Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29222 del 06/12/2017


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Cassazione civile, sez. II, 06/12/2017, (ud. 03/10/2017, dep.06/12/2017),  n. 29222

Fatto

FATTI DI CAUSA

Sc.Sa. e Sc.Gi., con atto di citazione notificato in data 15/5/1982, convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Messina, G.F.S., quale titolare dell’omonima impresa di costruzioni, chiedendo la condanna al pagamento della somma di Lire 90.569.932 a titolo di rimborso delle spese sostenute per il completamento di un fabbricato, nonchè alla restituzione della maggior somma pagata di Lire 6.000.000, rispetto al prezzo concordato, oltre al risarcimento dei danni per il ritardo nella consegna del fabbricato, avendo dovuto sostenere dei costi per la locazione di altro immobile, atteso il mancato completamento dei lavori nei tempi pattuiti con l’appaltatore.

Si costituiva in giudizio il convenuto il quale concludeva per il rigetto della domanda ed in via riconvenzionale chiedeva caducarsi la clausola di rinuncia alla revisione dei prezzi, con la condanna degli attori al corrispettivo per i lavori non previsti in contratto ma comunque eseguiti, oltre al maggior corrispettivo in conseguenza della revisione dei prezzi, ed al risarcimento dei danni patiti per effetto del mancato completamento dell’opera per il recesso degli attori.

Disposta CTU, il giudizio era interrotto all’udienza del (OMISSIS) per il decesso del convenuto, e riassunto dagli attori con notifica effettuata collettivamente ed impersonalmente agli eredi del G.F..

In pendenza del termine per la costituzione, decedeva anche G.F. Domenico, uno degli eredi del convenuto, senza che però il processo fosse interrotto.

Quindi il Tribunale con la sentenza n. 365/1996 accoglieva la domanda degli attori, condannando gli eredi di G.F.S. al pagamento della somma di Lire 67.011.908 oltre interessi e rivalutazione.

A seguito di appello proposto da G.F.S. e G., eredi di G.F.D., i quali si dolevano della mancata interruzione del giudizio a seguito del decesso del loro genitore, la Corte d’Appello di Messina con la sentenza n. 258/2000, ravvisata l’erroneità della mancata interruzione del giudizio per la morte prima della scadenza del termine di costituzione di G.F.D., dichiarava la nullità della sentenza impugnata, rimettendo le parti dinanzi al Tribunale per l’integrazione del contraddittorio.

Gli attori riassumevano il giudizio con atto notificato il 17/11/2000, evocando però i soli G.F.S. e G., i quali nel costituirsi eccepivano la nullità della riassunzione, chiedendo rigettarsi le domande nel merito.

Il Tribunale di Messina con la sentenza n. 34/2004 condannava i convenuti, quali eredi di G.F.D., ed in proporzione delle rispettive quote ereditarie, al pagamento in favore degli attori della somma di Euro 32.668,18 oltre interessi legali a far data dal 15/5/1982 al saldo, rigettando le domande riconvenzionali proposte.

I convenuti interponevano appello anche avverso tale sentenza e, nella resistenza degli attori, che spiegavano a loro volta appello incidentale per il riconoscimento di un maggior danno, veniva disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli altri eredi dell’originario convenuto G.F.S..

Si costituivano G.F.G. (cui nelle more del giudizio subentravano a seguito di decesso, C.M.G. e C.M.), G.F.S., G.F.I. e B.C., quale erede della madre G.F.C., che chiedevano dichiararsi l’estinzione del giudizio per l’omessa integrazione del contraddittorio, ovvero, in via subordinata, la nullità dell’intero giudizio.

Deceduto altresì Sc.Gi. e subentrati gli eredi S.G., Sc.Ig., An. e Gr., la Corte d’Appello di Messina con la sentenza n. 153 del 15 marzo 2012 dichiarava la nullità della sentenza impugnata per violazione del contraddittorio rimettendo le parti nuovamente dinanzi al Tribunale di Messina per l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli eredi di G.F.S. e G.F.D., compensando le spese del doppio grado di giudizio.

In tal senso rilevava a seguito della sentenza n. 258/2000 della medesima Corte d’Appello era stata disposta la riassunzione del giudizio dinanzi al Tribunale che doveva quindi coinvolgere tutti gli eredi dell’originaria parte convenuta, e non solo, come invece accaduto, i soli eredi di G.F.D., a sua volta erede di G.F.S..

Ciò era imposto dalla natura litisconsortile processuale del giudizio, non potendosi accedere ala tesi degli Sc. secondo cui gli altri eredi, essendo contumaci in primo grado, a seguito della notifica effettuata collettivamente ed impersonalmente, non dovevano essere destinatari di alcuna notifica in sede di riassunzione.

A tal fine rilevava che proprio a causa del decesso di G.F.D., e del subentro di due nuovi soggetti, sorgeva un interesse in capo agli altri coeredi che giustificava la necessità di notificare l’atto di riassunzione.

La mancata evocazione in giudizio degli altri coeredi del convenuto determinava quindi la nullità anche della sentenza emessa all’esito della riassunzione, non potendo sanare il vizio di difetto di integrità del contraddittorio, l’ordine in tal senso adottato solo in grado di appello.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso G.F.S. e G.F.G. sulla base di quattro motivi.

Sc.Gi., S.G., Sc.Ig., Sc.An., Sc.Gr. hanno resistito con controricorso, proponendo a loro volta ricorso incidentale affidato a quattro motivi.

I ricorrenti nonchè gli altri intimati hanno resistito con controricorso al ricorso indentale.

Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso principale si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nonchè la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.e art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 a seguito del mancato esame della domanda e/o eccezione di estinzione proposta dalle parti.

Si rileva che i ricorrenti nel proporre appello avverso la seconda sentenza del Tribunale avevano eccepito anche l’estinzione per la mancata integrità del contraddittorio, non avendo la controparte citato in primo grado tutti gli eredi dell’originaria parte convenuta.

Al contrario la sentenza impugnata, pur avendo accertato l’omessa integrazione del contraddittorio in primo grado, per essere stato l’atto di riassunzione indirizzato solo nei confronti degli eredi di G.F.D., erede a sua volta del convenuto G.F.S., si è limitata a disporre l’annullamento della sentenza con rinvio nuovamente al Tribunale, omettendo di pronunciarsi sull’eccezione di estinzione.

Il secondo motivo lamenta poi la violazione e falsa applicazione degli artt. 101,102,112,153,171,299,305,307,353 e 354 c.p.c. e art. 111 Cost., in quanto sarebbe stata erroneamente ritenuta la contumacia degli altri coeredi di G.F.S. nel corso del primo giudizio svoltosi dinanzi al Tribunale, trascurando che, a seguito dell’evento interruttivo che aveva colpito G.F. Domenico, successivamente alla notificazione della riassunzione conseguente all’interruzione cagionata dalla morte del convenuto, effettuata collettivamente ed impersonalmente nei confronti degli eredi, il relativo effetto interruttivo doveva reputarsi esteso anche agli altri coeredi, e non solo ai discendenti di G.F.D., trattandosi di un’ipotesi di litisconsorzio necessario.

Una volta quindi esclusa la ricorrenza di una situazione di contumacia, si palesa erronea la mancata dichiarazione di estinzione del giudizio.

Infatti, la Corte d’Appello di Messina con la sentenza n. 258/2000 non si era limitata a dichiarare la nullità della sentenza di primo grado, ma aveva disposto anche l’integrazione del contraddittorio sempre dinanzi al Tribunale, ricomprendendo in tale ordine anche gli altri coeredi del convenuto, dovendosi ritenere erronea l’affermazione della loro condizione di contumaci.

L’omessa esecuzione dell’ordine de quo ha quindi determinato l’estinzione del giudizio, non potendosi a tal fine reputare sufficiente che la riassunzione sia stata indirizzata nei confronti dei soli eredi di G.F.D..

La decisione oggi gravata, nel rimettere nuovamente le parti dinanzi al Tribunale, sempre al fine di integrare il contraddittorio ha di fatto prorogato un termine che già era stato assegnato in violazione della regola della improrogabilità dei termini perentori quale deve ritenersi quello di cui all’art. 102 c.p.c..

Ne deriva quindi che i giudici di appello nella seconda circostanza non potevano limitarsi a dichiarare la nullità della seconda sentenza del Tribunale, con nuovo rinvio al giudice di primo grado, ma avrebbero invece dichiarare l’estinzione dell’intero giudizio.

Il terzo motivo denunzia invece la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 153 c.p.c. laddove la Corte d’Appello con la sentenza gravata ha in fatto disposto una nuova integrazione del contraddittorio, in assenza di una richiesta di proroga proveniente da parte degli interessati.

I tre motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione sono infondati e devono essere disattesi.

1.1 In punto di fatto, preme evidenziare che la tortuosa vicenda processuale che oggi viene all’esame del Collegio è stata connotata da un primo giudizio dinanzi al Tribunale nel quale, a seguito del decesso dell’originario convenuto e della conseguente interruzione del processo, gli attori avevano riassunto il giudizio mediante notifica effettuata collettivamente ed impersonalmente agli eredi. Tuttavia, prima della scadenza del termine per la costituzione da parte degli eredi, era deceduto anche G.F.D., uno dei vari eredi del convenuto (al quale erano succeduti anche i figli G., S., I. e, per la figlia C., la nipote B.C.).

Il giudizio era però egualmente proseguito, pervenendosi ad una decisione di sostanziale accoglimento della domanda attorea. Tale sentenza era però stata impugnata dai soli figli di G.F.D., e cioè gli odierni ricorrenti che avevano appunto dedotto tra i motivi di appello anche la nullità del giudizio per la mancata interruzione a seguito della morte del loro dante causa.

La Corte d’Appello di Messina con la sentenza n. 258/2000, passata in cosa giudicata, in mancanza di impugnazione ad opera delle parti, ha ritenuto che l’omessa interruzione del giudizio fosse un vizio tale da determinare la nullità della sentenza emessa, e che dovesse pertanto disporsi la rimessione della causa dinanzi al Tribunale per l’integrazione del contraddittorio.

A tanto hanno provveduto gli attori, evocando in giudizio però i soli appellanti, ed omettendo quindi di chiamare in causa anche gli altri eredi dell’originario convenuto.

Tale secondo giudizio dinanzi al Tribunale si concludeva con la sentenza n. 34/2004, che nuovamente accoglieva la domanda degli attori, pronuncia che però era impugnata sempre dagli odierni ricorrenti, i quali hanno dedotto la nullità ed irritualità dell’atto di riassunzione e comunque la non integrità del contraddittorio nel giudizio riassunto.

Va poi puntualizzato che nel corso del secondo giudizio di appello è stata disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri eredi di G.F.S., i quali nel costituirsi eccepivano a loro volta l’estinzione del giudizio ovvero la nullità della sentenza per il difetto del litisconsorzio in primo grado.

La sentenza in questa sede gravata ha infine ritenuto che effettivamente al giudizio in Tribunale avrebbero dovuto prendere parte tutti gli eredi del convenuto, e che, attesa la loro mancata partecipazione, occorreva dichiarare la nullità anche della seconda sentenza, disponendo una nuova rimessione per integrazione del contraddittorio dinanzi al giudice di primo grado.

1.2 In limine litis va evidenziato come non sia denunziabile ex art. 112 c.p.c. la pretesa omessa disamina di un’eccezione di carattere processuale, quale quella di estinzione del giudizio, occorrendo a tal fine fare richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. da ultimo Cass. n. 321/2016) a mente della quale il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale non è suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, il quale si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito, ma può configurare un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c. se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte (conf. Cass. n. 22860/2004).

Inoltre in tema di “errores in procedendo”, quale si rivela essere quello denunziato dai ricorrenti, non è consentito alla parte interessata di formulare, in sede di legittimità, la censura di omessa motivazione, spettando alla Corte di cassazione accertare se vi sia stato, o meno, il denunciato vizio di attività, attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità dell’eventuale motivazione del giudice di merito sul punto. Nè il mancato esame, da parte di quel giudice, di una questione puramente processuale può dar luogo ad omissione di pronuncia, configurandosi quest’ultima nella sola ipotesi di mancato esame di domande o eccezioni di merito (cfr. Cass. n. 22952/2015).

Ne consegue che il primo motivo, per la sua stessa formulazione non può trovare accoglimento.

1.3 Quanto invece al secondo motivo che più propriamente denunzia l’erroneità della sentenza impugnata che, lungi dal poter nuovamente rimettere la causa dinanzi al giudice di primo grado, si sarebbe dovuta limitare a dichiarare l’estinzione dell’intero giudizio, le doglianze della parte appaiono prive di fondamento.

Giova in tal senso segnalare come, contrariamente a quanto sembra prospettare parte ricorrente nelle proprie deduzioni, secondo cui la decisione qui gravata avrebbe di fatto replicato il contenuto della prima decisione della Corte distrettuale di annullamento della prima sentenza del Tribunale, in realtà le ragioni delle cause di nullità delle due sentenze, con conseguente rimessione della causa al giudice di primo grado siano differenti.

Nel primo caso, la Corte d’Appello con sentenza passata ormai in cosa giudicata, in quanto non gravata da nessuna delle parti, ha reputato che l’omessa interruzione del processo a seguito della morte di uno degli eredi dell’originaria parte convenuta prima della scadenza del termine per la sua costituzione in sede di riassunzione, avesse provocato, in assenza di spontanea costituzione dei successori, la radicale nullità del procedimento di primo grado e della conclusiva sentenza, ravvisando anche in tal caso la ricorrenza di un’ipotesi di rimessione della causa al giudice di primo grado.

La seconda declaratoria di nullità è stata invece motivata dai giudici di appello alla luce del fatto che la riassunzione facente seguito al primo annullamento, era stata compiuta nei confronti dei soli eredi di G.F.D., e non anche nei confronti degli altri eredi del convenuto G.F.S., come invece imposto dalla natura litisconsortile del giudizio, sicchè la sentenza pronunciata risultava essere stata emessa all’esito di un giudizio che non aveva visto il coinvolgimento di tutte le parti necessarie.

Ritiene La Corte che la soluzione alla quale è pervenuta la sentenza gravata sia corretta e che non possa avere seguito la richiesta di parte ricorrente di riforma della stessa, con la conseguente declaratoria di estinzione dell’intero giudizio.

Costituisce infatti orientamento costantemente seguito da questa Corte quello secondo cui (cfr. Cass. n. 18853/2014, in relazione al giudizio di rinvio), la corretta instaurazione del contraddittorio in sede di riassunzione impone la previa chiamata in giudizio di tutti i destinatari della pronuncia rescindente e di quella cassata, essendosi determinata una situazione di cosiddetto litisconsorzio processuale necessario, in presenza della quale la citazione in riassunzione nella fase procedimentale di rinvio si configura non come atto di impugnazione, bensì come attività di impulso processuale che deve coinvolgere gli stessi soggetti che furono parti nel giudizio di legittimità e nei cui confronti è stata emessa la pronuncia di annullamento della precedente sentenza.

Per l’effetto, il giudizio di rinvio, pur risultando tempestivamente instaurato con la citazione di anche una sola di dette parti entro il termine di legge, non può legittimamente proseguire se il giudice adito, in applicazione dei principi in tema di litisconsorzio necessario nelle fasi di gravame, non disponga l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutte le parti cui non risulti notificato l’atto introduttivo del giudizio.

Quindi, deve ritenersi che (Cass. n. 4370/2012) se il giudizio, dopo la cassazione con rinvio della sentenza di merito, è tempestivamente riassunto nei confronti di alcuni soltanto dei litisconsorti necessari, non si verifica l’estinzione del processo, essendo dovere del giudice ordinare l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 102 c.p.c.; soltanto ove tale ordine non sia tempestivamente eseguito potrà essere dichiarata l’estinzione del processo.

Analogamente, in caso di riassunzione a seguito di declaratoria di incompetenza si è affermato che (cfr. Cass. n. 17482/2012) la tempestiva riassunzione della causa, davanti al giudice dichiarato competente, nei confronti di uno dei litisconsorti è sufficiente ad evitare l’estinzione, estendendo i suoi effetti conservativi agli altri soggetti necessari, nei cui confronti la riassunzione tardiva assume il carattere di atto di integrazione spontanea del contraddittorio.

La conclusione secondo cui ai fini della validità della riassunzione del giudizio, in caso di processi litisconsortili è sufficiente l’evocazione in giudizio anche di uno solo dei litisconsorti, ponendosi, in caso di omessa evocazione in giudizio di tutte le parti necessarie, un obbligo del giudice di disporre l’integrazione del contraddittorio, così che l’estinzione potrà essere pronunciata solo nel caso di mancata ottemperanza a tale successivo ordine, costituisce a ben vedere una regola di carattere generale suscettibile di trovare applicazione a tutte le ipotesi di riassunzione, ed in speciale modo nel caso in cui ciò determini l’introduzione di un giudizio ex novo, o una fase o un nuovo grado di giudizio, come deve ritenersi che accada anche nel caso di rimessione della causa al giudice di primo grado, a seguito di annullamento della sentenza da parte del giudice di appello ex art. 354 c.p.c.

Va pertanto confermata la non recente giurisprudenza di questa Corte che, proprio in relazione all’ipotesi ora in esame, ha affermato che (Cass. n. 2397/1974) ove la Corte di appello, abbia rimesso le parti al primo giudice a seguito della mancata partecipazione al giudizio di un litisconsorte necessario, non ricorrono nè la nullità dell’atto di riassunzione nè l’estinzione del processo nel caso in cui tale atto sia stato notificato, nel termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza di appello (non notificata), soltanto nei confronti del soggetto già convenuto in giudizio, mentre l’altro litisconsorte, la cui mancata partecipazione al processo ha dato luogo alla sentenza di rimessione, sia stato chiamato in causa mediante atto di citazione notificatogli dopo la scadenza di detto termine, in esecuzione di un provvedimento del giudice.

Ne discende che nel caso di specie, una volta affermata la nullità della prima sentenza emessa dal Tribunale e disposta la rimessione al giudice di primo grado, per l’integrazione del contraddittorio, ai fini della tempestività della riassunzione, ed in maniera tale da precludere l’estinzione del giudizio (che peraltro, attesa l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 307 c.p.c. nella sua formulazione anteriore alla modifica di cui alla L. n. 69 del 2009, non risulta allegato essere stata immediatamente eccepita dai ricorrenti) era sufficiente evocare in giudizio anche i soli eredi di G.F.D., come appunto avvenuto, essendo invece obbligo del giudice, anche eventualmente su sollecitazione delle parti, disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri eredi dell’originario convenuto.

L’omessa adozione di un siffatto provvedimento ha peraltro fatto sì che il giudizio di primo grado si sia svolto a contraddittorio non integro, e che pertanto, esclusa per quanto detto la possibilità di pronunziare l’estinzione del giudizio, in grado di appello la Corte distrettuale non poteva che prendere atto, anche d’ufficio, della disintegrità del contraddittorio in primo grado, pervenendo alla conseguente declaratoria di nullità della sentenza, con nuova rimessione della causa al giudice di primo grado ex art. 354 c.p.c., ma senza che potesse invece avere seguito la diversa richiesta di parte ricorrente di estinzione del giudizio.

1.4 Nè appare idonea ad impedire tale soluzione, anticipando in parte anche alcune delle questioni poste dal ricorso incidentale, la circostanza che in grado di appello siano stati evocati in giudizio anche gli altri coeredi dell’appaltatore, atteso che, gli stessi, nel costituirsi in giudizio hanno a loro volta chiesto dichiararsi l’estinzione del giudizio (richiesta alla quale non è possibile accedere) ovvero dichiararsi la nullità della sentenza, mostrando in tal modo di non essere intenzionati ad accettare gli esiti del giudizio di primo grado al quale non era stato loro consentito di prendere parte, proprio in quanto non evocati.

Al riguardo valga il richiamo a quanto affermato da questa Corte secondo cui (Cass. n. 23701/2014) solo nell’ipotesi in cui il litisconsorte necessario pretermesso intervenga volontariamente in appello ed accetti la causa nello stato in cui si trova, chiedendo che sia così decisa, e nessuna delle altre parti resti privata di facoltà processuali non già altrimenti pregiudicate, il giudice di appello non può rilevare d’ufficio il difetto di contraddittorio, nè è tenuto a rimettere la causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 354 c.p.c., ma deve trattenerla e decidere sul gravame, risultando altrimenti violato il principio fondamentale della ragionevole durata del processo, il quale impone al giudice di impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione della controversia, essendo quindi evidente che al di fuori di questa ipotesi si imponga la declaratoria di nullità della sentenza ex art. 354 c.p.c.

1.5 Peraltro nemmeno può darsi seguito all’affermazione di parte ricorrente secondo cui già la prima sentenza della Corte d’Appello, nel dichiarare la nullità della prima decisione emessa dal Tribunale, e nel disporre la riassunzione del giudizio dinanzi al Tribunale per l’integrazione del contraddittorio, avrebbe già disposto un ordine ai sensi dell’art. 102 c.p.c., comma 2.

Ed, infatti, in disparte la considerazione secondo cui con tale espressione, la Corte di merito intendeva ribadire la necessità che in relazione alla causa che aveva determinato la declaratoria di nullità della prima sentenza del Tribunale, dovesse essere celebrato un nuovo giudizio di primo grado, consentendo la partecipazione anche degli eredi di G.F.D., pregiudicati dalla mancata interruzione del giudizio, e ciò unitamente agli altri eredi dell’originario convenuto, nei cui confronti era stata comunque effettuata la riassunzione, ritiene il Collegio di dover ribadire il principio per il quale (cfr. Cass. n. 2992/1982; Cass. n. 13188/1999) la regola, per cui, quando una qualsiasi domanda debba essere proposta entro un termine perentorio nei confronti di più contraddittori necessari, è sufficiente la tempestiva proposizione nei confronti anche di uno solo di questi, dovendo poi il giudice provvedere ad ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, può operare solo nei casi in cui il giudizio ha inizio – o ex novo o in una fase o in un grado nuovi -, ma non quando avendo avuto luogo tale inizio con pretermissione di taluni litisconsorti il giudice abbia pronunziato l’ordine suddetto e la parte onerata dell’integrazione abbia alla stessa solo parzialmente provveduto evocando in giudizio soltanto alcuni di questi ultimi. In tal caso infatti, non è consentita l’assegnazione di un nuovo termine perentorio per il completamento della già disposta integrazione sia perchè difetta il presupposto che rende applicabile l’art. 102 c.p.c. (e cioè l’introduzione ex novo del giudizio) sia perchè tale assegnazione equivarrebbe alla concessione di una proroga del termine perentorio precedentemente fissato, espressamente vietata dall’art. 153 c.p.c..

La riassunzione del giudizio disposta ai sensi dell’art. 354 c.p.c. appare quindi sussumibile nell’ambito delle ipotesi che a mente della giurisprudenza di questa Corte, impongono, in caso di mancata evocazione di tutte le parti necessarie, di dover assegnare un termine per l’integrazione del contraddittorio, determinandosi quindi l’estinzione, solo nel caso di inottemperanza a tale ordine nel termine assegnato.

Per l’effetto deve escludersi che l’eventuale ordine di integrazione del contraddittorio che avrebbe potuto emettere il giudice della causa riassunta sia una mera duplicazione dell’ordine già contenuto nel dispositivo della sentenza che ha pronunciato l’annullamento con riassunzione della sentenza di primo grado, e che quindi la fissazione di tale termine per l’integrazione del contraddittorio (la cui omissione ha imposto alla Corte distrettuale di dover adottare la seconda sentenza di annullamento in questa sede impugnata) equivalga, come invece sostenuto da parte ricorrente, ad una proroga di un termine già assegnato a tal fine.

1.6 Ancora, l’obbligo della riassunzione dinanzi al giudice di primo grado, a seguito dell’annullamento della sentenza del Tribunale, e quindi la necessità di introdurre una nuova fase del processo, ancorchè in funzione di prosecuzione del giudizio originario, impone che la riassunzione, intesa quale atto di impulso processuale, debba essere indirizzata nei confronti di tutte le parti necessarie del giudizio, ancorchè assenti ovvero contumaci nella precedente fase.

Ciò implica altresì che diviene priva di rilevanza la doglianza con la quale i ricorrenti principali lamentano che gli altri coeredi del G.F.S. siano stati ritenuti contumaci nel corso del primo giudizio dinanzi al Tribunale, nella motivazione della sentenza oggi gravata.

Ed, invero, anche laddove tale affermazione fosse erronea, la contumacia non esimeva comunque gli attori dal dover riassumere il giudizio a seguito della prima sentenza della Corte di Appello anche nei loro confronti.

A ciò aggiungasi che, a parziale correzione della motivazione della sentenza gravata, la detta finalità di impulso processuale dell’atto di riassunzione, nel caso in cui il giudizio debba proseguire a seguito della declaratoria della nullità della sentenza di primo grado, con regressione dinanzi allo stesso giudice che ha emesso la sentenza annullata, impone l’evocazione in giudizio di tutte le parti, senza che possa trovare applicazione il diverso orientamento (di cui sono espressione le sentenze di questa Corte nn. 13981/2011 e 5341/2004 citate nella pronuncia impugnata) per il quale la notificazione dell’atto di riassunzione alla parte contumace, in base al combinato disposto dell’art. 292 c.p.c. e art. 125 disp. att. c.p.c., non si giustifica nelle ipotesi di riassunzione senza mutamenti sostanziali degli elementi costitutivi del processo, trattandosi di affermazione destinata a trovare applicazione nel diverso caso in cui la riassunzione debba avvenire dinanzi allo stesso giudice, a seguito di una vicenda anomala del processo, quale l’interruzione.

1.7 Le superiori considerazioni in merito alla doverosità per il giudice della riassunzione di ordinare l’integrazione del contraddittorio, nel caso in cui non siano stati evocati in giudizio tutti i litisconsorti, danno altresì giustificazione dell’infondatezza del terzo motivo, occorrendo escludere che la rimessione della causa per la seconda volta al giudice di primo grado, ma come visto per ragioni diverse da quelle scrutinate nella prima occasione, equivalga alla concessione non richiesta, ed in deroga al principio della non prorogabilità dei termini perentori, di un nuovo termine per l’integrazione del contraddittorio, occorrendo ribadire quanto già detto circa il fatto che il richiamo nel dispositivo della sentenza impugnata all’integrazione del contradditorio innanzi al giudice di primo grado, non serva che a ribadire la necessità che in sede di rimessione debbano essere posti nella condizione di poter partecipare tutti i litisconsorti necessari.

2. Nel rinviare la disamina del quarto motivo del ricorso principale alla disamina anche del quarto motivo del ricorso incidentale, vertendo entrambi sulle statuizioni in punto di spese di lite adottate dal giudice di appello, con il primo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione degli artt. 101,102,103,291,292,293,302,324,353 e 354 c.p.c., art. 125 disp. att. c.p.c., artt. 752 e 2909 c.c., laddove la Corte d’Appello ha ritenuto che a seguito della declaratoria di nullità della prima sentenza del Tribunale, l’atto di riassunzione dovesse essere notificato anche agli altri eredi dell’originaria parte convenuta.

A tal fine si deduce che i ricorrenti dinanzi al Tribunale ed a seguito della riassunzione non avevano mai lamentato il difetto di integrità del contraddittorio.

Inoltre le norme in tema di interruzione sono preposte esclusivamente alla tutela della parte colpita dall’evento interruttivo, sicchè correttamente l’atto riassuntivo era stato indirizzato ai soli ricorrenti, quali soggetti pregiudicati dall’omessa interruzione.

Ancora gli altri eredi di G.F.S. non avevano proposto appello avverso nessuna delle due sentenze adottate dal Tribunale, con il conseguente formarsi del giudicato sul punto.

2.1 Il motivo è destituito di fondamento.

Rileva a tal fine la Corte che la nullità scaturente dall’omessa integrazione del contradditorio costituisce pacificamente una nullità rilevabile di ufficio, posto che la mancata integrazione del contraddittorio in causa inscindibile (tale dovendosi ritenere quella in esame, ove si impone la partecipazione di tutti gli eredi dell’originaria parte convenuta) si ricollega comunque ad un difetto di attività del giudice, al quale incombeva l’obbligo di adottare un provvedimento per assicurare il regolare contraddittorio nel processo (cfr., ex multis, Cass. 15/5/2009 n. 11315).

Da ciò deriva, in primo luogo, che la nullità della sentenza del Tribunale, per essere stata emessa all’esito di un giudizio a contraddittorio non integro, poteva essere rilevata anche d’ufficio, indipendentemente dalla formale eccezione da parte degli appellanti ovvero dall’omessa impugnazione dei litisconsorti pretermessi (potendosi sul punto far rinvio a quanto osservato sub 1.4, circa la necessità dell’accettazione della causa nello stato in cui si trovava da parte dei litisconsorti pretermessi, al fine di escludere la nullità della decisione adottata in loro assenza).

In secondo luogo, il rilievo officioso della nullità della sentenza emessa a contraddittorio non integro nel giudizio litisconsortile, e la natura stessa del giudizio impediscono altresì che possa reputarsi formato un giudicato sol perchè i soggetti pretermessi non abbiano proposto autonomamente impugnazione, trattandosi in ogni caso di sentenza inutiliter data.

Infine, quanto sopra evidenziato al punto 1.5 circa la necessità che la riassunzione dinanzi al giudice di primo grado debba essere indirizzata a tutte le parti del processo litisconsortile, anche se magari contumaci nelle precedenti fasi, esclude di poter accedere alla tesi difensiva dei ricorrenti incidentali secondo cui erano solo gli odierni ricorrenti a dover essere destinatari della riassunzione, occorrendo invece coinvolgere non solo gli eredi di G.F.D., ma anche i restanti eredi di G.F.S..

3. Il secondo motivo del ricorso incidentale denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 101,102,103,291,292,293,302,353 e 354 c.p.c. e art. 125 disp. att. c.p.c., laddove i giudici di appello, per giustificare la necessità della riassunzione anche nei confronti degli altri eredi di G.F.S. hanno fatto richiamo ai precedenti di questa Corte nn. 13981/2011 e 5341/2004, trascurando il fatto che questi ultimi non si erano affatto costituiti nel primo giudizio dinanzi al Tribunale, così che non si giustificava la necessità della riassunzione nei loro confronti.

La doglianza è infondata, occorrendo a tal fine rimandare a quanto sopra esposto al punto 1.6 circa la necessità di dover procedere alla correzione della motivazione della sentenza impugnata, dovendosi individuare la necessità che la riassunzione fosse indirizzata verso tutti gli eredi dell’originario convenuto, non già in base ai principi espressi dalle ora menzionate sentenze di questa Corte, quanto per la diversa finalità di assicurare che la prosecuzione del giudizio a seguito della rimessione al Tribunale coinvolgesse tutte le parti necessarie del giudizio.

4. Il terzo motivo del ricorso incidentale denunzia un’ulteriore violazione degli artt. 101,102,103,291,292,293,302,324,353 e 354 c.p.c. e art. 125 disp. att. c.p.c., essendo stato violato il principio secondo cui la mancata integrazione del contraddittorio non comporta la nullità della sentenza e la conseguente rimessione della causa al giudice di primo grado, laddove a tale pronuncia consegua un dispendio di energie processuali non suscettibile di meglio garantire le esigenze della difesa e di partecipazione delle parti al processo.

A tal fine viene richiamata la seconda parte della massima di Cass. n. 3830/2010, omettendosi però di riportare anche la prima parte.

La vicenda esaminata in quella circostanza concerneva un’ipotesi in cui erano state impugnate dinanzi a questa Corte delle sentenze che avevano deciso separatamente nel merito la causa relativa alla rettifica del reddito di una società di persone e quella concernente la conseguente automatica imputazione dei redditi stessi a ciascun socio, affermandosi però che non poteva essere dichiarata la nullità per essere stati i giudizi celebrati senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari (società e soci) in violazione del principio del contraddittorio, potendosene infatti disporre la riunione anche in sede di legittimità, in quanto emergeva la piena consapevolezza di ciascuna parte processuale dell’esistenza e del contenuto dell’atto impositivo notificato alle altre parti e delle difese processuali svolte dalle stesse, essendosi caratterizzati i due processi da identità oggettiva quanto a “causa petendi” dei ricorsi, dalla simulatanea proposizione degli stessi avverso il sostanzialmente unitario avviso di accertamento costituente il fondamento della rettifica delle dichiarazioni sia della società che di tutti i suoi soci e, quindi, identità di difese, dalla simultanea trattazione degli afferenti processi innanzi ad entrambi i giudici del merito e dalla identità sostanziale delle decisioni adottate da tali giudici.

Trattasi a ben vedere di una applicazione dei principi affermati da Cass. S.U. n. 14815/2008, ai quali si è successivamente uniformata anche la successiva giurisprudenza, e che si giustificano per la peculiarità della vicenda che nei fatti ha visto assicurata la trattazione unitaria delle vicende dei soci e della società, posto che i ricorsi, pur rimanendo formalmente separati, avevano viaggiato parallelamente ricevendo una soluzione unitaria.

Il precedente appare invece conferente rispetto al caso in esame, nel quale alcuni dei coeredi del convenuto non sono stati messi in grado di poter prendere parte al giudizio riassunto, conclusosi con una sentenza favorevole alla controparte.

E’ pur vero che Cass. S.U. n. 26373/2008, valorizzando il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), che impone al giudice di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perchè non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 c.p.c., da effettive garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111 Cost., comma 2), dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti, ha ritenuto superflua la concessione di un termine per la notifica, omessa, del ricorso per cassazione alla parte totalmente vittoriosa in appello, avendo però a monte valutato inammissibile il ricorso in mancanza dell’esposizione sommaria dei fatti, della specificità dei motivi e del rispetto del principio dell’autosufficienza, ma ciò appunto sul presupposto dell’evidente infondatezza o inammissibilità dell’atto da notificare, con l’assenza di qualsivoglia pregiudizio per la controparte.

Nel caso in esame, invece, è la parte vittoriosa all’esito del giudizio di primo grado, svoltosi però in assenza di alcune delle parti necessarie del giudizio, a voler sostenere la superfluità del rispetto del principio del contraddittorio, trascurando tuttavia che proprio la violazione di tale regola ha impedito a monte l’esplicazione del diritto di difesa delle controparti, sul presupposto infondato che la mancata impugnazione della seconda sentenza del Tribunale sia conseguenza del loro disinteresse alla lite, ben potendosi ipotizzare invece che invece tale inerzia sia ricollegabile alla stessa ignoranza della intervenuta prosecuzione del giudizio (il che trova poi conferma nel fatto che, una volta integrato il contraddittorio in grado di appello – sebbene tardivamente per quanto detto – gli altri eredi del convenuto abbiano sollecitato l’estinzione del giudizio o comunque la declaratoria di nullità della sentenza emessa dal Tribunale all’esito della riassunzione).

Nè può reputarsi conferente rispetto al caso in decisione, il richiamo compiuto dalle parti a Cass. S.U. n. 12644/2008, trattandosi di precedente che attiene ad una fattispecie di nullità processuale del giudizio di primo grado, diversa da quelle contemplate dagli artt. 353 e 354 c.p.c., come invece nel caso de quo, che invece impongono la rimessione al giudice di primo grado, anche a prescindere dalla proposizione di censure nel merito (cfr. Cass. n. 2053/2010).

5. Il quarto motivo del ricorso incidentale lamenta poi la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., lamentando la avvenuta compensazione delle spese del primo e del secondo grado, ma trattasi in realtà di una richiesta di rivisitare il capo delle spese, sul presupposto della fondatezza dei precedenti motivi di ricorso incidentale, che, ad avviso della parte, avrebbero dovuto portare ad una cassazione della sentenza, e quindi all’affermazione della soccombenza della controparte, mancando quindi una diretta censura alla decisione del giudice di appello.

6. Il quarto motivo del ricorso principale a sua volta denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si rileva che il giudizio di appello non si è concluso con una soccombenza reciproca, ma con l’integrale soccombenza, ancorchè per ragioni di carattere processuale, della controparte, sicchè le spese dovevano essere poste a carico delle originarie parti attrici.

Nè peraltro è dato ravvisare la presenza di gravi ed eccezionali ragioni che giustifichino la compensazione, essendo del tutto insufficiente la motivazione adottata dai giudice di merito, con il richiamo al comportamento processuale delle parti ed alle ragioni della decisione.

Il motivo è infondato.

In primo luogo deve richiamarsi il costante principio della Corte per il quale (cfr. Cass. n. 3609/1982) l’obbligo del giudice di secondo grado di provvedere sulle spese, quando rimette le parti in primo grado per difetto di integrità del contraddittorio (art. 354 c.p.c., comma 1), in considerazione del fatto che tale pronuncia segna la chiusura del procedimento davanti al giudice medesimo, non implica necessariamente una statuizione di condanna, sussistendo anche in questo caso il potere di compensare le spese a norma dell’art. 92 c.p.c..

Nella fattispecie, la decisione gravata ha ritenuto di doversi avvalere del potere discrezionale di compensare le spese ai sensi dell’art. 92 c.p.c., che nel caso in esame risulta applicabile secondo la formulazione anteriore alle modifiche di cui alla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), trattandosi di giudizio già pendente alla data di entrata in vigore della novella.

A tal fine deve richiamarsi la regola secondo cui (cfr. da ultimo Cass. n. 1997/2015) ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo applicabile “ratione temporis” (prima della modifica introdotta dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), la scelta di compensare totalmente o parzialmente le spese processuali è riservata al prudente apprezzamento del giudice sulla base di un adeguato supporto motivazionale, che può anche desumersi dal complesso delle considerazioni giuridiche o di fatto enunciate a sostegno della decisione di merito o di rito, ovvero dal riferimento “alle questioni trattate” (così Cass. n. 661/2015, anche nella prospettiva più rigorosa introdotta dalla richiamata L. 28 dicembre 2005, n. 263; nonchè Cass. n. 24531/2010 che esclude la necessità di adottare motivazioni specificamente riferite al provvedimento di compensazione purchè, tuttavia, le ragioni giustificatrici dello stesso siano chiaramente desumibili dal complesso della motivazione adottata), fermo restando che la valutazione operata dal giudice di merito può essere censurata in cassazione se le spese sono poste a carico della parte totalmente vittoriosa ovvero quando la motivazione sia illogica e contraddittoria e tale da inficiare, per inconsistenza o erroneità, il processo decisionale.

Si è quindi ribadito che la valutazione discrezionale del giudice di optare per la compensazione delle spese di lite restava suscettibile di sindacato in sede di legittimità solo sotto il profilo della sufficienza ed adeguatezza della motivazione (cfr. Cass. n. 7523/2009), potendosi ritenere assolto l’obbligo del giudice anche allorchè le argomentazioni svolte per la statuizione di merito (o di rito) contengano in sè considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare la regolazione delle spese adottata, come – a titolo meramente esemplificativo – nel caso in cui si dà atto, nella motivazione del provvedimento, di oscillazioni giurisprudenziali sulla questione decisiva, ovvero di oggettive difficoltà di accertamenti in fatto, idonee a incidere sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti, o di una palese sproporzione tra l’interesse concreto realizzato dalla parte vittoriosa e il costo delle attività processuali richieste, ovvero, ancora, di un comportamento processuale ingiustificatamente restio a proposte conciliative plausibili in relazione alle concrete risultanze processuali (così Cass. S.U. n. 20598/2008).

7. Il ricorso principale ed incidentale vanno pertanto rigettati.

8. Attesa la reciproca soccombenza tra ricorrenti principali ed incidentali sussistono i presupporti per la compensazione tra gli stessi delle spese del presente giudizio.

9. Poichè il ricorso principale ed incidentale sono stati proposti successivamente al 30 gennaio 2013, e sono rigettati, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti principali ed incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per le stesse impugnazioni.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale e compensa le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti principali ed incidentali del contributo unificato dovuto per i rispettivi ricorsi principale ed incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 3 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2017

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