Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29209 del 12/11/2019

Cassazione civile sez. VI, 12/11/2019, (ud. 05/06/2019, dep. 12/11/2019), n.29209

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1146/-2018 proposto da:

G.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato DANIELA TERRACCIANO, che

lo rappresenta e difende.

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (OMISSIS), in

persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso la sede dell’AVVOCATURA

dell’Istituto medesimo, rappresentato e difeso dagli avvocati LELIO

MARITATO, ANTONINO SGROI, ESTER ADA VITA SCIPLINO, GIUSEPPE MATANO,

CARLA D’ALOISIO, EMANUELE DE ROSE;

– controilcorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) SRL;

– intimato –

avverso la sentenza n. 4415/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 10/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 05/06/2019 dal Consigliere Relatore Dott. DE FELICE

ALFONSINA.

Fatto

RILEVATO

CHE:

la Corte d’appello di Roma, a conferma della sentenza del Tribunale, ha rigettato la domanda di G.D. rivolta a sentir condannare l’Inps a integrare i contributi previdenziali a lui dovuti a seguito della sentenza di reintegra nel posto di lavoro per illegittimità del licenziamento comminato dall’Hotel Cicerone s.r.l., successivamente incorporato nella Società (OMISSIS) s.r.l.; la domanda del lavoratore, che aveva esercitato il diritto d’opzione contemplato dalla legge, era finalizzata ad ottenere la differenza tra l’ammontare contributivo versatogli in esecuzione della sentenza, parametrato al minimo contrattuale e quello commisurato alla superiore retribuzione effettivamente percepita, nonchè il versamento dei contributi dalla data del licenziamento (27 ottobre 1997) a quella dell’esercizio del diritto di opzione (13 gennaio 2003);

la Corte d’appello, ha confermato la statuizione del Tribunale, il quale aveva riconosciuto il diritto alla contribuzione per soli trentasei mesi, avendo accertato maturata la prescrizione del diritto; tenuto conto che il diritto al versamento dei contributi derivava dalla sentenza del 19 dicembre 2002, la Corte territoriale ha accertato che l’appellante aveva chiesto alla Società (OMISSIS) s.r.l. l’intero ammontare (a decorrere dal licenziamento e fino alla data di esercizio del diritto di opzione) per la prima volta soltanto il 20 settembre 2007, ossia il giorno successivo allo scadere del quinquennio;

la cassazione della sentenza è domandata da G.D. sulla base di tre motivi, illustrati da successiva memoria; l’Inps ha resistito con tempestivo controricorso; la Società (OMISSIS) s.r.l. è rimasta intimata;

è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente deduce “Violazione e falsa applicazione del R.D.L. 14 aprile 1939, art. 27, come modificato dalla L. 30 aprile 1969 n. 153, art. 40”;

la sentenza gravata avrebbe erroneamente individuato il termine di prescrizione in cinque anni, nonostante il R.D.L. n. 636 del 1939, art. 27, così come modificato dalla L. n. 153 del 1969, art. 40 abbia affermato che il termine di prescrizione del diritto del lavoratore alla prestazione previdenziale “…s’intende verificato anche quando i contributi non siano effettivamente versati, ma risultino dovuti nei limiti della prescrizione decennale”; il ricorrente si sarebbe più volte attivato nell’arco del decennio con missive dirette all’Inps, per denunciare l’omessa regolarizzazione e l’inerzia dell’Istituto previdenziale in ordine al mancato recupero dei contributi dovuti nei confronti del datore;

con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contesta ” Violazione e falsa applicazione della L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 3, comma 9 nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 2935 c.c.”;

il giudice dell’appello avrebbe errato nell’individuazione oltre che della durata della prescrizione, del dies a quo di decorrenza della stessa, atteso che il ricorrente attraverso varie denunce all’Inps (considerate erroneamente generiche dalla Corte d’appello), aveva compiuto atti interruttivi della prescrizione ordinaria, e che dunque, in presenza della denuncia del lavoratore, il limite era da considerarsi decennale, così come previsto dalla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 9, lett. b);

con il terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contesta “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 2 settembre 1997 n. 314, art. 6, nonchè violazione e falsa applicazione del D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1, comma 1”;

il ricorrente evidenzia che la contribuzione in base ai minimi salariali previsti dal CCNL di categoria andrebbe presa quale riferimento soltanto nei casi in cui la retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore si riveli inferiore; nel caso in esame andrebbe censurato l’iter argomentativo della Corte territoriale, là dove questa ha erroneamente ritenuto, da un lato che il lavoratore avesse l’onere di indicare all’Inps l’imponibile in base al quale doveva essere effettuata la regolarizzazione della propria posizione contributiva, dall’altro, che l’Inps non era in possesso di elementi per determinarne l’importo e non aveva l’obbligo di attivarsi per verificare in via autonoma il suddetto imponibile;

i tre motivi di ricorso, esaminati congiuntamente per connessione, devono dichiararsi inammissibili;

essi hanno riguardo, rispettivamente, il primo al riconoscimento del diritto all’integrazione dei contributi domandato per il periodo che va dal licenziamento all’esercizio del diritto di opzione (e non per soli 36 mesi ai sensi dell’art. 18) nel limite della prescrizione decennale e non quinquennale, il secondo al dies a quo di decorrenza di quest’ultima, e infine, il terzo, al parametro di calcolo della contribuzione, che, a giudizio del ricorrente, avrebbe dovuto basarsi sulla retribuzione globale di fatto e non sui minimi tabellari;

dal tenore delle censure si ricava l’assenza di specificità del ricorso per il limite, insito nelle stesse, di pretendere di richiamare l’attenzione del giudice di legittimità sui punti di diritto e di fatto accertati dalla Corte territoriale disattendendo il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, a norma del quale il ricorrente deve indicare specificamente nell’atto introduttivo del ricorso per cassazione gli atti processuali su cui si fondano le sue doglianze e trascriverli nella loro completezza in relazione all’oggetto delle stesse, in modo da consentirne l’esame da parte di questa Corte;

le censure risultano formulate in modo del tutto generico e senza che il ricorrente fornisca elementi concreti dai quali ricavare che i precisi rilievi oggetto di accertamento da parte della Corte d’appello siano stati fuorvianti ai fini della decisione; non ad esempio a proposito delle presunte quattro missive interruttive del termine prescrizionale, delle quali la Corte territoriale menziona solo quella del 22 febbraio 2011, intervenuta il giorno successivo allo scadere del termine di prescrizione quinquennale; non a proposito del momento processuale in cui è stata proposta la violazione e falsa applicazione della L. n. 153 del 1969, art. 40 sulla presunta trasformazione del termine di prescrizione da quinquennale in decennale) di cui non vi è traccia nella sentenza gravata;

quanto in particolare a quest’ultima questione di diritto, prospettata dal ricorrente nel primo motivo, essa non risulta essere stata oggetto della sentenza impugnata;

come questa Corte ha già affermato, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, la parte ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice del merito, ma altresì – in ossequio al principio di specificità del ricorso – di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente la questione oggetto della doglianza sia stata posta, in modo da consentire a questa Corte di valutare ex actis la veridicità di quanto sostenuto (ex multis Cass. n. 6945 del 2018);

la sentenza gravata ha accertato seguendo un iter logico argomentativo esente da vizi, che l’odierno ricorrente non aveva mai individuato l’esatto importo della retribuzione globale di fatto, cui era tenuto visto il suo interesse personale; che, pertanto, la data individuata dal Tribunale per la decorrenza del dies a quo della prescrizione doveva ritenersi esatta; che sul punto l’odierno ricorrente non aveva mai formulato alcuna specifica censura nè alcuna richiesta di modifica del provvedimento impugnato;

valga, in proposito, il principio di diritto enunciato da questa Corte secondo cui “I motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza non possono essere affidati a deduzioni generali e ad affermazioni apodittiche, con le quali la parte non prenda concreta posizione, articolando specifiche censure esaminabili dal giudice di legittimità sulle singole conclusioni tratte dal giudice del merito in relazione alla fattispecie decisa. Invero, il ricorrente – incidentale, come quello principale – ha l’onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il “devolutum” della sentenza impugnata, con la conseguenza che il requisito in esame non può ritenersi soddisfatto qualora il ricorso per cassazione (principale o incidentale) sia basato sul mero richiamo dei motivi di appello, una tale modalità di formulazione del motivo rendendo impossibile individuare la critica mossa ad una parte ben identificabile del giudizio espresso nella sentenza impugnata, rivelandosi del tutto carente nella specificazione delle deficienze e degli errori asseritamente individuabili nella decisione. ” (Così Cass. n. 1479 del 2018; cfr. anche ex multis Cass. n. 15430 del 2018);

in definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile, le spese del presente giudizio, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza nei confronti della parte costituita; in assenza di attività difensiva non si provvede per le spese nei confronti dell’intimata;

in considerazione dell’esito del giudizio, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità nei confronti dell’Inps, che liquida in Euro 200 per esborsi, Euro 2000 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento ed accessori di legge. Nulla spese nei confronti della Società (OMISSIS) S.r.l. rimasta intimata.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’Adunanza camerale, il 5 giugno 2019.

Depositato in cancelleria il 12 novembre 2019

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