Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 29166 del 13/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 13/11/2018, (ud. 29/05/2018, dep. 13/11/2018), n.29166

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1618-2016 proposto da:

CENTRO MEDICO E ODONTOIATRICO MEDICALDENT DI A.N. & C.

S.A.S., in persona del legale rappresentante pro tempore,

domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’ avvocato

SOLDANO SANSONE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

R.O., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE, 108, presso lo studio dell’avvocato PATRIZIA BISOGNO,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI CONCILIO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 998/2015 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 04/09/2015 R.G.N.; 610/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/05/2018 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

udito l’Avvocato VINCENZO SPARANO per delega Avvocato GIOVANNI

CONCILIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Salerno con sentenza resa pubblica il 4/9/2015, confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva dichiarato la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato il 25/6/2013 dal Centro Medico e Odontoiatrico Medicaldent di Aldo Noschese & C. s.a.s. nei confronti di R.O., accordando la tutela reintegratoria piena sancita dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 nella versione di testo applicabile ratione temporis.

A fondamento del decisum, argomentava in estrema sintesi la Corte distrettuale, che l’intimato recesso era stato in realtà ispirato da un motivo illecito ritorsivo. Il quadro probatorio delineato in prime cure, di natura testimoniale e documentale, aveva infatti evidenziato che il licenziamento era stato irrogato non già per addotte ragioni organizzative conseguenti alla prospettata crisi economica aziendale, bensì a causa del rifiuto opposto dalla lavoratrice alla riduzione dell’orario di lavoro che la società intendeva imporre, onde evitare la compresenza sul luogo di lavoro della R. con uno dei professionisti facenti parte della struttura.

La cassazione di tale decisione è domandata dalla società sulla base di plurimi motivi ai quali resiste con controricorso la lavoratrice.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3 e dell’art. 2697 c.c.ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si richiamano taluni principi in tema di licenziamento a carattere ritorsivo espressi da questa Corte, secondo cui l’onere probatorio relativo alla natura dell’atto espulsivo, grava sul lavoratore. Si ribadisce che il controllo sulla effettiva ricorrenza del giustificato motivo oggettivo comporta a carico della parte datoriale, l’onere di dimostrare l’impossibilità di utilmente collocare il lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte; con la precisazione che detto onere va comunque bilanciato con l’attività collaborativa del lavoratore nella indicazione di una sua possibile ricollocazione nell’assetto organizzativo aziendale.

2. Il motivo presenta evidenti profili di inammissibilità.

Ed invero, al di là di ogni pur assorbente considerazione in ordine alla irrituale modalità di prospettazione della censura, che reca la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge nonchè di vizi di motivazione, realizzando una impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013, Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014, cfr anche conf., Cass. n.14317 del 2016), va rimarcato che la censura non risulta calibrata in relazione al decisum.

Essa, infatti, denuncia genericamente – e per relationem rispetto ad un richiamato arresto giurisprudenziale – la lamentata violazione dell’onere della prova concernente l’intento di rappresaglia gravante sul lavoratore, questione che non risulta affrontata dalla Corte distrettuale la quale, all’esito di approfondito scrutinio del quadro probatorio delineato, ha ritenuto si imponesse con evidenza la natura ritorsiva del recesso intimato dalla società.

Neanche appare coerente con la statuizione impugnata, per le ragioni dianzi esposte, il richiamo della società a precedenti approdi di questa Corte di legittimità, la quale aveva escluso la ricorrenza di un motivo discriminatorio di licenziamento, in ipotesi di effettiva sopravvenuta riduzione dell’attività aziendale, con enunciazione dei principi in tema di obbligo di repechage.

Rinviene, quindi, applicazione nella fattispecie considerata, il principio affermato da questa Corte (vedi Cass. 3/8/2007 n.17125, Cass. 18/2/11 n.4036) secondo cui la proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al “decisum” della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione; requisiti questi non riscontrabili nella censura all’esame.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c., art. 420 c.p.c., commi 5-6 e dell’art. 2697 c.c. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 “con riferimento alle dichiarazioni rese dal teste L.D. e non anche a quelle del teste V.”…

3. Anche questa censura presenta le medesime criticità evidenziate in relazione al motivo che precede, sotto il profilo della promiscuità dei motivi oggetto di denuncia, che non consente di individuare in che modo le numerose norme richiamate in rubrica sarebbero state violate nella sentenza impugnata, quali sarebbero i principi di diritto asseritamente trasgrediti nonchè i punti della motivazione specificamente viziati (Cass. n. 17178 del 2014 e giurisprudenza ivi richiamata).

Inoltre, quanto alla pur generica doglianza concernente il vaglio delle dichiarazioni testimoniali acquisite, va rimarcato che il motivo sconta un ulteriore profilo di inammissibilità, giacchè trasmoda in una rivisitazione nel merito, degli apprezzamenti sul materiale istruttorio svolti dai giudici del gravame, con approccio non consentito nella presente sede di legittimità.

All’esito della riforma di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con mod. in L. 7 agosto 2012, n. 134, come sottolineato dalle sezioni unite di questa Corte (Cass. n. 8053 del 2014), è divenuta denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; è stato introdotto, quindi, nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.

4. Orbene, nello specifico I’ accertamento espletato dalla Corte di merito che investe le prove testimoniali e i dati documentali acquisiti, ivi compresa l’ordinanza del G.I.P. ove si dà atto di un colloquio registrato fra il datore di lavoro ed R.O., in cui la si informava delle lamentele avanzate dalla moglie di un medico relative ad una presunta relazione da lui intrattenuta con la ricorrente – rende atto della insussistenza del giustificato motivo oggettivo, e della ricorrenza di un motivo illecito ritorsivo del licenziamento, investendo pienamente la quaestio facti; rispetto a tale accertamento il sindacato di legittimità si arresta entro il confine segnato dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 7 aprile 2014.

5. Il terzo motivo prospetta violazione dell’art. 429 c.p.c. della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 57, u.c. e comma 50, primo capoverso anche in riferimento alla mancata fase di sospensiva e alla concessione di termini per il deposito di note difensive sia in riferimento alla fase di cui al n. 57 che di quella di cui al n. 60 della L. n. 92 del 2012, art. 1 ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

6. Il motivo è inammissibile.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, i vizi dell’attività del giudice che possano comportare la nullità della sentenza o del procedimento, rilevanti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non sono posti a tutela di un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma a garanzia dell’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa in dipendenza del denunciato “error in procedendo”, con conseguente onere dell’impugnante di indicare il danno concreto arrecatogli dall’invocata nullità processuale (vedi Cass. 9/7/2014 n.15676). Nello specifico la ricorrente, pur genericamente invocando un error in procedendo, integrante violazione dei dettami di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non fa richiamo alla nullità che la violazione della norma processuale comporta (vedi Cass. S.U. 24/7/2013 n. 17931), nè argomenta in ordine al pregiudizio che la supposta violazione avrebbe arrecato al proprio diritto di difesa; onde, anche sotto tale profilo, la censura si espone ad un giudizio di inammissibilità.

7. Con l’ultimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti.

Si lamenta che il giudice del gravame “non abbia rigorosamente verificato la sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento in violazione di legge rispetto alla novella L. n. 92 del 2012 cd. Legge Fornero. In particolare si assume che il giudicante avrebbe dovuto disporre il mutamento del rito ritenendo applicabile la normativa di cui alla L. n. 92 del 2012 o mantenere il rito adottato per la domanda relativa alla tutela obbligatoria pur compresa nell’originaria domanda, e non dichiarare in toto inammissibile il reclamo”.

8. Anche questa doglianza – peraltro assolutamente generica laddove neanche indica le disposizioni pretesamente violate e le argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità (vedi Cass. 29/11/2016 n.24298) – non si confronta con le ragioni della decisione, che correttamente ha disposto applicazione la normativa di cui alla L. n. 92 del 2012, rigettando il reclamo proposto dalla società e non dichiarandolo inammissibile, così come dalla stessa dedotto.

9. In definitiva, sotto tutti i profili delineati, il ricorso si palesa inammissibile.

Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1 quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida Euro 200,00 per esborsi ed in Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge da distrarsi in favore dell’avv.Giovanni Concilio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 29 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2018

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