Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29186 del 13/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 13/11/2018, (ud. 07/06/2018, dep. 13/11/2018), n.29186

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6619/2014 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FRANCESCO

DENZA 15, presso lo studio dell’avvocato NICOLA PAGNOTTA,

rappresentato e difeso dall’avvocato NICOLA CARRATELLI, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

SVILUPPO ITALIA CALABRIA S.C.P.A. IN LIQUIDAZIONE, in persona del

Liquidatore e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA CICERONE 66, presso lo studio dell’avvocato

ANDREA DE VIVO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 904/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 18/07/2013 R.G.N. 1271/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/06/2018 dal Consigliere Dott. LAURA CURCIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato NICOLA PAGNOTTA per delega Avvocato NICOLA

CARRATELLI;

udito l’Avvocato FRANCESCO D’ALESSIO per delega verbale Avvocato

ANDREA DE VIVO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 904 del 2013 la Corte d’appello di Catanzaro ha accolto parzialmente l’appello della società Sviluppo Calabria S.p.A. in liquidazione avverso la sentenza del tribunale di Catanzaro del 13.4.2010, che aveva accertato l’illegittimità del termine di due contratti stipulati dalla società con C.G. e l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a far tempo dal 1.10.2002 condannando la società al ripristino del rapporto a far data dal 2.3.2007 e con condanna altresì al pagamento delle retribuzioni maturate dal 3.5.2005 oltre interessi e rivalutazione.

La corte territoriale, ritenuti infondati i motivi di appello relativi alla risoluzione del primo contratto per mutuo consenso e alla non previsione da parte del D.Ls. n. 368 del 2001, della conversione in rapporto a tempo indeterminato in caso di termine invalido apposto al contratto, ha riformato la sentenza di primo grado con riferimento alle conseguenze risarcitorie dell’accertata nullità dei termini apposti ai contratti, applicando lo ius superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32 e respinte le tesi difensive dell’appellato C. con riferimento all’inapplicabilità della nuova normativa, ha determinando l’indennità risarcitoria in misura di cinque mensilità globali di fatto, con riconoscimento degli accessori di cui all’art. 429 c.p.c., comma 3, a far tempo dalla 13.4.2010, data della sentenza di primo grado di conversione del contratto a tempo indeterminato.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il C. affidato a quattro motivi, a cui ha resistito con controricorso la società, atti poi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 329, comma 2 e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.pc.., comma 1, n. 4; per il ricorrente non essendovi stata alcuna censura da parte della società alla sentenza di primo grado in ordine alla condanna al risarcimento del danno come determinato dal giudice di prime cure, si sarebbe formato un giudicato interno su tale capo di sentenza e pertanto la corte avrebbe violato il principio di cui all’art. 112 c.p.c., nel senso che la mancata impugnazione con riferimento all’an debeatur ne avrebbe precluso l’esame da parte del giudice di appello, con conseguente inapplicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32.

Con il secondo motivo di appello si deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la corte applicato l’art. 32 citato nonostante dopo la sentenza di primo grado si fosse formato un giudicato interno. Con il terzo motivo di gravame si lamenta un omesso esame circa un punto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa e comunque insufficiente motivazione in ordine al punto relativo alla mancanza di specifiche doglianze della società in punto di condanna al risarcimento del danno. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 329 c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non aver considerato la corte di merito che la società aveva omesso di formulare specifiche doglianze in relazione al capo di sentenza relativo al risarcimento del danno e dunque dimostrando il mancato interesse ad una specifica impugnazione.

I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente perchè connessi, se non in qualche passaggio anche ripetitivi, non meritano accoglimento perchè infondati.

La questione relativa all’applicabilità della nuova disciplina introdotta dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5 e 7, ai giudizi pendenti ed in particolare a quelli un cui non vi era stata da parte dell’appellante datore di lavoro una specifica censura riguardante la quantificazione del risarcimento del danno derivante dalla nullità del termine, è stata affrontata dalla sentenza di queste sezioni unite n. 21691 del 5.7.2016, al cui oramai consolidato orientamento si ritiene di dare continuità.

La corte, premesso che la violazione di norme di diritto di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, può concernere anche disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, qualora siano norme applicabili perchè dotate di efficacia retroattiva come nel caso di specie, ha precisato che la proposizione dell’impugnazione nei confronti della parte principale della sentenza impedisce il passaggio in giudicato anche della parte dipendente pur in assenza di impugnazione specifica di quest’ultima perchè, quando due o più parti della sentenza sono collegate da un nesso di dipendenza, l’accoglimento dell’appello della parte principale comporta la caducazione anche della parte dipendente. Le SU hanno quindi ritenuto che nel caso specifico “l’appello contro la parte della sentenza sull’illegittimità del termine esprime la volontà di chiedere al giudice anche la caducazione della parte dipendente della sentenza, cioè una chiara manifestazione di volontà contraria ad ogni acquiescenza alla parte principale della sentenza ed alle parti da essa dipendenti”.

Come ancora precisato nella citata sentenza “la modifica in appello della parte principale della decisione, può comportare conseguenze sulla parte relativa al connesso risarcimento dei danni, il che accentua la condizione di dipendenza e quindi di inidoneità di questa parte di decisione passare in giudicato”.

Il ricorso deve quindi essere respinto, con condanna del soccombente alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 3500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2018

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