-2006 nn. 1101, 1106 e 1107).

Parimenti infondato è, poi, il quinto motivo, con il quale la ricorrente censura la impugnata sentenza nella parte in cui ha respinto la eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, sotto i profili della violazione dell’art. 1372 c.c., commi 1 e 2, e del vizio di motivazione.

Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11- 12-2001 n. 15621, nonchè da ultimo Cass. 11-3-2011 n. 5887).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevandosi, inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostante dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1-2-2010 n. 2279).

Orbene nella fattispecie la Corte territoriale, dopo aver rilevato che il trascorrere del tempo di per sè è privo del valore di espressione di volontà, ha affermato che i contratti a termine de quibus “sono stati stipulati dalla società con lavoratori iscritti volontariamente su liste, con iscrizione che implica evidentemente la volontà di rendere prestazioni lavorative, e quindi una volontà antitetica rispetto alla rinuncia a lavorare alle dipendenze della controparte”.

Tale accertamento di fatto, compiuto dalla Corte di merito in aderenza al principio sopra richiamato, risulta altresì congruamente motivato e resiste alla censura della società ricorrente.

Del resto il relativo “ragionamento decisorio” non è suscettibile di “revisione” in questa sede, neppure attraverso il controllo di logicità del fatto consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766).

Infine, il quarto motivo, come sopra sviluppato, conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 366-bis c.p.c.:

“Dica la Corte se, nel caso di aggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minar rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell'”espediente richiesto”.

Se si tiene conto del principio secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato in maniera specifica e deve essere pertinente rispetto alla fattispecie cui si riferisce la censura (cfr., ad es., Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36 e 5 febbraio 2008 n. 2658) è evidente che il quesito come sopra formulato dalla società appare in buona parte estraneo alle argomentazioni sviluppate nel motivo e comunque del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato, per cui deve ritenersi inesistente con conseguente inammissibilità del motivo ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c..(in tal senso v. fra le altre Cass. 10-1-2011 n. 325).

Così risultato inammissibile il quarto motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 (su cui vedi da ultimo Corte Costn. 303 del 2011).

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nei giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 ti. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso, come sopra dichiarato inammissibile nei confronti della D.P.F., va pertanto respinto nei confronti degli altri intimati, con condanna della società, in ragione della soccombenza, al pagamento delle spese in favore della Di.Ru. e della Di.Lo.; nulla per le spese nei confronti del Di.Ro. e della R. che non hanno svolto attività difensiva.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti della D. P. e compensa le spese con la stessa; rigetta il ricorso nei confronti degli altri intimati e condanna la ricorrente a pagare alla Di.Ru. e alla Di.Lo. le spese liquidate in Euro 50,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari oltre spese generali, IVA e CPA; nulla per le spese nei confronti del Di.Ro. e della R..

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2011

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