Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29207 del 21/12/2020

Cassazione civile sez. VI, 21/12/2020, (ud. 24/11/2020, dep. 21/12/2020), n.29207

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

Dott. CAPOZZI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19562-2019 proposto da:

B.A.M., elettivamente domiciliato in ROMA,

PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNA BELLIZZI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE -DIREZIONE PROVINCIALE di MATERA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 768/2/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE della BASILICATA, depositata il 21/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 24/11/2020 dal Consigliere Relatore Dott.ssa

CAPRIOLI MAURA.

 

Fatto

Ritenuto che:

B.M.A. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 768/02/2018, depositata dalla Commissione Tributaria Regionale della Basilicata il 21.12.2018, con la quale, in riforma della decisione del giudice provinciale, era rigettato il ricorso introduttivo del contribuente avverso la cartella di pagamento con la quale, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 ter, relativamente all’anno d’imposta 2011, erano recuperati a tassazione contributi previdenziali dichiarati e dedotti.

Ha riferito che a seguito di controllo formale sul Modello Unico presentato nel 2012 l’Amministrazione finanziaria non aveva riconosciuto le deduzioni riportate dal contribuente in dichiarazione e relative a contributi previdenziali corrisposti per conto di terzi, nonchè a spese mediche presso strutture convenzionate. Nello specifico si trattava dei contributi erogati a favore di tre collaboratori della impresa familiare, una farmacia.

La cartella era stata impugnata dal ricorrente dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Matera, che con sentenza n. 228/2017 aveva accolto le ragioni del contribuente.

La Commissione Tributaria Regionale della Basilicata, adita dalla Amministrazione Finanziaria, aveva accolto invece l’appello con la pronuncia ora al vaglio della Corte.

La CTR, richiamata la previsione normativa di riferimento (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10) affermava che la deduzione in capo a colui che versa i contributi previdenziali è possibile unicamente nell’ipotesi in cui il familiare sia fiscalmente a carico ed al contrario i contributi versati da un terza persona sono deducibili in capo al diretto interessato solo se sia stata effettuata la rivalsa da colui che ne ha diritto.

Osservava che nel caso di specie il titolare dell’impresa, obbligato al versamento dei contributi in favore dei familiari che collaborano nell’impresa, non può mai dedurli neppure se di fatto non ha esercitato la rivalsa salvo che quest’ultimi non siano fiscalmente a carico, circostanza questa non ricorrente nel caso in esame.

Il ricorrente censura la sentenza con tre motivi:

con il primo per violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lette e in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e l’omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Critica in particolare la decisione che avrebbero dato una interpretazione non corretta della previsione normativa di riferimento riconoscendo a torto la deduzione dei contributi nel solo caso in cui il familiare sia fisicamente a carico. il ricorrente si duole nella sostanza dell’errore di diritto nella applicazione della disciplina relativa alla deducibilità dei contributi previdenziali per collaboratori di impresa familiare.

Sostiene invece che solo l’esercizio della rivalsa avrebbe impedito la deduzione dal reddito.

Lamenta che la CTR non avrebbe neppure considerato che era stata fornita la prova documentale, attraverso la produzione in giudizio di u atto notorio, del mancato esercizio della rivalsa per i contributi pagati nell’interesse dei collaboratori.

Con un secondo motivo deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Ribadisce di aver provato in giudizio attraverso un atto notorio il mancato esercizio del diritto di rivalsa e la perdita di esercizio per l’anno 2011, circostanza queste non contestate dall’Agenzia delle entrate.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2697 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Afferma che l’Ufficio non avrebbe provato i fatti posti a fondamento della sua pretesa erariale a differenza del contribuente che attraverso l’articolata produzione documentale avrebbe dimostrato che i collaboratori erano fiscalmente a suo carico.

La parte intimata non si è costituita.

Diritto

Considerato che:

Il primo motivo è infondato.

Occorre premettere che la fattispecie afferisce al controllo formale ex art. 36 ter citato, relativo all’anno d’imposta 2011, la disciplina fiscale dei contributi previdenziali, compresi quelli corrisposti ai collaboratori di imprese familiari, si rinviene nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lett. e), e comma 2, (che da oltre trent’anni ha sostituito il D.P.R. n. 597 del 1973).

In particolare l’art. 10, tra gli oneri deducibili, nel comma 1, lett. e), comprende “i contributi previdenziali e assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge, nonchè quelli versati facoltativamente alla gestione della forma pensionistica obbligatoria di appartenenza, ivi compresi quelli per la ricongiunzione di periodi assicurativi…”. Il comma 2 afferma che “Le spese di cui alla lett. b) del comma 1 sono deducibili anche se sono state sostenute per le persone indicate nell’art. 433 c.c.. Tale disposizione si applica altresì per gli oneri di cui alla lett. e) del comma 1 relativamente alle persone indicate nel medesimo art. 433 c.c., se fiscalmente a carico.”.

Deve anche menzionarsi la L. n. 233 del 1990, art. 2, il quale dispone che “il titolare dell’impresa artigiana o commerciale è tenuto al pagamento dei contributi di cui all’art. 1, per sè e per i coadiuvanti e coadiutori, salvo diritto di rivalsa.”. In considerazione della materia disciplinata dalla legge -i trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi- è pacifico che i contributi richiamati dall’art. 2, siano quelli previdenziali. Trattasi peraltro di norma senz’altro riferibile anche ai collaboratori delle imprese familiari di cui all’art. 230 bis c.c., la cui collocazione nel TUIR trova sede tra le imprese in forma associata previste dall’art. 5, comma 4.

Circoscritto l’alveo normativo di riferimento, la disciplina dei trattamenti pensionistici prevede che il titolare dell’impresa, quanto ai contributi versati per il suo collaboratore, ha solo “diritto di rivalsa” sul beneficiato.

Il tenore letterale del secondo periodo dell’art. 10 TUIR, comma 2, peraltro, con espresso riferimento ai contributi previdenziali di cui al comma 1 lett. e), prevede che l’imprenditore che ne sopporta l’onere possa dedurli nella sola specifica ipotesi in cui il collaboratore per il quale è stato eseguito il versamento sia uno dei soggetti indicati nell’art. 433 c.c., e solo a condizione che si tratti di familiare comunque a suo carico. Se ne deduce che quando

il familiare collaboratore non sia a carico del titolare dell’impresa, la deducibilità è preclusa a quest’ultimo.

Salvo dunque che per l’ipotesi prevista dalla seconda parte dell’art. 10 TUIR, comma 2, per i familiari a carico, per tutte le altre ipotesi la deducibilità dei contributi previdenziali spetta a coloro per conto dei quali l’imprenditore abbia versato i contributi, mentre all’imprenditore medesimo spetta solo il diritto di rivalsa.

Può allora concludersi affermando il seguente principio di diritto “in tema di deducibilità dei contributi previdenziali versati dal titolare dell’impresa familiare nell’interesse dei collaboratori, l’imprenditore ha solo diritto di rivalsa nei confronti del beneficiato, potendo invece dedurne l’importo dal proprio reddito nella sola ipotesi in cui si tratti di familiare compreso nell’art. 433 c.c., e a condizione che sia a suo carico.”.

Per mera completezza, deve anche dedursi che il diritto alla deduzione può essere esercitato dai collaboratori a condizione che il titolare dell’impresa familiare abbia esercitato il diritto di rivalsa, perchè diversamente dovrebbe riconoscersi che il coadiutore goda di un doppio beneficio, il versamento dei contributi a suo beneficio da parte dell’imprenditore e la deduzione ai fini fiscali dei medesimi contributi dal proprio reddito (Cass. 2019 nr 34168).

Ebbene, il giudice regionale ha correttamente interpretato la normativa, rilevando che: il titolare dell’impresa non ha diritto alla deduzione dei contributi versati per i propri collaboratori, ancorchè familiari; ha il diritto di rivalsa.

Il Giudice di appello con una valutazione in fatto non sindacabile in questa sede ha escluso che i tre collaboratori fossero fiscalmente a carico dell’imprenditore, sicchè non era possibile applicare l’unica ipotesi, eccezionale, in cui all’imprenditore è riconosciuta la diretta deducibilità dei contributi.

Le considerazioni sin qui sviluppate portano a ritenere inammissibili le deduzioni sviluppate al punto 3 del ricorso dirette a censurare la valutazione del materiale probatorio.

Quanto poi al secondo motivo di censura va osservato che il mancato esercizio del diritto di rivalsa e la perdita di esercizio per l’anno 2011 quantunque provati attraverso la produzione dell’atto notorio, non assumono alcun rilievo ai fini qui in discussione per quanto su esposto.

In conclusione il ricorso è infondato e va rigettato.

Nessuna determinazione in punto spese stante la mancata costituzione della parte intimata.

PQM

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2020

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